La cultura della cultura

Maurizio De Santis

Il problema della crisi culturale che attanaglia la nostra società in questi ultimi anni propone degli spunti di riflessione sull’importanza che la cultura ha nella difesa della dignità umana.

E’ fondamentale, però, intenderci sul significato del termine per comprendere appieno il senso della prece-dente affermazione.

1. Definizione del termine cultura

Per cultura gli Antropologi intendono quel patrimonio sociale dei gruppi umani, che comprende conoscenze, credenze, fantasie, ideologie, simboli, norme, valori, nonché le ,disposizioni all’azione che da tutti questi derivano e che si concretizzano in schemi e tecniche di attività tipici in ogni società.

Tale definizione, come si vede, riguarda il gruppo sociale, ovverosia una società di individui legati da una cultura comune.

Molte volte il termine viene confuso con l’istruzione e con le attività intellettuali che vengono dette culturali.

Gli Etnologi, invece, intendono per cultura ogni elemento socialmente ereditato nella vita dell’uomo, sia materiale che spirituale. Se ne ricava che nessun individuo è privo di cultura perché chiunque faccia parte di un gruppo sociale ne conosce gli usi e i costumi che vengo-no tramandati di generazione in generazione.

Per comodità di trattazione, comunque, parleremo di:

Cultura individuale intesa come l’insieme delle conoscenze personali acquisite con l’istruzione scolastica e comprensiva della

Cultura di gruppo intesa come l’insieme delle conoscenze che sono patrimonio di un gruppo.

2. L’attacco alla cultura del gruppo

Da molti decenni i media americani svolgono un’attività capillare e martellante di "catechesi" del loro modello sociale.

Gli investimenti che, da sempre, Washington destina allo sviluppo delle imprese cinematografiche e televisive vengono recepite, sia in patria che fuori, come una mani-festa intenzione di sviluppo esclusivamente per scopi commerciali.

L’analisi sociologica del prodotto americano che viene capillarmente ed insistentemente riversato sulle variegate culture europee svela in modo preoccupante l’effetto che tali produzioni scatenano.

Inutile dilungarci sull’inconsistenza e sciocchezza dei personaggi delle varie soap opera televisive e dei modelli di istituzioni sia statali che familiari che siamo costretti ad ingurgitare quotidianamente.

Mi preme di più considerare il personaggio tipico del-la cinematografia statunitense.

Si tratta sempre di un eroe dai caratteri eccezionali a seconda del personaggio interpretato.

Andiamo dai muscoli di Silvester Stallone, al cervello di Harrison Ford passando per l’arguzia di Robert de Niro arrivando alla fredda spietatezza di Michael Douglas.

Comunque, il denominatore comune delle masse muscolari e dei cervelli interpretati da questi bravi attori è sempre lo stesso: l’eroe che da SOLO riesce a fare giusti-zia sconfiggendo il male, molto spesso, NONOSTANTE le istituzioni che, a volte, sono addirittura corrotte, o al meglio, inerti.

Da sottolineare che l’eroe, nella quasi totalità delle situazioni, è un vincente in tutti i campi della vita.

Va da se che i bersagli umani di questi modelli culturali, impegnati a barcamenarsi nella routine della vita quotidiana, risultano essere, inconsciamente, molto sensibili al fuoco di fila che subiscono.

Di qui l’effetto dirompente di tale propaganda sociale.

La lenta, ma costante, americanizzazione dei modelli di vita ha portato l’uomo europeo e, quindi, l’italiano a rimuovere e ad accantonare la propria cultura.

Forse l’effetto maggiormente negativo di tutto ciò sta nell’isolamento dell’uomo, intendendo che ormai si è diffuso il concetto di una gestione personale e personalizzata delle necessità umane (autarchia).

A livello istituzionale ciò si traduce in una distruzione dello stato sociale (che nulla ha a che vedere con l’assistenzialismo) tale che si è diffuso il concetto/necessità di pensione integrativa, assicurazione sulla malattia e, forse tra non molto, quella del pedagogo personale.

E tutto ciò e, quel che è peggio, a discapito degli altri: di qui l’isolamento.

E’ noto, ad esempio, come la propaganda sul costo delle pensioni stia creando situazioni di "diffidenza" tra lavoratori attivi e pensionati (rei di percepire la pensione che si sono pagati) generando un distacco tra gruppi storicamente e ideologicamente uniti.

La lenta, inesorabile, strisciante americanizzazione delle nostre culture ha fatto si che oggi si ragiona sui problemi sociali partendo dal presupposto del consolidamen-°to dei valori espressi dai gruppi di potere economico. Per cui la privatizzazione di sanità, pensioni e scuola è la naturale conseguenza di tali presupposti e le discussioni vertono su come portarle avanti e non sulla giustezza di rendere privato ciò che è sociale.

Ovviamente, le privatizzazioni rispondono ad una logica, cioè a quella di tipo capitalistico.

E’ una sorta di lucida follia collettiva in cui la collettività non si preoccupa di difendersi dai modelli imperialistici mentre si affanna a darne un senso.

I nostri media, in lotta per l’audience, lo share ed al-tre simili astrusità, con il colpevole assenso delle autorità, rappresentano la longa manu dei gruppi di potere capitalistico favorendo lo sviluppo di convenzioni banalizzanti e la diffusione dell’ideologia e della pratica del cretinismo mediatico.

Mi piace ricordare a questo punto le lezioni di Antropologia Culturale del Prof. Tentori

che ho avuto il piacere di ascoltare, alcuni anni orso-no, all’Università La Sapienza di Roma.

Mi colpì molto quando trattava degli effetti negativi dell’acculturamento di società indigene. In particolare, citava le cause di spopolamento in Melanesia. In quella popolazione, l’introduzione di un modello culturale diverso produsse addirittura la diminuzione delle nascite e del-l’interesse per la vita come conseguenza della soppressione di alcune istituzioni essenziali tipiche della cultura di quel popolo.

Non siamo la Melanesia di quei tempi, ma qui da noi molto è cambiato nel merito.

Voglio parlare di un fatto che, seppure può sembrare banale, ritengo sia molto esplicativo delle tendenze attuali. Tralascio luoghi, personaggi e cose.

In una via che mi capita spesso di percorrere esiste un’azienda con un lungo muro di cinta a ridosso del qua-le parcheggiano decine di automobili anche nei due punti in cui vi sono delle uscite di emergenza contraddistinte da vistosi cartelli. Le uscite sono quindi impedite. Cosa significa tutto ciò? Significa che si può essere menefreghisti anche di fronte al pericolo di vita. Tanto, la vita è altrui (isolamento).

In tale contesto si è diffusa quella che io chiamo la Cultura del privilegio.

Intendo per cultura del privilegio quella concezione di vita per cui il singolo, contro il resto del gruppo/società, cerca dei succedanei dei propri diritti.

Banalizzando il discorso, cerco di esemplificare questo concetto.

Andare a fare la spesa durante l’orario di servizio con il non dichiarato placet del nostro superiore (privilegio) può essere un modo, anche se "disdicevole" per sopperire alle necessità del quotidiano. Naturalmente il placet del "capo" o del datore di lavoro ha una contropartita: la difesa dei propri diritti e della propria dignità va accantonata (ulteriore isolamento). Un altro dei più diffusi esempi del-la cultura del privilegio è quello di cercare di occupare posti di lavoro non compatibili con il proprio titolo di studio o con le proprie mansioni. Di solito, la motivazione di questa aspirazione è insita in una condizione di lavoro non ottimale e poco remunerativa, per cui si trovano dei correttivi (privilegio) occupando spazi non propri. Il risultato finale è che quella determinata condizione di lavoro resterà non ottimale e poco remunerativa (poco importa: il problema sarà di altri) A margine, vorrei far risaltare come l’autarchica concezione della vita viene imposta sin dall’infanzia"con la diffusione di giochi ( penso soprattutto ai videogiochi) che deprimono il fisiologico bisogno dei ragazzi di comunicare e di confrontarsi con i loro coetanei.

La situazione sin qui descritta interessa ancora parzialmente la nostra cultura, ma il pericolo di una totalizzazione della sua diffusione concerne le generazioni prossime a venire:

Ma perché l’americanizzazione della nostra vita può trovare terreno fertile?

Secondo me, le ragioni risalgono ad un trentennio fa quando le lotte degli studenti e degli operai hanno fatto vacillare il concetto imperialistico di società.

La crisi in cui la logica del potere economico si è trovata in quegli anni ha fatto si che le lobbies internazionali corressero ai ripari.

In quel momento di crisi di valori, i media hanno cominciato a propagandare una serie di falsi bisogni con lo scopo di andare a colpire le masse, naturalmente impegnate a soddisfare le necessità quotidiane. Si è molto enfatizzato sulle cause economiche (che ci sono) del disagio esistenziale proponendo, come panacea, quei modelli di vita di cui si diceva. Il gioco è fatto.

In tale ottica, la perdita di cultura individuale e quindi di coscienza di se cui consegue uno spirito critico ha offerto ed offre la breccia più profonda alla penetrazione della cultura capitalistica esasperando le attività umane alla ricerca con bramosia di risorse, sempre economiche, atte a soddisfare i bisogni che crescono, però, in misura esponenziale tale che si apre sempre più la forbice tra risorse e bisogni (a solo vantaggio di chi ha il potere economico).

La società statunitense che vive ormai da decenni in questa situazione e, quindi rappresenta un valido esempio di tutto ciò, ha generato nell’uomo medio americano quella malattia conosciuta con il nome di nevrosi tanto da istituzionalizzare la necessità dell’analista personale.

Ritornando al discorso della deculturazione provocata dai media, il conforto a queste tesi può venire dalla lettura bruta di alcune statistiche.

Secondo i dati di ascolto Auditel relativi al 1995, i telespettatori nazionali hanno seguito programmi culturali televisivi nel 5.7% per quanto concerne la RAI e nel 2.4% per quanto concerne Mediaset. Inoltre, nello stesso anno, le 20 trasmissioni più seguite sono state:

12 partite di calcio

5 serate del festival di Sanremo

1 programma di attualità (Enzo Biagi, durata meno di 30 minuti)

1 spettacolo di varietà

1 film (Sister Act 2!!).

Il quadro della situazione, quindi, è presto fatto.

In tale situazione l’unica risorsa culturale, nonostante le magagne di cui soffre, è la scuola pubblica.

E’ l’unica istituzione in grado di difendere il patrimonio conoscitivo e di fornire ai ragazzi la conoscenza di ciò che li circonda con un’unica finalità: quella formativa, dando loro coscienza di se e, quindi di suscitare una capacità critica che li renda meno vulnerabili possibile alle influenze di culture prive valori culturali.

3. La difesa della scuola pubblica, ovvero la difesa della cultura e della democrazia

Penso che sia fondamentale, nel trattare il pianeta scuola, ribadire quali sono le finalità che questa istituzione deve perseguire.

Non voglio scomodare gli onnipresenti antichi Greci che sono tra i primi a codificare il concetto di istituzione scolastica. Tanto meno mi impegnerò a fare l’elenco delle iniziative che, in tal senso, sono state intraprese in 2000 anni di vita di detta istituzione (per saperne qualcosa basta prendere in mano una qualsiasi enciclopedia).

Mi preme soprattutto sottolineare come, attraverso questi 20 e più secoli, nonostante le profonde diversità sociali, politiche, geografiche e religiose, il fine precipuo dell’istruzione sia sempre stato in modo inequivocabile la FORMAZIONE DELL’INDIVIDUO.

Per i Sociologi, la scuola è preposta a compiti di socializzazione primaria ed è finalizzata allo sviluppo della consapevolezza di se e della criticità.

Partendo da questo presupposto, è evidente che qualsiasi tentativo di mutamento delle finalità scolastiche è un attacco diretto all’individuo ed alla sua cultura e quindi alla società.

La logica del mercato tende a trasformare tutto ciò a fini di utilità meramente economica (scuola per la formazione al lavoro) mutando l’individuo-SOGGETTO da formare in senso psico-sociologico, in individuo-OGGETTO da costruire per il mercato del lavoro. Poiché però, le esigenze lavorative sono mutevoli, anche nei tempi brevi, l’individuo-oggetto avrà così una sua collocazione societaria limitata nel tempo.

Tutto ciò vuoi dire che se passeranno le attuali tendenze, ogni individuo sarà formato esclusivamente per compiere una ben determinata attività sempre più specialistica e potrà far parte del mondo ad unica dimensione. quella economica, finché tale attività sarà utile. Altrimenti ci sarà l’alienazione.

Tale mostruosità si inserisce in un contesto di crisi della funzione formativa della famiglia.

Sappiamo che i ritmi della vita moderna riducono i tempi di presenza dei genitori nell’ambito familiare. Da ciò ne consegue che sempre più la famiglia delega alla scuola il compito di formare i ragazzi.

Anche se è discutibile l’opportunità di tale delega in bianco, ancora di più è dovere dei singoli e delle istituzioni di impegnarsi perché non venga violato il compito fondamentale dell’istruzione.

Questo quadro d’insieme è sintomatico dell’evoluzione (?? O involuzione?!) della cultura dei nostri giorni.

Mi diceva giorni fa un Magistrato che una volta Dio era uno e trino; mentre oggi è uno e quattrino; con ciò sottolineava, amaramente, la realtà odierna che ci fa assistere alla nascita di una religione che supera i confini de-gli Stati: è la religione del dio-denaro e le multinazionali sono i suoi profeti. Fra tutte le credenze, questa è quella maggiormente in grado di abbrutire l’uomo portandolo all’isolamento. Il vangelo della dottrina economica impone che gli individui abbiano sempre meno possibilità di pensare (il gradino a monte della libertà di esprimersi, condicio si ne qua non...) e quindi di confrontarsi e, di conseguenza. di aggregarsi sulla base di una comune ideologia:

In queste condizioni, l’individuo acefalo, acritico e totalmente specializzato si trova a scimmiottare i robot e la altrui considerazione di lui resterà viva finché egli sarà utile a produrre denaro.

Se questo dovesse accadere, l’umanità avrà dato lo spunto agli Antropologi di studiare un nuovo capitolo del-la storia dell’uomo: quella del passaggio da Homo Sapiens a Homo TECHNOLOGICUS.

Nonostante il quadro catastrofico fin qui disegnato, siamo ancora in grado di contrastare le contingenze avverse.

Ci vuole l’impegno di tutti a difesa della scuola, sperando che anche i Cattolici diano il loro contributo ricordandosi che Gesù era chiamato Maestro e, non di certo, di marketing.

Dobbiamo rivisitare i programmi scolastici in modo critico e, soprattutto, in senso costruttivo.

Possiamo discutere se a scuola bisogna parlare solo di autori italiani o anche degli stranieri; si può valutare se la trattazione deve limitarsi al periodo classico o arrivare ai nostri giorni. Possiamo scegliere le metodologie, le’ cronologie o quant’altro, ma NESSUNO PUO’ PERMETTER-SI DI CAMBIARE LE CARTE IN TAVOLA: la scuola DEVE e DOVRA’ sempre FORMARE LA COSCIENZA DI SE E LO SPIRITO CRITICO DELL’UOMO.

Dobbiamo tremare, intanto, per l’ultimo parto distocico del Ministro Berlinguer: l’aziendalizzazione delle scuole. (Un’amenità: anche il mio computer rifiuta tale vocabolo sottolineandomelo come errore!).

A noi dicono che serve per l’autonomia scolastica. Disgrazia su disgrazia!

Questa autonomia, che prevede anche un’autonomia economica (e qui sta il bello!), ancora una volta ha il sapore delle cose di moda nel mondo statunitense.

Se c’è autonomia di bilancio, le singole scuole forni-ranno le loro "prestazioni" (parliamo sempre della formazione dei nostri figli) sulla base della capacità di reperire fondi.

Morale, al Sud, dove anche i neonati sanno che le risorse economiche sono minime, al Sud, dicevamo, avremo scuole che forniranno "prestazioni" di livello più basso, ovviamente. E così, ancora di più aumenterà il di-vario fra Settentrione e Meridione. Piccolo particolare, del tutto "TRASCURABILE", già nella situazione attuale, l’abbandono scolastico al Sud ha livelli da terzo mondo: con queste innovazioni lungimiranti, l’abbandono aumenterà. Ed i ragazzi dovranno scegliere se fare la manodopera in qualche "fabbrichetta" del Nord (sempre che posti ce ne siano) o, più a portata di mano, per la mafia!

Certo bisogna essere perversi a creare queste condizioni sfavorevoli. L’onorevole Signor Ministro dimentica forse che il Sud, nel tempo, ha prodotto un bel po’ di premi Nobel? Ebbene, deprimiamo ancor più `sto Sud!

Eppoi, se il Signor Preside sarà il "MANAGER", le capacità della scuola dipenderanno dalle capacità del Dirigente. Per cui, fra qualche anno, avremo scuole di prima scelta e scuole di seconda scelta. Professori di prima scelta e professori di seconda scelta. E nel mondo del lavoro, anche i titoli di studio avranno punteggio diverso a seconda del nome della scuola che li partorisce?

Vogliamo fare come nella Sanità, in cui le USL hanno garantito un servizio diverso in funzione del manager?

Ma è mai possibile che se c’è sperpero e malgoverno nelle cose pubbliche bisogna pensare alle gestioni private? Non esistono solo queste alternative.

Ne esiste un’altra che è l’unica corretta in un paese ci-vile e democratico: la gestione pubblica del sociale senza sprechi e senza tangenti. Probabilmente l’ebbrezza da mass media, che colpisce molti, offusca purtroppo le menti distruggendo la coscienza della civiltà.

Il Signor Ministro che è uomo di cultura, non dimentichi che la scuola è un DIRITTO di tutti sancito dalla stessa Costituzione, tanto magnanima, che fa si che Egli possa fare il Ministro!

Se un giorno, non avremo più una scuola democratica e capace di formare in senso psico-sociologico e critico i nostri ragazzi, avremo perso la battaglia per la democrazia e per la difesa della nostra dignità.