Una buona scuola o la società dello spettacolo: da che parte stanno i progressisti italiani?

Michele Loporcaro

Parlare di scuola, e di istruzione a tutti i livelli, non è mai fare un discorso accademico. È un discorso politico. Per questo è importante chiarire bene quali siano le implicazioni politiche oggettive di questa o quella posizione, rispetto a temi come: si deve studiare la storia, a scuola; e le lingue classiche; e la propria lingua madre, si deve (si può) studiarla di per sé, o bisogna invece subordinare questo studio a fini di utilità pratica diretta?

Bisogna chiedersi, anzitutto, a chi giova, in Italia, tagliare i ponti con la nostra tradizione culturale, eliminare dai programmi scolastici di ogni ordine e grado lo studio delle lingue classiche, ma anche lo studio dell’italiano in sé considerato (suo iure si sarebbe detto una volta, in certi circoli), eliminare lo studio della storia e di tutte le materie di taglio storico. La risposta è evidente. Perseguire questa linea è, oggettivamente, collaborare all’istaurazione di una società in cui sempre meno spazio ha non solo la cultura ma, con essa, la capacità di riflessione autonoma e il senso critico; che sono poi le condizioni necessarie per un libero dibattito democratico in una società civile. Nel mondo moderno, dibattito democratico pubblico e quel che oggi continuiamo a chiamare, forse solo per abitudine, società civile non sono un dato naturale ma un prodotto storico: sono nati con l’Illuminismo, con la messa in questione del principio d’autorità assoluta, del potere per grazia divina, e con l’affrancamento del valore dell’intelligenza dalla dipendenza politica ed economica. Qui sta l’origine della sfera pubblica borghese (Habermas) e, con essa, delle moderne democrazie. [1]

Per chi persegue un programma politico anti-progressista - diciamo, semplificando, reazionario-totalitario - l’affrancamento del valore dell’intelligenza e della riflessione dai rapporti di potere è disfunzionale. Al contrario, per il progressista è questo l’obiettivo più alto. Portare cerchie sempre più ampie della popolazione a partecipare di queste capacità di riflessione e di discussione, dunque ad entrare a pieno titolo nel dibattito della sfera pubblica: è questo l’obiettivo strategico primario di ogni politica di segno progressista. Dovrà tradursi in pratica attraverso il miglioramento dell’istruzione scolastica. In parole povere: una politica reazionario-totalitaria deprimerà la scuola, una politica progressista l’esalterà. Lo si è visto bene in alcune fasi storiche. Fra Sette e Ottocento, la democrazia americana, fondata da intellettuali illuministi, ha rappresentato l’esempio più chiaro di un tentativo in questa direzione: larghissima diffusione della stampa, alta scolarizzazione e i tassi di alfabetizzazione più alti nel mondo occidentale dell’epoca. Dell’America di allora si diceva che anche il contadino, arando, leggesse Omero. Nell’America di allora i dibattiti politici pubblici, popolarissimi, duravano sette ore: intorno un’atmosfera festosa (banchi da fiera, spaccio di alcolici e dolci), in platea un religioso silenzio. Prosegue Neil Postman, dopo aver descritto questo quadro: «l’America fu fondata da intellettuali [...] per liberarsene le ci son voluti due secoli e una rivoluzione nei mezzi di comunicazione». [2]

La società statunitense, così come la nostra società italiana, all’inizio del Duemila sono ben diverse da quella progettata dai costituenti americani, in cui il contadino leggeva (se non proprio Omero, leggeva il giornale) e ferveva il dibattito pubblico. Per molti aspetti tecnologici la società è progredita, e c’è chi ha visto in questo stesso progresso tecnologico la chiave delle trasformazioni socio-politiche che si sono prodotte. La riflessione della scuola di Francoforte o di altri pensatori europei (Guy Debord), così come la sociologia americana (Marshall McLuhan, in parte, e soprattutto Neil Postman) hanno messo in guardia, in particolare, dall’influsso dei mezzi di comunicazione audiovisivi sulla sostanza del discorso pubblico. Nell’Italia del Duemila dobbiamo constatare che avevano ragione. La sostituzione del video al libro sta cambiando il nostro vivere associato, poiché l’uomo è animale politico e vive la sua dimensione associativa entro un «ambiente simbolico» che ne forma il carattere e la cultura. E avere intorno, sin dalla scuola, dei libri non è lo stesso che avere intorno, sin dalla culla e poi anche a scuola, dei video. [3]

Il progresso tecnologico non si può arrestare. Si può però gestire. Vale per la natura: serve oggi una riflessione sullo sviluppo sostenibile, mentre l’effetto serra mostra come sia irrazionale un’acritica lode dello sviluppo in quanto tale. E vale per la cultura: il progresso tecnologico va gestito con una politica culturale. Qui entra in gioco la scuola. O meglio, deve entrare in gioco, per un programma politico di segno progressista. La scuola deve sottoporre il progresso tecnologico a vaglio critico. Deve dare ai cittadini gli strumenti per analizzare la realtà sociale nei suoi diversi aspetti: la politica come la tecnologia. Questi strumenti sono la capacità di riflessione autonoma e il senso critico, che non possono venire da un’educazione schiacciata sul presente. Serve la storia, come ammaestramento per relativizzare e poter analizzare e, se del caso, criticare il presente. Per un programma politico di segno totalitario-reazionario, invece, è funzionale una scuola che si allinei pedissequamente ai cantori acritici del progresso tecnologico.

Solitamente, il motto «non si può arrestare il progresso tecnologico», quando utilizzato in politica, serve a evitare la discussione razionale di merito - se per razionalità s’intende il bene comune - e a coprire invece interessi di parte. Un esempio recente. Il Capo dello Stato rinvia alle camere senza firmarla (il 15 dicembre 2003) la nuova legge di sistema sull’informazione e l’editoria (legge Gasparri), e motiva il rifiuto razionalmente, adducendo pericoli per il pluralismo dell’informazione in un sistema di quasi-monopolio e il mancato rispetto delle sentenze al riguardo della Corte Costituzionale, che il monopolista privato ha eluso per un trentennio: da quella del 28 luglio 1976, sino a quelle sulle precedenti leggi di sistema, la sentenza del 7 dicembre 1994 (sulla legge Mammì) e quella del 20 novembre 2002 (sulla legge Maccanico). Il 21 dicembre 2003, in una diretta televisiva su Rai 1 di 125 minuti (contro i 90 previsti in palinsesto), già di per sé dimostrazione allarmante della mancanza di pluralismo di una tv ferreamente controllata dal potere politico, il primo ministro conferma di fronte a milioni di telespettatori quanto più volte dichiarato nei giorni precedenti: accanto ad accuse infamanti (il Capo dello Stato sarebbe ostaggio di pressioni della «lobby dell’editoria»), l’argomento principe a favore della legge è che «non si può arrestare il progresso tecnologico».

Verso dove stiano andando, sulle ali di questo progresso tecnologico, le nostre società «democratiche» è evidente: gli esperti di comunicazioni di massa - quelli, s’intende, indipendenti, non a libro paga dei network televisivi - discutono solo su quale delle due grandi utopie negative del XX secolo, se quella di Orwell o quella di Huxley, descriva in maniera più calzante il punto d’approdo verso cui ci dirigiamo a vele spiegate. Rispetto a questa deriva, le posizioni politiche sono oggettivamente nette: un programma reazionario-totalitario la favorirà con ogni energia, un programma progressista s’impegnerà con tutte le forze per scongiurarla e cercare di invertire la tendenza. Se ne deduce che se un governo di destra con tendenze autoritarie propone un modello di scuola imperniato sulle «tre i», internet, inglese, impresa, agisce lucidamente, in modo ponderato e funzionale al proprio progetto politico. Una scuola così concepita, avvicinando ai media visuali, allontanerà dal libro e deprimerà in tal modo la sensibilità culturale, la coscienza della storia e delle specificità culturali; nel nostro caso, la coscienza della specificità della storia e della cultura italiana. Una scuola così prepara un mondo in cui si parla una lingua sola, radicalmente semplificata, e prepara non cittadini responsabili, parte di un’articolata società civile, ma futuri dipendenti di un’impresa, semplici sudditi di un potere economico i cui interessi si fondono con quelli dello Stato. In questa fusione, lo sappiamo, l’Italia contemporanea (anzi, l’«azienda Italia») conduce oggi un esperimento d’avanguardia, ai massimi livelli. Un esperimento a cui, in Europa, guardano con preoccupazione non solo tutti i progressisti ma anche i moderati liberali (la destra non totalitaria): basta leggere quel che ne scrivono quotidianamente giornali conservatori come la Frankfurter Allgemeine Zeitung o la Neue Zürcher Zeitung, che solo davanti a un popolo di teledipendenti mal scolarizzati possono esser fatti passare, grazie al megafono di una tv sottratta al controllo democratico, per fogli sovversivi comunisti.  [4]

Abbiamo detto di qual segno dev’essere, nel campo dell’istruzione, una politica progressista. Fissate queste elementari coordinate politiche, possiamo ora chiederci se nella seconda metà del Novecento, periodo storico in cui si sono svolti i mutamenti sociali - in particolare, nel nostro «ambiente simbolico» - di cui ora apprezziamo i frutti politici, se nel secondo Novecento in Italia, dicevo, lo schieramento politico che si definisce progressista abbia attuato una politica di questo segno. Se l’abbia attuata là dove ne aveva la possibilità concreta, assumendo dirette responsabilità di governo (solo di recente) o, ben prima che ciò avvenisse, attraverso la potente azione di indirizzo culturale che ha esercitato nei decenni passati nei confronti dell’istruzione scolastica e universitaria.

C’è in questo campo un orientamento diffuso e influente nella sinistra italiana, che negli ultimi decenni ha contribuito non poco a modificare le istituzioni scolastiche e universitarie, nella forma e nella sostanza. Di questo orientamento si è fatto portavoce quell’intellettuale italiano che, approdato alla carica di Ministro della Pubblica Istruzione, dichiarava qualche anno fa che non ha senso insegnare la storia alle scuole elementari - e dunque, s’intende, bisogna sostituirla con qualche materia più utile - perché non meglio identificati «studi americani» (di pedagogisti e/o psicologi) avrebbero dimostrato che prima dei dodici anni i bambini non sono in grado, fisiologicamente, di interessarsi alla storia. Di fronte a una simile affermazione (almeno, così come riportata dai mass-media), chiunque abbia un figlio e gli abbia raccontato, ancor prima che andasse a scuola, dei faraoni o di Ulisse (e dunque dei Greci), o del perché le nostre città abbiano ancora tante torri (e dunque del Medioevo), di Napoleone o di Garibaldi, ricevendone in cambio mille domande, rimane perplesso. E rimasero perplessi, a suo tempo, moltissimi universitari italiani, di varia appartenenza politica, che protestarono con vigore contro la progettata eliminazione dello studio della storia alle elementari. Bisogna però capire che questo non è stato un incidente di percorso, ma un episodio di una vicenda ideologico-politica coerente, di una lunga marcia in direzione di obiettivi perseguiti con determinazione, alla luce di un chiaro principio guida. Qual sia questo principio, lo diremo dopo aver brevemente ricostruito le tappe della lunga marcia.

Siamo negli anni a cavallo del Sessantotto. La società italiana non era il migliore dei mondi possibili, e la scuola la rifletteva. Era odiosamente classista, escludeva i più svantaggiati, andava democratizzata. Sacrosanto. La ricetta per questa democratizzazione si può riassumere in uno slogan: sostituire un’educazione scolastica democratica alla pedagogia repressiva tradizionale. Il fronte dell’educazione linguistica apparve, ed era, strategico. E dunque, Che cosa fare dei temi d’italiano? si chiedevano molti intellettuali di sinistra negli anni Settanta. [5] La diagnosi era: addestrano all’enfasi e all’amplificazione retorica, sono una pratica diseducativa. Perciò vanno aboliti e sostituiti con qualcosa di più utile. Non si ripeterà mai abbastanza che la diagnosi aveva una parte di verità. Bisognava lottare contro discriminazioni sociali:

«nell’atto di mandare in una classe differenziale o fuori della scuola il bambino che ha difficoltà a dire “benché piova, esco”, il glottodidascalo ritiene di stare, magari, servendo la scienza e qualche altra virtú, e non si rende conto di stare invece eseguendo il mandato di un gruppo dominante cui, per estrazione avvocatizia della maggior parte dei suoi componenti, è assai familiare lo stile ipotattico, talché ai membri del gruppo “benché piova, esco” suona meglio di “piove, e io esco lo stesso”» [corsivi aggiunti]. [i]

È vero. La valutazione scolastica rischiava ad ogni passo di farsi veicolo del pregiudizio di classe. E, in concreto, la pratica di correzione linguistica (correzione dei temi) da parte del ceto insegnante era spesso risibile, pura omologazione a modelli non buoni:

«Quel che la scuola ha insegnato è, di preferenza, l’italiano di stampo burocratico, aulico. Non si dice faccia, ma viso, non ci si arrabbia, ma ci si indigna o adira [...] In questo italiano irreale [...] non si va ma ci si reca, le cose non ci sono, ma hanno luogo o si verificano [...] In questi testi demotivati e prolissi vivono i pericolosi germi che hanno trasformato i semplici e chiari se e perché nei via via più ampi e complessi nella misura in cui e a causa del fatto che». [i]

Questi modelli non buoni, si argomentava, erano il frutto di una situazione secolarmente «bloccata», che ha lasciato il segno sulla lingua degli italiani, nella letteratura prima e nella scuola poi:

«Abbondanza di sinonimi, periodo complesso sono caratteristiche strutturali che qualificano e individuano l’italiano rispetto alle altre lingue europee e che derivano dal fatto che l’italiano è stato per secoli soprattutto una lingua scritta da pochi e per pochi». [i]

Ma la causa di questa pratica scolastica insoddisfacente non era nell’essenza del sistema: era nell’insufficiente preparazione degli insegnanti. Il problema della scuola italiana non era che insegnasse «troppa complessità». La scuola tradizionale, al contrario, non insegnava a sufficienza a gestire la complessità linguistica. Non riusciva a insegnare a tutti ad usare bene, e quindi anche a decodificare, periodo complesso (ipotassi, ossia subordinazione: il benché), complessità lessicale (sinonimia) ecc. Una complessità che, per inciso, l’intellettuale maneggia benissimo. Nelle pagine che abbiamo ora citato, che sono di grande efficacia retorica come tutti gli scritti di Tullio De Mauro, fioriscono non solo i benché ma anche i talché, e vi si incontra un lessico sceltissimo. Addirittura vi si trova, e usato perfettamente a proposito, l’aborrito nella misura in cui (e dunque allignano anche qui i «pericolosi germi» della complessità):

«in rapporto all’uso del dialetto, la televisione ha avuto l’effetto di farlo regredire: proprio e solo nella misura in cui di tanto in tanto il dialetto ha fatto la sua apparizione sugli schermi, esso si è palesato a milioni di italiani come un idioma legato a personaggi avviliti nella miseria» ecc. [corsivo aggiunto]. [i]-----

In questa discrasia fra modello proposto al popolo e modello riservato agli intellettuali, e da loro soli praticato (si notino ancora, oltre al nella misura in cui, gli scelti palesarsi, idioma, regredire, parole non certo del lessico italiano di base), sta gran parte della contraddizione dell’analisi. Il problema reale era che la maggioranza degli italiani era, ed è rimasta, esclusa dal dominio degli strumenti di gestione e di decodifica della complessità linguistica. Si è invece voluto far credere che questi fattori di complessità costituissero essi stessi il problema: che fossero ostacoli alla democrazia, artifici creati ex nihilo da una secolare volontà di oppressione e che potessero essere eliminati, dalla scuola e dalla lingua, per mezzo dell’azione politica.

Si è allora demolito il tema di italiano, sostituendo all’esercizio formale (spesso, certo, mal condotto e male utilizzato) dapprima lodevoli intenzioni e, alla fin fine, nessun vero esercizio di scrittura. [6] E si è attaccato lo studio di tutte le materie che sostanziavano la nostra tradizione culturale: tutte materie con un fondamento e un orientamento storico, dalla storia alla storia della letteratura, alle lingue classiche. Tutto questo è stato attaccato in quanto segno presunto del privilegio di casta del «gruppo dominante» di «estrazione avvocatizia». Indicativo, nel primo passo citato, l’ironico occasionalismo glottodidàscalo, non registrato dai dizionari, neppure dal Grande dizionario italiano dell’uso, frutto di una grandiosa impresa lessicografica progettata e diretta dal futuro ministro. [7] L’invenzione di glottodidàscalo è sottilmente funzionale: si parla, denotativamente, del maestro stolido, che usa la grammatica per fare epurazione classista, e si suggerisce allo stesso tempo - connotativamente, col brillante conio con materiale greco (da glôtta ’lingua’ e didásko# ’insegno’) - che questo «glottodidàscalo» è così stolidamente classista perché è esecutore di un’ideologia da classe dominante «avvocatizia», che ha studiato al liceo classico. C’è dietro un’etimologia isidoriana: classico, perché classista.

Sarebbe facile documentare come, con questo sottile discorso, le giuste istanze di democratizzazione siano state incanalate in una direzione sbagliata: quella di un’aggressione sistematica alle sedi in cui si perpetuava la nostra tradizione culturale. Un’aggressione che si è estesa a tutto lo spettro dei temi legati all’istruzione, dalla scuola elementare all’università. Qui, nelle discipline linguistiche, la nostra tradizione di studi viveva, alcuni decenni fa (oggi, nell’università riformata, sopravvive stentatamente) sotto un’etichetta, quella di glottologia, legata al nome di Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907). Ora, di Ascoli non si può che dire bene: ha elevato la cultura linguistica in Italia. E infatti ne dice bene anche De Mauro, lamentando anzi che fosse un isolato: «Ascoli è, in sostanza, un solitario, è, per dirla con Gramsci, un’“alta palma” che si erge nel deserto». [i] Ma di chi ha raccolto l’eredità di Ascoli che cosa si dice, negli anni Sessanta del Novecento? Che sarebbe meglio chiudesse bottega. Oggi lo spirito dei tempi, in linguistica come nella società, esige ben altro che non degli studi i quali, già nel nome (glottologia!), si rivelano cosa da «glottodidascali», legati dunque oggettivamente a quella classe di oppressori d’estrazione avvocatizia. Bisogna denunciare questi retrogradi, perché serve qualcosa di nuovo e di più utile:

«Che cosa insegnano i docenti di glottologia? chi stanno preparando e per quali fini? La prima cosa da fare è conoscere e divulgare queste situazioni. Evidentemente, però, non basta limitarsi a questo [...]: ormai, fuori d’Italia si chiudono ogni giorno i vecchi seminari di linguistica comparativa [che è quanto dire, storica, M.L.], nei paesi anglosassoni come in URSS, e si aprono seminari di linguistica generale [...]. In Italia, invece, abbiamo ancora una linguistica attestata su posizioni ottocentesche». [i]

Anche qui si fa leva su giuste esigenze di modernizzazione. Ma c’è (ci sarebbe stato) un altro modo di porre simili esigenze, a tutti i livelli dell’istruzione. Nella scuola, elementare e media, miglioriamo l’esercizio linguistico sullo scritto (il tema) - migliorando la preparazione degli insegnanti - e aggiungiamo esercizi di altra natura, per l’acquisizione della consapevolezza sociolinguistica. Si è scelto invece di puntare all’introduzione di questi ultimi attraverso l’eliminazione del primo: in assenza di una reale riqualificazione degli insegnanti (ne parleremo fra un momento), si è rimasti col nulla.

Nella media superiore, si sarebbe potuto lasciar vivere il liceo classico e concentrarsi invece sulla creazione di una scuola professionale degna di questo nome. Era ed è questo, infatti, il problema della scuola superiore pubblica di massa in Italia: l’inesistenza di istituti superiori professionali degni di questo nome (l’unica istituzione efficace essendo gli istituti salesiani), non certo l’esistenza del liceo classico. E all’università, si sarebbero potute introdurre discipline di taglio nuovo, veicolo di nuove idee e nuove conoscenze, ma lasciando vivere la tradizione che, attenzione, non era - nel momento in cui si svolgeva quel dibattito - torre d’avorio con arroccati dentro quattro parrucconi imbecilli. Insegnavano glottologia (cioè linguistica storica) in Italia, allora, Benvenuto Terracini, Tristano Bolelli, Giuliano Bonfante, Giacomo Devoto, Vittore Pisani, e altri specialisti quotati internazionalmente. Era un settore degli studi umanistici in cui l’Italia figurava egregiamente.

La scelta politica perseguita da parte di questa linea - lo ripeto, incarnata al massimo livello d’impegno e di consapevolezza dall’intellettuale di cui ho riportato le parole, ma divenuta largamente dominante nella sinistra italiana - è stata un’altra. È stata, nel campo dell’istruzione di ogni ordine e grado, quella di un «gioco a somma zero»: via le discipline compromesse in qualche modo col passato (tutte discipline storiche), e avanti il nuovo. E il giocare a somma zero, spiega Paul Watzlawick, è la prima delle Istruzioni per rendersi infelici.

O almeno, per rendere infelice chi abbia davvero a cuore la salvaguardia dei presupposti culturali del libero dibattito democratico. Abbiamo detto finora che le intenzioni che hanno ispirato quest’azione politica «democratizzante» erano lodevoli. Ora è il momento di distinguere. Nel discorso sopra citato contro l’insegnamento della glottologia («Che cosa insegnano i docenti di glottologia? chi stanno preparando e per quali fini?») si mostra con evidenza qual fosse il principio guida di questa battaglia: il sapere - specie il sapere umanistico - non si giustifica da sé, ma solo se serve a fini di utilità sociale immediata. Dunque, non «glottologia» (linguistica storica) ma al posto di essa («ormai, fuori d’Italia si chiudono ogni giorno i vecchi seminari di linguistica comparativa») soltanto formazione linguistica degli insegnanti di italiano, in quanto direttamente utile alla società.

Là dove resti privo di questa giustificazione sociale, il sapere umanistico (e dunque lo studio che deve prepararlo e perpetuarlo) va smascherato come odiosa prerogativa della classe dominante «avvocatizia». Classico, dunque classista. Per l’educazione linguistica scolastica questo principio utilitaristico, di subordinazione assoluta del sapere alla prassi, è enunciato chiaramente nella seconda delle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica del GISCEL:

«Lo sviluppo e l’esercizio delle capacità linguistiche non vanno mai proposti e perseguiti come fini a se stessi, ma come strumenti di più ricca partecipazione alla vita sociale e intellettuale» [corsivo aggiunto]. [8]

Sotto l’apparente condivisibilità degli specifici obiettivi proposti (chi vorrà mai negare che sia bene una «più ricca partecipazione alla vita sociale e intellettuale»?) si cela il problema di fondo: sta nell’asserire la necessità di immediata e costante giustificazione dello studio (e del sapere). Questa subordinazione, a obiettivi dapprima lodevoli ma pur sempre subordinazione, apre direttamente la porta ad una ridefinizione degli obiettivi stessi quale quella cui stiamo oggi assistendo. Il Piccolo dizionario della riforma che il ministero berlusconiano dell’istruzione ha messo a punto nell’ottobre 2003 parla della «costruzione del portfolio delle competenze» del bimbo alle elementari (primo ciclo), e della necessità da parte del corpo docente di «percepire il profilo professionale» del bambino al termine di quel ciclo (a dodici anni). Ne riferisce Michele Serra, concludendo che così la scuola diventa «una lunghissima anticamera davanti alla porta del capufficio. Una precocissima, spietata selezione del personale». [9] È proprio così, ed è evidente a chi questo giovi. Non ad un’ottica progressista, perché ogni subordinazione del sapere (e dello studio) a finalità pratiche dirette è oggettivamente incompatibile con un ideale umanistico di formazione dell’individuo che si deve invece tradurre, politicamente, nella formazione del cittadino di una libera società democratica, capace di riflettere autonomamente, capace di senso critico.

Eppure, la sinistra italiana per decenni ha condotto una politica culturale improntata proprio al principio della subordinazione utilitaristica, un principio che doveva necessariamente - e consapevolmente, per i suoi ideologi - portare alla marginalizzazione delle discipline umanistiche: il latino e greco sono classisti, la storia è inutile (forse dannosa) per i bambini. Dunque, sostituire tutto. Ed ecco dove conduce questo tipo di gioco:

«Si giochi dunque a somma zero a livello relazionale e si stia pur certi che a livello oggettivo tutto andrà lentamente ma sicuramente in rovina». [10]

Nella prassi politica della sinistra italiana, la linea guida della subordinazione utilitaristica si è sposata con un’altra componente: quella del libertarismo demagogico antimeritocratico e antiefficientista. Vediamo come, sempre nel caso dell’istruzione.

Per una reale riqualificazione della scuola, la preparazione degli insegnanti è il fronte strategico. A parole, tutti l’hanno detto, dagli anni Sessanta ad oggi. [11] Ma nel frattempo, nei fatti, chi ha governato ha lasciato che il ceto insegnante s’immiserisse, rendendo questa professione strategica un mestiere da paria: un secondo lavoro, per il singolo o la famiglia, e un lavoro di secondo rango per la società. Contemporaneamente, la sinistra italiana lottava con ogni energia perché si liberassero dalle pastoie della repressione non solo gli studenti ma anche gli insegnanti: nessuna selezione, prima (a nessun livello, né a scuola né all’università), nessun controllo di qualità, poi. Lo slogan, che si può sentire ancor oggi ripetere (specie da politici di sinistra di formazione sindacale, come Fausto Bertinotti), era «la meritocrazia è il contrario della democrazia». [12] E dunque contestare i «carichi di studio» e gli esami, evviva i «corsi abilitanti»; contestare i concorsi pubblici, evviva l’immissione in ruolo dei precari; e via dequalificando.

Sul precariato serve qualche parola in più. Andrebbe, anzitutto, evitato il formarsi di queste fasce di lavoratori irregolari, passibili di sfruttamento (oggi si dice, con odiosa mistificazione, «flessibilizzati»). L’unico modo per evitarlo è reclutare regolarmente con concorsi seri. Che dunque non vanno contestati, ma al contrario ben gestiti. Una volta costituitasi, comunque, una tale fascia svantaggiata, essa può e deve essere tutelata, per esempio attraverso l’attribuzione di un punteggio per il servizio precario svolto: ma pur sempre un punteggio da far valere in concorsi pubblici, che accertino in modo onesto e trasparente la competenza. La sinistra sindacale italiana ha invece costantemente tenuto un’altra linea: quella, appunto, della rivendicazione dell’immissione automatica in ruolo a prescindere dall’accertamento della competenza.

Sfuggiva a questa visione dissennata che la vera battaglia democratica e progressista doveva esser quella della democratizzazione dei criteri di selezione, non della loro abolizione. Una selezione - operata con criteri strettamente di merito, dopo aver garantito a tutti pari opportunità di partenza - è necessaria per ottenere un ceto insegnante preparato: nessuno affiderebbe la guida di un autobus pubblico a qualcuno, senza essersi accertato che questi abbia la patente. Per la scuola e l’università, la sinistra italiana ha ragionato e operato altrimenti.

Sfuggiva anche, e sfugge tuttora, la valenza doppiamente reazionaria dell’antimeritocrazia. Proteggendo corporativamente l’insegnante o il bibliotecario in quanto tali, anche se incapaci, e contribuendo quindi a rendere inefficiente la struttura pubblica, s’impedisce, immediatamente, che possa progredire culturalmente proprio chi è, di suo, svantaggiato. Potrà farlo, invece, chi di suo ha i mezzi. Se vuole. Ma alla lunga - e qui sta il secondo effetto - la squalificazione dell’istituzione si rifletterà sul valore socialmente percepito del suo oggetto e delle sue finalità: se la scuola e l’università pullulano d’incapaci e immeritevoli, la cultura e l’attività intellettuale tout court cesseranno di essere in onore, di godere di prestigio, presso l’intera compagine sociale. Ne risulterà di necessità la depressione della capacità di riflessione, di critica e dunque di analisi politica.

Per le discipline umanistiche in particolare, la politica di massificazione è arrivata all’apice con la recente riforma universitaria, frutto di un accordo europeo ma gestita in concreto in Italia, nella sua fase di attuazione, da governi di centro-sinistra. Qui si sono fuse le due linee di cui abbiamo parlato: la demagogia lassista e antiefficientista e l’ideale della subordinazione utilitaristica del sapere alla prassi e all’effetto sociale immediato, ideale aggiornato con l’etichetta di «professionalizzazione». Sul primo fronte, per le discipline umanistiche, si è pensato che, come già li si «liberò» dal tema, si potessero finalmente liberare i poveri studenti da quella odiosa e oppressiva tesi di laurea. In particolare, gli studenti destinati a diventare insegnanti di materie letterarie. Per loro basterà il triennio: la tesi è riservata al ciclo di studi superiore, il biennio della laurea specialistica. Ma a loro non serve. Basta che, dopo il triennio, imparino a insegnare frequentando le SSIS (Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario), affidati alle cure di pedagogisti, in teoria; in mano a insegnanti medi, nella realtà di molte università italiane. La «democratizzazione» dell’università è compiuta. Insegnanti medi, a loro volta mal preparati (e mal pagati, ma così faranno qualche soldarello in più), preparano i docenti di domani, e ciò in alternativa all’unico momento di esposizione (almeno potenziale) al lavoro creativo autonomo nell’ambito specifico di competenza. In alternativa, cioè, alla tesi di laurea, di fatto abolita. Perché è ovvio, se non è richiesto per andare a insegnare, nessuno s’iscriverà al biennio specialistico: non si può pensare che lo facciano per amore della specializzazione (del sapere di più alto livello), quando dall’inizio degli studi universitari li si è addestrati al culto dell’utilità diretta («professionalizzazione»). È in questo culto che ha origine quella «IKEA di università» di cui ha scritto Maurizio Ferraris. [13]-----

Si noti, di passaggio, che in altri sistemi europei la redazione in proprio di lavori scritti punteggia l’intero corso di studi. In Italia questo mancava, fino alla tesi: che adesso per andare a insegnare non è più necessaria. Certo, le tesi erano spesso mal fatte e mal dirette: esattamente come il tema d’italiano. Ma non c’è nulla che non si possa migliorare, e nulla, certo, si può migliorare... eliminandolo.

Altra vittima della riforma universitaria è lo studio autonomo, o lo studio tout court, inteso come attività intellettuale; resta lo studio come etichetta burocratica («faccio i miei “studi” a Roma»). Anche lo studio, nella prima accezione, è stato per anni criticato da sinistra come vessatorio e classista: «abbasso i carichi di studio», era uno degli slogan delle occupazioni scolastiche del Settantasette. Oggi, lo studio universitario non esiste più, o quasi, e per principio, in quanto tutta l’attività degli «studi» deve svolgersi, idealmente, nelle aule: si lavora con lo studente, per professionalizzarlo, e quel che poi deve leggere per prepararsi agli esami (altra istituzione odiosamente vessatoria, ricordate?) tende progressivamente allo zero. Un esempio fra mille, puramente quantitativo. Nel 1993 un editore accademico proponeva un manuale di glottologia dal titolo Le lingue indoeuropee: 546 pagine. Nel 2002 esce, da un editore concorrente, un manualetto post-riforma dallo stesso titolo: 143 pagine, e di formato più ridotto. [14] Nel frattempo, imperversano parole d’ordine come e-learning, mentre l’apprendimento sui libri si riduce, ideologicamente e materialmente.

Tiriamo le somme. Per l’università, della politica culturale di cui abbiamo ricostruito le linee principali cominciano a vedersi già i primi frutti, e sempre più risulterà evidente, negli anni a venire, il suo impatto sociale. Per la scuola, i risultati di questa politica sono da tempo sotto gli occhi di tutti: prima della «democratizzazione» la scuola escludeva e respingeva (ingiustamente e odiosamente) i più socialmente deboli. È stata cambiata e democratizzata, in base ai principi che la contestazione ha dettato. Ne rivendica il merito Tullio De Mauro, quando nel 1996 scrive che:

«le Dieci tesi riescono a tradursi in libri, come il bel Libro di italiano di Raffaele Simone, primo di una varia e feconda serie, in ricerche specialistiche [...], in proposte didattiche circostanziate che, a partire dai programmi della media obbligatoria del 1979-1980, cominciano a essere fatte proprie dalla legislazione scolastica media, poi elementare, poi medio-superiore». [15]

Ora, dopo la «democratizzazione», anche coloro che la nuova scuola ha «formato» sono rimasti in larghissima proporzione (semi)analfabeti. Sono dei dati di fatto, e un osservatore marziano potrebbe pensare che, rendendosene conto, qualcuno sia spinto ad un’autocritica, ad un’assunzione di responsabilità. Macché, l’autocritica è pratica scarsamente italiana, e soprattutto scarsamente corrente nella società dello spettacolo, per motivi che diremo subito oltre (primo fra tutti, la scomparsa del senso della storia). E infatti su questi dati, sul (semi)analfabetismo degli scolarizzati nell’Italia del Duemila ha riferito con toni allarmati sempre De Mauro in una conferenza tenuta a Roma, nell’aula magna della Sapienza, il 13 ottobre 2003. Una conferenza nell’ambito di una manifestazione in cui molti personaggi di spicco dell’università italiana protestavano, sacrosantamente, contro la politica di strangolamento finanziario dell’università messa in atto dal governo Berlusconi II.

Ma, come ho detto in apertura, chi ha in mente una società totalitaria, in cui lo spazio del dibattito dev’essere programmaticamente annullato, fa benissimo, dal suo punto di vista, a tagliare i fondi all’università, e fa benissimo a introdurre il video al posto del libro, l’inglese anziché tutto il resto (greco, latino, italiano, storia), l’impresa anziché la cultura. È chi ha un’altra idea, un altro ideale di società che deve opporsi. Questo, in Italia, non succede per un difetto grave di consapevolezza dello schieramento progressista, che infatti ha collaborato allegramente, al grido di «il computer a scuola», alla virata in direzione utilitaristico-aziendalista che ora il governo attuale vuol giustamente, dal suo punto di vista, completare.

Allora, è necessario prima di tutto che lo schieramento progressista acquisti consapevolezza, riflettendo su quanto si è detto, scritto e poi fatto negli ultimi quattro decenni, all’insegna di ottime intenzioni, con risultati catastrofici. La china del gioco a somma zero per le materie da insegnare, giocato con l’argomento dell’utilità pratica (via il vecchiume, avanti qualcosa di più utile), porta direttamente agli esiti attuali: alle «tre i», all’insegnamento dell’educazione stradale gestito dalle autoscuole in orario scolastico e a spese del contribuente (lo annuncia festante al tg serale il Ministro Moratti nell’autunno 2003). Tutto questo bel «nuovo» è venuto prima a spese di materie che la demagogia nuovista bollò come vecchie, classiste o inutili (prima il latino, poi tocca alla storia), infine - si vede ora - anche a spese di una formazione di base in materie come l’italiano o la matematica.

Naturalmente, tutti i discorsi che sin qui abbiamo svolto - o di cui abbiamo riferito - non sono stati svolti qui per la prima volta. All’origine della cultura che diciamo umanistica sta, nella Grecia antica, quella che si chiama mentalità «antibanausica»: per vivere serve l’attività economica, ma l’affrancamento da essa è necessario all’uomo e alla società. Un discorso controverso, nei secoli: quando l’attuale presidente del consiglio invita gli Istituti italiani di cultura all’estero a smetterla con Manzoni e reclamizzare invece il made in Italy, nega il fondamento stesso della mentalità antibanausica. Da destra. D’altro canto, anche Lukács criticava Goethe e Schiller: la loro «fuga nell’estetica» non è che una rinuncia all’azione. Solo la deutsche Misere, la «miseria tedesca», ossia la frammentazione politica e l’arretratezza sociale della Germania dell’epoca, «li ha costretti a condurre la vita di puri letterati». [16] In realtà, l’ideale esposto da Schiller nelle Lettere sull’educazione estetica dell’uomo (1795) è ben altro: la produzione del bello, in quanto forma di distacco dalla vita ordinaria, consente all’individuo di sviluppare una razionalità complessa e di acquisire una coscienza critica nei confronti del presente immediato. Questa è per Schiller la base dell’agire politico. È dunque una visione umanistica della formazione dell’individuo, mentre dietro la critica di Lukács sta, per questo aspetto, l’ideologia del socialismo reale, che ha puntato tutto sulla prevalenza assoluta dell’istruzione e dell’ideologia tecnologica, coi risultati storici che si son visti.

Su questa stessa linea è la critica alla glottologia e al «glottodidascalo», o meglio l’utilizzo della figura di questo - attraverso la suggestione connotativa dell’etichetta grecizzante - come mise en abîme della cultura umanistica, non orientata alla prassi e dunque socialmente inutile, tesa soltanto alla perpetuazione di un potere di casta. Quell’argomento, per i modi in cui è sviluppato e per il pulpito da cui proviene (quello d’un intellettuale che gestisce perfettamente la complessità, ma predica intanto «cose semplici per il popolo»), si presta alla stessa critica che Fichte, nella quinta delle lezioni jenesi Sulla missione del dotto (1794), rivolge alla condanna della cultura da parte di Jean-Jacques Rousseau:

«Io ho posto la finalità umana nel progresso costante della cultura e nello sviluppo armonico e continuo di tutte le nostre attitudini e di tutti i nostri bisogni; ed ho assegnato un posto assai onorevole nella società a quella classe di uomini che ha per missione di vegliare sul progresso e sull’uniformità di tale sviluppo.

Nessuno ha mai contraddetto a questa verità in modo più deciso, con ragioni più persuasive in apparenza e con più gagliarda eloquenza, di quanto abbia fatto il Rousseau. Per lui il progresso della cultura è l’unica causa di ogni pervertimento dell’uomo. Secondo lui non v’è salute per l’uomo all’infuori dello stato di natura e - conseguenza logica dei suoi principi - quella classe di uomini che promuove maggiormente il progresso della civiltà, la classe dei dotti, è la fonte e il focolare di ogni miseria e di ogni corruzione.

Questa dottrina è proclamata da un uomo che aveva sviluppate le proprie facoltà intellettuali ad un altissimo grado. Egli si vale di tutta la superiorità che gli viene da questa sua eccellente cultura, per persuadere, se possibile, l’umanità tutta intiera della giustezza della sua asserzione». [17]

Bisogna dunque che chi si riconosce nella parte politica che definiamo «progressista» scelga, nell’Italia di oggi, da che parte stare. Bisogna che sia tolto ogni spazio a chi, per decenni, ha lavorato attivamente allo snaturamento e all’affossamento della cultura umanistica in Italia. Urge un cambiamento radicale, la rifondazione di una politica dell’istruzione realmente e consapevolmente progressista, che deve avere nei confronti delle discipline umanistiche e di taglio storico, nelle quali risiede la specificità della nostra cultura, un atteggiamento diametralmente opposto.

Abbiamo aperto chiedendo «a chi giova», e dopo la discussione che abbiamo condotto possiamo dirlo con nettezza. L’attacco alla competenza (corsi abilitanti e immissione in ruolo di precari, anziché esami e concorsi; niente temi d’italiano, niente tesi di laurea per insegnare); la subordinazione diretta di ogni forma d’istruzione all’utilità pratica (e dunque poco o niente materie umanistiche, non direttamente utili); e, di conseguenza, la depressione di ogni coscienza storica: sono questi i tre pilastri di quella che Guy Debord ha battezzato la «società dello spettacolo». Fra collasso della competenza e cancellazione della storia c’è un legame strettissimo:

«Il governo dello spettacolo, che attualmente detiene tutti i mezzi per falsificare l’insieme della produzione nonché della percezione, è padrone assoluto dei ricordi e padrone incontrollato dei progetti che plasmano l’avvenire più lontano. [...] In tali condizioni possiamo vedere scatenarsi all’improvviso, con un tripudio carnevalesco, una fine parodistica della divisione del lavoro; tanto più tempestiva in quanto coincide col movimento generale di scomparsa di ogni autentica competenza. Un finanziere canta, un avvocato diventa informatore della polizia, un fornaio espone le sue preferenze letterarie, un attore governa». [18]

Ed ecco perché eliminare la storia:

«Il campo della storia era il memorabile, la totalità degli avvenimenti le cui conseguenze si sarebbero manifestate a lungo. Inseparabilmente, la conoscenza avrebbe dovuto durare, e aiutare a comprendere almeno in parte ciò che sarebbe successo di nuovo: “un’acquisizione per sempre”, dice Tucidide. In tal modo la storia era la misura di un’autentica novità; e chi vende la novità ha tutto l’interesse a far sparire il modo di misurarla». [i]

Che la destra italiana lavori coerentemente per favorire questi esiti è ovvio. Corrisponde alla strategia che Silvio Berlusconi raccomanda ai piazzisti elettorali di Forza Italia: ricordate, quando vi rivolgete a un elettore, che parlate con una persona che ha il livello intellettuale d’uno scolaro di seconda media, neppure tra i più bravi. Ma che lo schieramento progressista proponga, ai suoi massimi livelli, un’ideologia e una prassi oggettivamente in linea con questi stessi principi, è parte integrante del problema centrale della politica italiana contemporanea: l’indistinzione degli schieramenti e la mancanza di una reale alternativa. Alla demolizione dello stato sociale, alla deregulation e al prevalere del capitalismo selvaggio si lavora concordemente, da destra come da «sinistra». E così alla sostituzione del libro con lo spettacolo.

La conclusione politica è obbligata. A chi per decenni, da sinistra, ha fatto - e continua a fare - un discorso sbagliato si attagliano perfettamente le battute che pronuncia Corrado Guzzanti quando impersona Francesco Rutelli che, alla vigilia delle elezioni politiche del maggio 2001, si lamenta per l’ingratitudine di colui per i cui interessi lavora - così la finzione satirica - lo schieramento di centrosinistra al governo: [i]

«Berlusconi, ma co’ chi ce l’hai? So’ cinque anni che te portamo l’acqua colle ’recchie! [...] ma che voi de più, ahò! Sei n’ingrato!».

Quanto alla politica dell’istruzione e alle sue ripercussioni sociali, l’abbiamo dimostrato, il lavoro della sinistra italiana oggettivamente a favore di approdi berlusconiani è durato ben più di un lustro. È ora di voltare pagina.


[1] Jürgen Habermas, Strukturwandel der Öffentlichkeit, Neuwied, Hermann Luchterhand 1962, trad. it. Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari, Laterza, 1971.

[2] Neil Postman, Amusing Ourselves to Death: Public Discourse in the Age of Show Business, New York, Viking Press 1985, trad. it. Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, Venezia, Marsilio 2002, p. 59.

[3] Lo spiega molto bene Giovanni Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero, Roma-Bari, Laterza 1997.

[4] V. ad esempio quanto scrive su ciò Umberto Eco, Provocare per vincere, «MicroMega» 4/2003, 57-66, a p. 59: «le preoccupazioni della stampa europea non sono dovute a pietà ed amore per l’Italia ma semplicemente al timore che l’Italia, come in un altro infausto passato, sia il laboratorio di esperimenti che potrebbero estendersi all’Europa intera».

[5] Tullio De Mauro, Che cosa fare dei temi d’italiano?, in AA.VV., Questioni di didattica, Roma, Editori Riuniti 1975 [poi in Lorenzo Renzi e Michele A. Cortelazzo, La lingua italiana oggi: un problema scolastico e sociale, Bologna, Il Mulino 1977, pp. 295-301].

[i] Id., Il plurilinguismo nella società e nella scuola italiana, in AA.VV., La radio nella scuola oggi, Torino, ERI 1975 [poi in Renzi e Cortelazzo, cit., pp. 113-127, a p. 117].

[i] Id., Indagine sull’italiano dei non lettori: proposte per una maggiore leggibilità dei giornali, in Walter Tobagi e Carlo Remeny, Il giornale e il non lettore. Atti del convegno del 17-19 giugno 1979, Firenze, Sansoni 1981, pp. 7-19, a p. 14.

[i] Ibidem, p. 15.

[i] Id., Il linguaggio televisivo, in Gian Luigi Beccaria, I linguaggi settoriali in Italia, Milano, Bompiani 1973, pp. 107-117, a p. 113.

[6] Per le lodevoli intenzioni, basta consultare la bibliografia ora citata e inoltre le Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica del GISCEL [Gruppo d’intervento e di studio nel campo dell’educazione linguistica, costituito in seno alla Società di Linguistica Italiana], ispirate dal futuro ministro, del 1974, in Renzi e Cortelazzo, cit., pp. 93-104.

[7] Tullio De Mauro, Grande dizionario italiano dell’uso, 6 voll., Torino, UTET 2000. Nel vol. VI, a p. 266 si passa direttamente da glottocronologico a glottodidattica.

[i] Id., La questione della lingua, in Corrado Stajano, La cultura italiana del Novecento, Roma-Bari, Laterza 1996, pp. 423-444, a p. 431.

[i] Id., contributo al dibattito su Come si insegna nelle università l’italiano in Italia, «Rinascita», 19 marzo 1966 [rist. in Oronzo Parlangèli, La nuova questione della lingua, Brescia, Paideia 1971, pp. 391-432, a p. 396.

[8] Cit. alla n. 10, a p. 101.

[9] Michele Serra, Il bimbo manager della Moratti, «Repubblica» 9 ottobre 2003, p. 17.

[10] Paul Watzlawick, Anleitung zum unglücklich sein, Monaco, Piper, 1983, trad. it. Istruzioni per rendersi infelici, Milano, Feltrinelli, 1984, p. 100.

[11] Si ripete continuamente, nelle pagine che abbiamo citato (alle note 6, 7 e 11), che la nuova educazione linguistica avrebbe dovuto essere più ardua e impegnativa della precedente, affidata a insegnanti più competenti, certamente non lassista, ecc. ecc.

[12] L’ho (ri)sentito da lui con le mie orecchie durante una puntata di Sciuscià (di Michele Santoro, Rai 3, inverno 2001), quando ancora in Rai, prima della serrata berlusconiana postelettorale (all’insegna del «non faremo prigionieri») andavano in onda con qualche frequenza dibattiti politici degni di questo nome.

[13] Maurizio Ferraris, Una ikea di università. Milano, Raffaello Cortina 2001.

[14] Si tratta, rispettivamente, di Paolo Ramat e Anna Giacalone Ramat, Le lingue indoeuropee, Bologna, Il Mulino 1993 e di Paolo Milizia, Le lingue indoeuropee, Roma, Carocci 2002.

[15] Tullio De Mauro, La questione della lingua, cit., p. 438. Raffaele Simone è autore non solo del citato Libro d’italiano ma anche di un volume recente sui «saperi che stiamo perdendo», in primis la capacità di lettura. Nel frattempo, anima a Roma 3 un corso di laurea in cui le discipline linguistiche formano alla Comunicazione nella società della globalizzazione.

[16] György Lukács, Skizze einer Geschichte der neueren deutschen Literatur, Berlino, Aufbau-Verlag, trad. it. Breve storia della letteratura tedesca. Dal Settecento ad oggi, Torino, Einaudi 1956, p. 42.

[17] Johann Gottlieb Fichte, Über die Bestimmung des Gelehrten, 1794, trad. it. Sulla missione del dotto, Lanciano, Carabba 1938, pp. 106-7.

[18] Guy Debord, Commentaires sur la societé du spectacle, Parigi, Gallimard 1992, trad. it. in Id., La società dello spettacolo, Milano, Baldini & Castoldi 1997, p. 195.

[i] Ivi, p. 198.

[i] L’ottavo nano, Rai 3 (2001). Il testo è pubblicato in Corrado Guzzanti, Imbuti, Milano, Mondadori 2002, pp. 79-84.