Uno spaccato della società meridionale: il Cicolano, una terra al bivio

Francesco Di Gasbarro

Il Cicolano, staccato dalla regione Abruzzo nel 1927 e aggregato alla nuova provincia di Rieti, nel Lazio, è una lingua di terra che si estende in senso longitudinale, Est-Ovest, per circa 470 Kmq, fra due catene montuose, il Velino ed i Carseolani, che degradano irregolarmente verso un fondovalle ove scorre un fiumiciattolo, il Salto, che in estate resta in più parti all’asciutto, nel suo corso superiore, ma poi si allarga in un lago artificiale (dal 1940), una splendida gemma azzurra in un castone intensamente verde.

Il nome affonda le sue radici nella storia pre-romana (terra degli Equi, Aequicoli-Aequicolanum, nell’epoca classica; Eciculi, Eciculanum, nel medioevo) ed è quello comunemente usato per indicare l’area, anche se, nei documenti ufficiali, a partire dalla rivoluzione francese, figura quello più asettico di Valle del Salto.

Una ricca bibliografia si è occupato e si occupa di questa zona sottoponendo ad attenta ricerca gli aspetti naturali, le vicende storiche e religiose, le tradizioni popolari e, ultimamente, l’archeologia che, da venti anni, non cessa di portare alla luce elementi notevoli alla conoscenza delle origini degli Equi e della vasta koinè culturale cui essi partecipavano, restituendoci l’immagine di un popolo che poco si riconosce nell’“Horrida gens” di cui parla Virgilio nel libro 7’ dell’Eneide.

Il Cicolano entrò a far parte del regno dei Normanni nel 1140, con Ruggero I, e di questo regno visse tutte le vicissitudini fino al 1861, conservandone i tratti fondamentali che gli valsero l’inclusione, all’inizio degli anni ’50 del passato secolo, nell’area di competenza della Cassa per il Mezzogiorno.

La descrizione della società cicolana pertanto. la si può ritrovare pari pari nelle ampie inchieste sulla società meridionale compiute in un secolo di storia unitaria dai molti meridionalisti che, sfatando un discorso retorico che si tramandava da molti secoli, portarono alla luce un groviglio di problematiche che appesantivano qualsiasi cammino di sviluppo. Il brigantaggio, l’analfabetismo, l’aridità del suolo, l’assenza delle comunicazioni, gli usi civici, l’azione parassitaria e frenante della borghesia agraria sono solo alcuni dei pesi che stopparono per lunghissimi anni qualsiasi forma di evoluzione.

Il recentissimo libro fotografico di Carlo Proia tenta di restituirci quella società attraverso le fotografie.

La macchina fotografica coglie e fissa volti, scorci di paesaggio urbano, le campagne, gli animali, uomini e donne intenti alle loro attività o alle occupazioni domestiche, gli strumenti, le feste, le ricreazioni:immagini appartenenti ad un mondo che non c’è più, familiari agli ultracinquantenni, ma del tutto nuove alle giovani generazioni.

L’interesse, diffuso, con cui è stato accolto il libro denota, tuttavia, quanto profonde siano le radici di quella cultura, quanta suggestione essa ancora suscita nell’immaginario e come fertile sia il terreno nel quale poter seminare il seme dello sviluppo locale.

Un mondo, quello della civiltà contadina, che aveva le sue fondamenta nell’attività agro-pastorale, nella comunità del paese, che coincideva con la parrocchia, nella grande famiglia. Un mondo in cui le scuole erano rare e sotto-stimate, la mortalità scolastica altissima, i maestri, i medici, i vescovi arrivavano a dorso di mulo, ma anche dove i ragazzi, vivendo gomito a gomito in un rapporto serrato fra generazioni, in spazi spesso ridottissimi, apprendevano e sperimentavano quotidianamente, nella vita di tutti i giorni, i valori della solidarietà, della tolleranza, del rispetto, della frugalità, della laboriosità del gusto per le poche cose che, con molta fatica, si avevano a disposizione.

È venuta la rivoluzione industriale degli anni ’60 che, nello spazio di un decennio, ha decimato i paesi, ha sconvolto il sistema delle relazioni socio-economiche, ha intaccato valori millenari.

I Cicolani, in quegli anni, impararono a fare gli operai, trasferendosi nelle regioni dell’Italia del Nord, o in Gran Bretagna o in Germania, ma senza abbandonare neanche per un po’ la speranza di ritornare nella loro terra non appena anche lì fossero apparsi i miracoli della industrializzazione,

Nel corso degli anni ’70 le aree circonvicine della confinante provincia aquilana hanno visto sorgere iniziative di ogni genere. Il Cicolano, al contrario, ha visto solo lambirsi dalla A/24, quasi a marcarne il confine, e un abbozzo di area industriale che non ha mai occupato più di 150 addetti, il segno più chiaro della solitudine e della impotenza locale.

La fascia aquilana che da Carsoli arriva in fondo al Fucino per risalire poi sull’altipiano delle Rocche è tutta una catena di aziende industriali, turistiche e commerciali con centri abitati vivacissimi, sapientemente ristrutturati, ampliati con regolarità, piacevolmente arredati, rafforzati nella loro consistenza demografica.

Nel Cicolano, invece, la civiltà industriale ha sconvolto e tolto senza portare alcunché.

Lo spopolamento. Fra il 1961 ed il 1971 è stato registrato un calo demografico del 28%, passando da 19304 residenti a 13846. Nel ventennio successivo le perdite sono state di un altro 23%. La densità demografica da 43 abitanti per Kmq è passataa 24.

Con lo spopolamento, l’inevitabile invecchiamento della popolazione. Le classi di età 1-15 rappresentano il 15% di fronte al 24% degli ultrasessantenni.

I luoghi, una volta al centro della vita sociale ed economica, sono rimasti deserti: deserte le campagne, deserte le strade e le piazze, deserto il forno e le fontane, vuote le scuole e le chiese.

Le attività economiche tradizionali che avevano raggiunto nel corso dei secoli un grado di integrazione tale da costituire un sistema autonomo autosufficiente, capace di soddisfare le esigenze dell’intera popolazione residente che è stata sempre di molto superiore all’attuale, sono in parte scomparse ed in parte marginalizzate e, nel vuoto di ogni novità, le emigrazioni degli anni ’60 sono diventate definitive.

Adesso c’è il discorso del passaggio dalla civiltà industriale alla civiltà post-industriale. Questa ha nella globalizzazione il suo aspetto più evidente.

Senza entrare nel merito dei grandi temi che il termine richiama, restando legati al nostro campo di osservazione, è comune costatazione che le aree deboli, ovunque esse si trovino, siano aree a rischio.

L’identità culturale è la prima a frantumarsi sotto l’azione omologatrice dei media; successivamente viene minata la consistenza fisica delle comunità con il calvario delle emigrazioni;viene intaccato il senso di appartenenza alla comunità ed al territorio prospettandosi in altri luoghi il mondo delle speranze.

Per il Cicolano sarebbe la seconda ondata emigratoria dopo quella degli anni ’60.

Questa eventualità è dolorosamente diffusa. Le famiglie si interrogano con preoccupazione sul futuro dei figli che, qualunque livello di studi percorrano, laurea o diploma professionale, alla fine, comunque, saranno costretti a pensare altrove il loro impiego e la loro vita.

Il Cicolano fino al 1806, pur di estensione limitata, era costituito da 30 feudi intorno ai quali gravitavano 90 minuscoli centri abitati sparsi sul territorio come tanti fazzolettini bianchi in un mare di verde. Aboliti i feudi, furono creati, al loro posto, quattro comuni. All’inizio degli anni ’70 nacquero le Comunità Montane, quale ulteriore forma di unificazione territoriale. Nella realtà ogni comune marcia per proprio conto e, all’interno dei comuni, ogni frazione tende a ritagliarsi uno spazio esclusivo.

È mancato e manca l’elemento di sintesi che può nascere solo dalla consapevolezza dell’unità territoriale;solo e quando il Cicolano, appunto, viene percepito nella coscienza collettiva come il territorio di tutti, base e punto di riferimento per ciascuno. Solo un grande progetto che riguardi l’intero territorio ed abbia lo scopo di valorizzare le sue peculiarità, nel senso dello “sviluppo locale”, può consentire di sfuggire al rischio di omologazione e di dispersione.

Il libro di Carlo Proia, con le sue immagini, evidenzia la profonda identità culturale che è alla base delle tante e piccole comunità cicolane. I costumi, le tradizioni, il linguaggio, le attività economiche sono ovunque le stesse.

Anche nel passato recente molta parte della bibliografia si era dedicata ad analizzare questi aspetti ed aveva sottolineato la sostanziale omogeneità culturale della vallata. Vicino a questo aspetto certamente dominante, però, non si può non evidenziare il profondo individualismo che impedisce e mina ogni forma di associazionismo. Un individualismo che si esprime nei detti popolari del tipo “amore e mercanzia si fa da soli”, oppure “nella società uno è poco e due son troppi”, o anche “ognuno per sé e Dio per tutti.”

Questo fortissimo individualismo, trasferito nel settore pubblico, ha fatto e fa in modo che i comuni siano sostanzialmente la somma delle loro frazioni e la Comunità Montana sia la somma dei comuni, lasciando, in definitiva, che il tutto cammini in sostanziale continuità con gli antichi feudi, formalmente aboliti nel 1806, ma nei fatti vivi e vegeti.

Solo il superamento di questo estremo particolarismo può consentire al Cicolano di sfuggire ad un destino ancora più amaro di quello cui andò incontro nel corso degli anni ’60. C’è bisogno di un grande sforzo unitario per poter arrivare alla valorizzazione ed alla esaltazione delle risorse ambientali e culturali. Le capacità dei gruppi dirigenti non solo dei comuni, ma di tutte le entità, pubbliche e private, operanti nel territorio di “fare coalizione” è la via obbligata per innescare dinamiche di crescita che, opportunamente accompagnate, possono portare al rimodellamento, su basi nuove, di un sistema di relazioni socio-economiche che apra alle nuove generazioni una prospettiva locale.

Una rivoluzione culturale, appunto, senza la quale non ci potrà essere nessuna rinascita economica.