La politica sull’occupazione portata avanti da questo come dai governi precedenti si basa su alcune semplici assunzioni: occorre sussidiare le imprese, altrimenti queste non investono nel nostro paese, occorre `liberalizzare’ ulteriormente il mercato del lavoro, e forse occorre diminuire i tassi di interesse reali. In una fase del ciclo della crisi in cui strutturalmente diminuisce il lavoro necessario e cresce la massa dei profitti per le imprese, un governo che voglia dirsi progressista dovrebbe pensare piuttosto a strategie e provvedimenti mirati a sussidiare il lavoro, in qualsiasi forma riferita al valore complessivo del salario.
Interrogandosi sulle strategie migliori in grado di riportare un paese come l’Italia su un sentiero virtuoso di crescita sostenuta e bassa disoccupazione, l’economista nord-americano E. Phelps’ si è dichiarato recentemente favorevole a una sorta di neo-Rinascimento basato sulla creazione di cultura imprenditoriale che però, abbastanza curiosamente, abbisognerebbe di "employment subsidies for several decades" che sconterebbero un tasso di apprendimento lento giustificabile forse con l’ideologia italiana. In contrasto con l’opposto invito proveniente da Modigliani2 che ritiene un rilancio degli investimenti essenziale per la ripresa dell’occupazione e lamenta gli alti tassi di interesse gestiti dalla politica monetaria europea, diversi economisti, ritenendo la disoccupazione europea superiore al suo "livello di equilibrio naturale", notano come, proprio con riferimento all’economia italiana, più di una riduzione nel recente passato dei tassi ufficiali di sconto non sembra avere stimolato più di tanto l’occupazione, via in-vestimenti. In numerosi modelli micro-fondati, i teorici neo-keynesiani sottolineano viceversa da tempo l’importanza dell’addestramento professionale come costo impor-tante che le aziende cercherebbero di evitare pagando i propri lavoratori anche più del salario "di equilibrio". In realtà, si potrebbe pensare a questi costi come costi di supervisione e controllo, che però vengono da un altro canto ridotti grazie alle possibilità crescenti di automazione del controllo. In generale, i modelli cosiddetti neo-keynesiani sono propensi a credere all’importanza di rigidità, nominali o reali, che impedirebbero ai mercati di trovarsi in equilibrio. In queste condizioni, una politica di sussidi, sotto qualsiasi forma, al capitale non è affatto detto che comporti maggiore occupazione; anzi, da un lato, le desti-nazioni della spesa dei capitalisti restano determinate, nel medio periodo, dal confronto tra il "prodotto marginale del capitale" e una sorta di media del tasso d’interesse prevalente a livello mondiale; d’altro canto, se il sussidio al capitale corrisponde a una diminuzione del reddito disponi-bile per i lavoratori, l’effetto sulla domanda aggregata sarà negativo, deprimendo ulteriormente le ragioni per l’occupazione. In diversi articoli e in un libro Phelps ha cercato di dimostrare come, tenendo conto della ricchezza, gli au-menti nello stock di capitale oggi aumentano la disoccupazione. Nel suo modello di "mercato dei clienti" ogni au-mento nello stock di capitale che non sia accompagnato da un aumento nello stock dei clienti può favorire una sostituzione di capitale a lavoro, piuttosto che un semplice au-mento nell’intensità di capitale senza licenziamenti. Come a dire, i sussidi dati al capitale servono al capitale solo a di-sfarsi di ulteriore lavoro.
Più in generale, per garantire l’aumento dell’output di un sistema economico composto da lavoro e capitale, o si cerca di incrementare l’investimento in nuovi beni capi-tali tecnologicamente avanzati, o si incrementa il lavoro, o si cerca di aumentare l’efficienza, cioè la produttività dei fattori di produzione. Con un livello di produttività vicino alla frontiera e in presenza di una tendenza al ristagno de-gli investimenti, l’unica politica pubblica in grado di sostenere la crescita deve necessariamente fondarsi sul sostegno al lavoro, all’occupazione e al salario inteso come salario sociale globale.
Secondo l’opinione espressa da Haberger3 molti, forse la maggior parte degli economisti, credono che l’aumento del reddito prodotto venga spiegato dall’ aumento dei fattori di produzione, ma quando si tenta di stimare questa relazione, non sempre i risultati sembrano conferma-re le aspettative. Comunque misurato, il cosiddetto "resi-duo di Solow" finisce con spiegare la metà o più degli incrementi della produzione, che alcuni considerano prevalentemente "capitale umano", altri "progresso tecnico" o, come sostiene Haberger, "un fattore di riduzione reale dei costi". Quanto questo fattore sia legato a una tendenza al-la concentrazione, dunque a una qualche forma di economie di scala, è lo stesso Haberger a sottolinearlo, tenendo conto delle stime del rapporto tra gli aumenti di produttività sperimentati nel tempo da diversi rami di industrie, e della loro tendenza alla concentrazione. Dai risultati dei suoi studi si evince che: una più che modesta frazione dei settori dell’industria manifatturiera statunitense rappresenta per ogni periodo il 100% della "riduzione reale dei costi"; nel resto dell’industria si contano alla fine di ogni periodo vincitori e vinti, con gli incrementi di produttività di alcuni controbilanciati dai decrementi di altri. In merito al metodo di analisi, Haberger suggerisce di studiare le diverse componenti di un processo di crescita, dal saggio di investimento al tasso di rendimento del capitale ecc. in maniera separata e, in particolare, di soffermarsi sul saggio di investimento piuttosto che su quello di risparmio, dal momento che, soprattutto per economie fortemente interdipendenti ed aperte al commercio internazionale, il risparmio interno è ben poco in relazione con l’investimento interno. Per quanto riguarda direttamente l’evoluzione delle variabili maggiormente candidate a spiegare la dinamica del tasso di crescita, è ancora Haberger, nel suo Presidential Address dell’American Economic Association del 1998, ad affermare che la pervasività della diminuzione della produttività è la conclusione più profonda che si possa trarre dai suoi studi empirici. Stan-do così le cose, è all’investimento, e al suo rapporto con il saggio di profitto, che occorre rivolgere l’attenzione, a partire da un esame delle sue determinanti microeconomiche, per verificare se esiste una possibilità di legare ancora le prospettive della crescita ad un aumento nel ritmo degli investimenti, e dunque adottare politiche pubbliche che si giustificano in questa prospettiva. Se così non fosse, occorrerebbe prenderne atto e passare a politiche di sostegno attivo al lavoro, all’occupazione, al salario.
(I) La crisi del meccanismo di accumulazione
In un saggio dedicato all’esame di un secolo di sviluppo economico in Italia, N. Rossi e G. Toniolo’ dichiarano di considerare "ormai datata, anche per la formulazione totalizzante e l’elevato contenuto ideologico" la tesi sostenuta da Pietro Grifone circa la presunta prevalenza in Italia di un capitalismo orientato alla rendita piuttosto che ai profitti, e con ciò facendo riferimento al ruolo e al-l’importanza del concetto di capitale finanziario5 che, secondo gli autori, offrirebbe alcuni spunti da non trascura-re. E’ proprio il concetto di capitale finanziario, inteso come fusione tra banca e impresa, che potrebbe fornire utili elementi per la comprensione di quella diminuzione generalizzata del ritmo di crescita degli investimenti e del reddito che costituisce una caratteristica importante del-l’attuale fase del ciclo della crisi.
Per quanto riguarda le evidenze empiriche disponibili, in un recente volume dedicato ad un esame della politica economica italiana negli ultimi trent’anni, S. Rossi6 trova evidenza per una drastica attenuazione nel ritmo di sviluppo dell’economia italiana, specificando che non si tratta di una caratteristica peculiare a una singola nazione, bensì di una tendenza comune all’Europa intera. In realtà, non si tratta nemmeno solo dell’economia europea, dal momento che le previsioni sulla crescita mondiale presentate dal F.M.I. nell’autunno del `98 parlano esplicitamente della realtà di un tasso di crescita in calo a li-vello globale, con rischi positivi e crescenti di una recessione mondiale entro il 1999. Con una inversione repentina quanto tardiva, tutti i principali organismi economi-ci sovranazionali sembrano essere passati dall’ottimismo al pessimismo quanto alle capacità del sistema economico capitalistico di prosperare e garantire all’umanità livelli decenti di vita e di sviluppo, e tutto ciò proprio in presenza di un’applicazione generalizzata e massiccia quanto mai prima delle dottrine economiche tradizionali in praticamente tutte le economie del pianeta.
In particolare, l’OCDE ha pubblicato recentemente uno studio dedicato alla "globalizzazione"7 in cui vengo-no esaminati retrospettivamente gli ultimi 25 anni di sto-ria economica ed indicate alcune previsioni a medio termine. Lo studio si apre, significativamente, con l’annotazione di un rallentamento del ritmo dell’accumulazione del capitale nella zona OCDE (pag. 59). Passando alle differenze tra aree, 1’OCDE nota come in Europa l’accumulazione del capitale abbia sperimentato la tendenza alla crescita notevole dell’intensità capitalistica dei processi di produzione, mentre negli Usa abbiamo assistito ad un accrescimento della capacità di investimento da parte delle imprese; per quanto riguarda il Giappone, I’OCDE ritiene che il rallentamento spettacolare registrato all’inizio degli anni `90 potrebbe essere in buona parte dovuto ad elementi congiunturali. In generale, durante l’ultimo quarto di secolo, lo stock di capitale dei paesi membri dell’OCDE ha conosciuto una crescita media dell’1% l’anno: a crescere in maniera relativamente più sostenuta sono stati invece gli investimenti diretti all’estero (IDEI, e questo anche grazie ad una politica generalizzata di liberalizzazione che, pur interessando in misura crescente le economie dei paesi dominati, vede ancora una concentrazione del 96% del totale degli IDE nell’ambito dei paesi OCDE. Per quanto riguarda i possibili scenari futuri, da qui al 2020, gli esperti dell’OCDE hanno tenuto conto di due diverse possibilità: una ipotesi definita di "crescita forte". tutta basata sulla speranza politica di una continuazione delle politiche di liberalizzazione a favore delle imprese che porterebbe - "se tutto va bene" - ad un aumento moderato del tasso di investimento nel breve periodo, seguito in ogni caso da una sua diminuzione successiva. Va da sé che l’ipotesi di "crescita più lenta" prevede una stagnazione nel ritmo di crescita degli investimenti nel breve e nel medio periodo, e comunque una sua diminuzione nel lungo. Dato questo quadro, gli analisti OCDE ritengono che, almeno nei paesi dominanti, il contributo maggiore alla crescita economica sarà rappresentato dagli incrementi di produttività, mentre per quanto riguarda Europa e Giappone il contributo dell’occupazione alla crescita sarà certamente limitato anche nello scenario più roseo, fino a diventare addirittura negativo, fondamentalmente a causa delle dinamiche demografiche all’opera in queste due aree del pianeta.
Tra il dopoguerra ed oggi in Italia il saggio di accumulazione, espresso come rapporto tra investimenti fissi lordi e prodotto interno lordo, è calato continuamente e consistentemente: secondo i dati riportati da uno studio della Banca d’Italia6 solo tra il 1973 e il 1995 la quota de-gli investimenti sul pil è passata dal 24 al 18%. Secondo 1’ISTAT9 tra il 1980 e il 1996 il tasso di incremento medio annuo del capitale, calcolato al lordo del deprezzamento del capitale installato e a prezzi 1990, è andato diminuendo, passando dal 2.9% degli anni ottanta al meno del 2% degli anni novanta: analizzando il rapporto tra investi menti e stock di capitale negli ultimi quindici anni, si registra che la dinamica positiva degli investimenti ha solo in parte frenato la progressiva diminuzione del processo di accumulazione - dal 5% del 1980 al 3.5% del 1996 -. Tale andamento è particolarmente pronunciato nel setto-re industriale - che passa dal 7.3% del 1980 al 4.8%, del 1996 - dove, nel tempo, le scelte di investimento si sono spostate dai comparti ad alta intensità di capitale verso settori con più bassi livelli di capitalizzazione I...] la ripresa del processo di accumulazione si presenta con una intensità di gran lunga inferiore a quella tipica degli inizi degli anni ottanta. In generale, dal 1980 ad oggi la crescita dello stock di capitale ha subito un rallentamento in tutti i settori produttivi.
Per quanto riguarda la dinamica del Prodotto interno lordo, è ancora l’ISTAT a sottolineare come negli ultimi sei anni la sua crescita media in termini monetari è stata del 6.1%, contro un tasso medio del 10.1% nella seconda metà degli anni ottanta e del 16.2°/x, nel periodo 1981-85.I1 Centro Studi Confindustria. nel suo Rapporto del 1997. scrive che nel 1996 l’attività di investimento ha assunto un profilo cedente. Il processo di accumulazione sembra entrato in una fase di ristagno sia per quanto riguarda la componente dei macchinari e delle attrezzature che per quella delle costruzioni mentre, per quanto riguarda il lungo periodo, una nota allegata allo stesso rapporto1’ precisa che nel corso del quarantennio in esame [1951 - 1991] la crescita dell’output manifatturiero è in costante rallentamento.
Con riferimento alle trasformazioni intervenute nella composizione settoriale dell’offerta manifatturiera in Italia durante gli ultimi cinquant’anni, sono da notare il ridimensiona-mento dell’industria di base, la crescita notevole delle industrie meccani-che, il calo drastico dell’industria tessile, la sostanziale invarianza del peso del cosiddetto made in Italy e la leggera diminuzione dell’alimentare. Tra le ragioni di queste trasformazioni, Traù cita il graduale spostamento verso fasi produttive più a monte (verso la produzione di macchine specializzate) delle imprese della filiera tessile-abbigliamento, così come di quelle dei set-tori conciario e calzaturiero e del mobile’i
Guerrieri, Manzocchi e Padoan trovano che la specializzazione dell’industria italiana tra il 1970 e il 1990 sia cresciuta decisamente nei settori della meccanica strumentale a elevata diversificazione d’offerta, come le macchine agricole e industriali, nella componentistica meccanica. gia apparecchi e i materiali elettrici; si sia mantenuta su livelli elevati nei settori tradizionali del "made in Italy" come il tessile-abbigliamento, le pelli e il cuoio, le calzature, la ceramica e i prodotti in metallo. Viceversa, l’industria italiana si è leggermente despecializzata nei prodotti ad alto contenuto tecnologico e ad alta intensità di ricerca e sviluppo, e nettamente è peggiorata nella maggior parte dei settori ad elevate economie di scala, quali l’automobilistico, l’elettronica di consumo, le macchine per ufficio, la chimica, la metallurgia.
Che la crisi del meccanismo di accumulazione vada so-stanzialmente retrodatata fino agli anni `60 è messo in rilievo, tra gli altri, da M. Magnani’3 che definisce come caratteristica centrale del periodo 1964-1969 proprio la stasi dell’accumulazione. Gli investimenti, sorretti dal settore delle costruzioni, superano in Italia solo nel 1969 il livello del 1963, registrando nel periodo un incremento medio annuo di poco superiore all’1%: il tasso di accumulazione (calcolato come investimenti su valore aggiunto) recupera solo nel 1973 i valori del 1962-63 e lo fa in buona parte grazie all’impulso degli investimenti del settore pubblico destinati all’industria di base. A livello di mercato mondiale il periodo compreso tra il 1959 e il 1967 segna la fase di massima forza del capitalismo nordamericano come compimento del ciclo ascendente della fase della crisi: dal 1965, con tempi e modi diversi ma sempre più interdipendenti, si avvia quel processo inflazionistico che esplode poi visibilmente solo nel passaggio al decennio successivo: tra il 1967 e il 1969, con mezzo mondo in rivolta, le condizioni di valorizzazione e di accumulazione del capitale non erano più le stesse di vent’anni prima. La grande e lunga crisi attuale era cominciata.
Secondo A. Saba "il modello italiano è in modello moderno di utilizzare lavoro altamente produttivo, quindi capace di produrre ricchezza, sebbene circondato da un sistema che ha sempre avuto come fine quello di tra-sformare il sovrappiù, prodotto dal sistema economico, in forme dirette o indirette di supporto al mantenimento del potere politico. E quindi in forme dirette o indirette di lavoro improduttivo." In Donato e Gabriele (1987) trovavamo evidenza per una caduta del saggio di accumulazione con caratteristiche se possibile ancora più marcata-mente strutturali, e che si esprime proprio come crescente utilizzo del "sovrappiù"15 prodotto per spese improduttive e statali, considerando in questo caso la dinamica del saggio di sovrappiù in rapporto al PIL come un indicato-re che esprime il "tasso di accumulazione potenziale". Se consideriamo non solo il mercato interno, ma la realtà del mercato mondiale, la ragione della crisi dell’accumulazione, tipica di una fase ciclica in cui prevale la forma speculativa del capitale finanziario, può essere microfondata, a partire dall’esame delle scelte e dei vincoli finanziari del-le imprese, nella progressiva prevalenza degli utilizzi finanziari e speculativi del "sovrappiù" per quanto riguarda le scelte di politica aziendale interna, e nella internazionalizzazione crescente della produzione, che si esprime sia nella crescita di "material" importati dall’estero, sia nella esportazione di capitali che prendono la forma di in-vestimenti diretti all’estero, soprattutto in alcuni settori e in alcune fasi del processo di produzione. In questo con-testo, il tasso di sovrappiù SV/PIL indica la capacità del sistema produttivo di creare valore al di là delle esigenze immediate di riproduzione della forza-lavoro e può quindi essere definito come saggio massimo teorico di accumulazione potenziale. Come regola generale di funziona-mento dei sistemi economici capitalistici, il tasso di sovrappiù in un paese industrializzato tende a crescere nel lungo periodo in seguito al progresso tecnico, concentrato nella sfera "materiale" del settore produttivo, comportando l’espansione del ruolo dello Stato16 e/o del terziario improduttivo; nei casi più "virtuosi" della c.d. fase fordista del ciclo di sviluppo capitalistico questo aumento del sovrappiù favorisce la creazione di surplus esportabile, creando così le basi per una internazionalizzazione del sistema economico considerato, le cui tappe successive so-no l’espansione degli investimenti diretti all’estero (LD.E.) e quindi l’esportazione diretta di capitali.
(II) Decisioni di investimento e scelte finanziarie di imprese eterogenee
Adottando l’usuale periodizzazione criticata vigorosa-mente, tra i pochi, da Pala’7, Garofalo e Gambacorta’8 datano al primo shock petrolifero la tendenza alla diminuzione progressiva dei tassi di crescita del PIL in termini reali, che avrebbe raggiunto un punto di minimo quasi ovunque nel 1982, seguito da un ciclo positivo interrotto-si di nuovo tra il 1991 e il 1993: durante questo periodo, riguardo agli investimenti, gli autori trovano che sia avvenuto un consistente spostamento di risorse verso gli impieghi finanziari, a danno di quelli produttivi. Trattandosi di un lavoro che fa esplicitamente riferimento alle teorie della "instabilità finanziaria" per spiegare le difficoltà di un sistema economico moderno, è utile partire da questa impostazione teorica che sembra più robusta e meglio micro-fondata rispetto ad altre possibili ipotesi investigate altrove.
Gli autori considerano una funzione dell’investimento che collega la spesa delle imprese positivamente al prezzo di domanda dei beni capitali sul mercato azionario e al livello dell’autofinanziamento e negativamente al rischio del progetto:
[I] I = I (PK, AF)
Il prezzo di domanda dei beni capitali, a sua volta, dipende positivamente dai rendimenti futuri, dall’offerta di moneta, ma pure dai prezzi attesi:
PK = PK (Q, Ms, Pke)
Per quanto riguarda i rischi, Garofalo e Gambacorta, diversamente da altri sostenitori dell’IIF (ipotesi di instabilità finanziaria), operano una distinzione: mentre quello del debitore è funzione inversa della differenza tra la redditività attesa dall’investimento (il ROI) e il costo medio dell’indebitamento (il tasso d’interesse i), quello del creditore dipende direttamente dal grado di esposizione del-l’impresa (il leverage, LEV):
a = a [(ROIe - i), LEV]
Il grado di leverage di un’impresa rappresenta il grado di copertura del totale degli impieghi mediante l’utilizzo del solo patrimonio netto, e con un LEV>1, dunque con un indebitamento, ci sarà un effetto moltiplicativo (di leva, appunto) se la redditività dei nuovi investimenti su-pera i tassi sugli interessi passivi; 1’IIF è basata proprio sull’ipotesi che le posizioni patrimoniali delle imprese evolvano "naturalmente" da posizioni "coperte" a posizioni "speculative" o addirittura "ultraspeculative".
L’autofinanziamento delle imprese è costituito dalla differenza tra i profitti meno le imposte meno i dividendi ed il prodotto dello stock di debito per il suo tasso di interesse:
AF = AF(jj7 - Div) - i Dt_1.
Linserimento dell’autofinanziamento nella funzione degli investimenti serve a introdurre un tema importante nella discussione sulla crisi dell’accumulazione, e cioè la compresenza nei mercati di imprese di varia dimensione, tipicamente piccole, medie e grandi imprese. In questo con-testo siamo interessati principalmente ad indagare l’eterogeneità tra imprese che possono disporre di canali di autofinanziamento, e dunque sono meno vincolati ai cambiamenti nelle politiche monetarie, ed imprese vinco-late.
Con una prospettiva di "instabilità finanziaria" in mente, i profitti possono essere messi positivamente in relazione con gli investimenti, il deficit pubblico, il surplus commerciale, ricordando che, per quanto attiene al-la distribuzione del reddito, si può agevolmente considerare nulla la propensione al risparmio dei lavoratori, men-tre invece conviene porre attenzione al consumo dei capitalisti, tipicamente costituito da merci di lusso; in parti-colare, per quanto riguarda il controverso rapporto tra in-vestimenti e profitti, Kalecki sosteneva che: ’E’ chiaro che i capitalisti possono decidere... di investire in un dato periodo di più che nel periodo precedente, ma essi non possono decidere di guadagnare di più. Sono quindi le decisioni circa l’investimento... che determinano i profitti, e non viceversa".’`’ Dal canto suo, Minsky2" scriveva: "Un’economia capitalistica funziona bene soltanto in quanto economia che investe, poiché l’investimento genera profitti... L’investimento ha luogo perché ci si aspetta che i beni capitali frutteranno profitti in futuro ma questi profitti futuri saranno disponibili soltanto se ha luogo l’investimento. I profitti sono il bastone e la carota che fanno funzionare il capitalismo".
[V] (Il* = (l1* (I, DP, SC, cn)
La teoria economica che sta dietro al modello, ossia l’ipotesi di instabilità finanziaria (Minsky), suggerisce che, nelle fasi ascendenti del ciclo, gli investimenti crescono, stimolati dalla diminuzione del rischio imprenditoriale, dall’aumento di PK, e dall’aumento degli autofinanziamenti, indotto dalla crescita della massa dei profitti. A questo punto, per continuare ad investire, le imprese vengono indotte ad accrescere l’indebitamento, passando a posizioni finanziarie più "speculative": il tasso di interesse è spinto a crescere facendo aumentare il volume degli oneri finanziari sul debito, la profittabilità dei pro-getti di investimento si riduce, il rischio di impresa cresce, il prezzo di domanda dei beni capitali cade. Per far fronte alle esigenze di liquidità le unità economiche sono costrette a vendere sul mercato le attività detenute in portafoglio, e ciò causa la caduta delle borse peggiorando la situazione economica generale.
Riprendendo i dati dell’OCDE sul periodo 1980-1991 sull’indebitamento netto delle imprese non finanziarie in rapporto al Pi121 utilizzati da Garofalo e Gambacorta si può notare come effettivamente nel corso dell’ultima fase espansiva del ciclo della crisi l’indebitamento sia aumentato sensibilmente per tutte le imprese dei paesi del G7. mentre diversa appare la composizione dei bilanci delle imprese con l’avvio del ciclo recessivo: mentre diminuisce l’indebitamento netto delle imprese in Canada, in Francia, in Giappone, negli Stati Uniti e nel Regno Unito, cresce per le imprese tedesche e italiane riproponendo sostanzialmente la questione del rapporto tra indebitamento e cicli.
Delli Gatti, Gallegati e Minsky22 riprendono la visione Schumpeteriana del ciclo ricordando come un periodo di profonda depressione del tipo del ’29 coincida con i punti di minimo dei cicli di Kitchen (che riguardano l’andamento degli investimenti e delle scorte), di Juglar (cicli degli investimenti con implicazioni monetarie e finanzia-rie) e di Kondratiev (cicli di ondate di innovazioni tecnologiche fondamentali) aderendo all’IFF per quanto riguarda la dinamica generale dell’economia.
Nella loro funzione degli investimenti:
[Ibis] It = avt + bt Ift ,
con v che rappresenta il prezzo dei beni capitali, o il rapporto tra questo e il prezzo di offerta dei beni di investi-mento (come la q media di Tobin), a è un parametro non negativo, b è il rapporto di leverage e IF rappresenta l’autofinanziamento.
A sua volta il rapporto di leverage è composto da un parametro che rappresenta la "preferenza per la liquidità" delle imprese e da una quota che dipende dai profitti crescendo in modo non lineare:
[VI] bt = b0 + b1 arctg (flt-1)•
La prociclicità degli investimenti e dell’indebitamento è spiegata da Delli Gatti, Gallegati e Minsky facendo riferimento all’eterogeneità delle imprese, e in particolare alle condizioni asimmetriche di finanziamento messe in rilievo, tra gli altri, da Fazzari, Hubbard e Petersen2 : quando il ciclo si trova nella sua fase espansiva, cresce il numero delle imprese nuove e dunque piccole e vincolate nei confronti dell’autofinanziamento: con la crescita del-l’investimento di queste imprese cresce anche l’indebita-mento medio delle imprese, qualunque sia il comporta-mento delle imprese maggiori. Quello che non è del tutto chiaro è viceversa che cosa succede quando il ciclo si inverte, dal momento che l’indebitamento si riduce sicura-mente per le imprese maggiori, ma non per le piccole, e questo spiega l’apparente asimmetria della dinamica del-l’indebitamento netto delle imprese italiane rispetto alla media del G7, dal momento che la composizione dell’offerta manifatturiera italiana è (ancora) relativamente me-no concentrata e centralizzata rispetto alle economie maggiormente "sviluppate".
Mauro Gallegati e Stanca24 mettono l’accento sull’eterogeneità delle imprese come contrapposta all’obsoleto modello dell’agente rappresentativo ritenendo che la presenza di eterogeneità tra le diverse unità economiche sia anche in grado di spiegare alcune caratteristiche relative al ruolo degli impulsi nominali nel determinare le fluttuazioni e i cicli dell’economia. Quando si verifica un au-mento nel livello generale dei prezzi, si produce non solo una crescita della base azionaria delle singole imprese, ma pure della sua varianza: l’effetto composizione all’opera genera un comportamento ciclico di tipo asimmetrico che rende la struttura finanziaria del sistema più vulnera-bile in recessione. In altre parole, un impulso avverso avrà effetti maggiori sul reddito in recessione che in espansione proprio per il grado superiore di fragilità finanziaria.
Osservando il comportamento delle imprese medio-grandi italiane per il periodo 1982-199225 è possibile tentare di verificare se questo assunto appaia ragionevole.
Consideriamo una struttura semplificata del flusso dei fondi di una tipica impresa manifatturiera per cui valga l’equilibrio contabile KI(i) = KI(r) nel senso che il capitale in-vestito considerato in termini di impieghi deve eguagliare il capitale investito considerato dal versante delle risorse:
[VII] KI (i) = AI + CI + AD con (AI+CI)=KO;
[VII11 KI(r) = CF + KS + ci + DR
In termini di impieghi, il capitale investito si compone di attività industriali (AI), capitale circolante (CI) e attività finanziarie (AF), dove la somma di circolante e attività industriali rappresenta il cosiddetto capitale operativo (KO). Sul versante delle risorse, il capitale investito proviene dai flussi di cassa (CF), dal capitale sociale (KS), dai contributi incassati (ci) e dai debiti finanziari (DF).
Per tutti gli anni ottanta e fino ad almeno l’inizio de-gli anni novanta, almeno per quanto riguarda le 8.132 imprese riportate dalla Centrale dei bilanci e le 1.542 del campione Mediobanca, gli investimenti in attività industriali sono rimasti praticamente stagnanti, rappresentando una quota del fatturato delle imprese che varia tra il 4 e il 6%; la percentuale delle attività finanziarie sul fatturato invece triplica, passando dall’1 al 3%, variazione che coincide con quella di segno opposto fatta registrare dal capitale circolante. Riguardo alle variazioni intervenute nella composizione per fonte delle risorse che finanziano il capitale investito, si osserva che la quota rappresentata dai flussi di cassa diminuisce, così come diminuisce l’apporto del capitale sociale e resta sostanzialmente stabile la quota dei contributi incassati: quello che è cresciuto è effettivamente il finanziamento esterno rappresentato da una variazione positiva dei debiti finanziari, come avevamo osservato dai dati OCSE.
Se, anziché al fatturato, facciamo riferimento direttamente al totale del capitale investito, notiamo come la quo- ta degli investimenti tecnici oscilla attorno al 50% tranne un breve picco, gli investimenti in attività finanziarie cre- scono ininterrottamente dal 10 fino a circa la metà del ca- pitale investito, con la diminuzione sensibile del capitale circolante che da circa un terzo dell’investimento conta po- co più di un decimo. Analogamente, il finanziamento attraverso i flussi di cassa dal 90% passa a costituirne meno della metà, il capitale sociale che contribuiva per il 15% vede il suo peso diventare trascurabile, mentre i debiti finanziari accrescono pesantemente la loro importanza fino a rappresentare poco meno della metà del capitale investito dalle imprese manifatturiere italiane. Come ricordato in precedenza, le scelte di investi-mento e di finanziamento delle imprese italiane si sono risolte in una tendenza alla diminuzione marca ta e sostanziale degli investimenti "reali" la cui quota scende in dieci anni dal 20 al 16% mentre la quota delle attività finanziarie sul totale degli impieghi supera, per la prima volta, la spesa per investimenti fissi.
Bianco, Ferrando, Pellegrini e Trento26, analizzando lo stesso set di dati, ritengono che il miglioramento dei risultati delle imprese italiane nel corso degli anni ottanta abbia sollecitato un aumento dell’autofinanziamento con una conseguente riduzione nel tempo dell’indebitamento medio; tuttavia, la ristrutturazione finanziaria (per noi, la accresciuta fusione tra banche e imprese) sarebbe stata realizzata quasi esclusivamente dalle grandi imprese, per le quali si è ridotto soprattutto l’indebitamento a breve, mentre per le piccole e medie imprese questo ha continuato a crescere.
(III) Il rischio e la crisi
E’ ben noto l’influsso che il crollo di Wall Street del 1929 esercitò sulla teoria dell’interesse di I. Fischer; dopo il 1930, fu più difficile attribuire alle crisi deflattive quel ruolo "catartico" che avrebbe dovuto in teoria punire le imprese più indebitate e gli speculatori più avventa-ti; in presenza di una fase di distruzione e svalorizzazione di capitale in eccesso, non solo sono tutte le unità economiche del sistema ad essere coinvolte dalla deflazione. ma è anzi possibile sostenere che a rimetterci di più so-no proprio quei soggetti più "deboli" in termini di rapporti di forza, che non coincidono necessariamente con le imprese più indebitate o con gli speculatori più avventati.
Grazie ai successivi contributi di Kalecki27, siamo oggi in grado di connettere meglio la tendenza all’indebita-mento crescente delle imprese con le considerazioni sul rischio d’impresa considerato come crescente: secondo tale principio il singolo imprenditore avrà convenienza ad espandere il capitale investito finché la somma del rischio marginale e del tasso di interesse non eguagli quel tasso marginale di profitto che in Kalecki corrisponde al-l’efficienza marginale del capitale di Keynes. E’ impor-tante sottolineare che si tratta di rischio marginale e non medio, come ricorda Corbisiero2s citando lo stesso Kalecki: "abbiamo fin qui assunto - come si fa generalmente - che il tasso di rischio sia indipendente dall’ammontare investito K. Credo che questa ipotesi vada abbandonata per ottenere una spiegazione realistica del perché l’investimento sia limitato. E’ ragionevole supporre che il rischio marginale aumenti col crescere dell’ammontare investito, perché maggiore è l’investimento, maggiore sarà la riduzione del reddito che l’imprenditore consegue dal proprio capitale quando il tasso medio di profitto scende al di sotto del tasso di interesse ".20 In un’altra occasione, Kalecki specifica ancor meglio: `Un’impresa che si pone il problema di un’espansione deve far fronte al fatto che, dato l’ammontare del capitale imprenditoriale, il rischio aumenta con l’ammontare investito. Maggiore è l’investimento rispetto al capitale imprenditoriale, maggiore è la riduzione del reddito dell’imprenditore nel caso di un esito sfavorevole degli affari. Supponiamo, per esempio, che un imprenditore non riesca a realizzare alcun provento dai propri affari. Se soltanto una parte del suo capitale è investita negli affari e una parte è tenuta in obbligazioni di prima classe, egli ricaverà ancora un certo reddito netto dal suo capitale. Se tutto il suo capitale è investito negli affari il suo reddito sarà zero. Mentre, se egli ha preso a prestito, subirà una perdita netta, il che, se continua per un tempo sufficientemente lungo, porrà fine all’esistenza della sua impresa. E’ chiaro che quanto più pesante sarà l’indebitamento, tanto più grande sarà il pericolo di una tale eventualità.’ 30
Dunque, l’equazione kaleckiana dei profitti è:
[V bis] 11(K) = eK - pK - o (K), dove e rappresenta l’efficienza marginale del capitale, p il tasso d’interesse, o (K) il rischio connesso all’ivestimento e K il capitale investito.
La massimizzazione dei profitti implica:
[111 bis] e=p+o’ (K).
Quando le aspettative sui profitti futuri sono favore-voli, l’imprenditore non solo investirebbe di più, ma si indebiterebbe di più, anche perché maggiormente disponibile a rischiare in determinati progetti di investimento. E’ da sottolineare come il rischio di cui parla Kalecki è direttamente collegato all’indebitamento e dunque si manifesta solo a partire da una determinate "soglia" di autofinanziamento: mentre il generico rischio d’impresa è indipendente in quanto tale dalle condizioni di finanziamento, situazioni per cui valgono i risultati del teorema Modigliani-Miller, il rischio connesso all’indebita-mento è crescente, sia in valor medio che in termini marginali.
A differenza di Kalecki, Minsky prende esplicitamente in considerazione l’eredità costituita dalla situazione patrimoniale delle imprese, per cui nei suoi modelli le imprese avranno convenienza ad effettuare spese per investimenti fintanto che la curva di domanda del bene capi-tale Pk inclinata negativamente giace al di sopra della curva di offerta inclinata positivamente che esprime il prezzo al quale il bene di investimento è disponibile sul mercato; tuttavia, se si intende investire al di là del limi-te costituito dalla quota di utili destinata all’autofinanziamento, diventa indispensabile indebitarsi.
Ma siccome chi prende a prestito ritiene che i flussi di contante sui prestiti siano certi, mentre i rendimenti fu-turi attesi non lo siano, un aumento della proporzione dell’investimento finanziato esternamente fa diminuire il margine di garanzia e quindi riduce il saggio al quale chi prende a prestito capitalizza le quasi rendite. A causa del rischio del debitore, quindi, il prezzo di domanda dei beni capitali "cade": possiamo aggiungere che tale caduta sarà tanto più veloce quanto maggiore è l’impiego di questo particolare tipo di bene capitale e quanto maggiore è la quota di fondi presi a prestito."’
Per passare dal livello micro a quello macroeconomico, è necessario a questo punto considerare che cosa succede in un sistema economico in cui sia già presente, in misura notevole, l’indebitamento. E’ evidente che, affinché i debiti contratti dalle imprese possano essere onora-ti, le imprese devono essere in grado di conseguire profitti, ma poiché i profitti dipendono dalle decisioni di investimento, è necessario che si continui a investire, ma per ottenere le risorse capaci di finanziare un investimento, le imprese devono indebitarsi nuovamente, amplificando le iniziali condizioni di fragilità.
Sulla corretta definizione di condizioni di fragilità finanziaria, ritorna estesamente Corbisiero (1998) facendo riferimento alla definizione di Minsky di unità coperte, speculative e ultraspeculative. Una unità si trova in posizione finanziaria "coperta" quando le sue entrate nette future (Aqi) sono in ogni periodo di tempo superiori alle sue uscite nette collegate al finanziamento (Pci) non necessitando dunque di ulteriore indebitamento per far fronte agli impegni di pagamento contratti. Viene viceversa definita speculativa quell’unità per cui non in tutti i periodi di tempo vige la sicurezza finanziaria, avendo una parte di impegni collocati in periodi - tipicamente le fasi iniziali di un progetto di investimento - in cui i flussi di entrata non riescono a coprire le spese; per onorare i debiti, queste imprese devono o vendere attività in proprio possesso o accollarsi nuovi debiti. Una unità ultraspeculativa, infine, è tale se programma le proprie attività in modo che non solo il capitale, ma addirittura le spese per i soli interessi passivi sono per alcuni periodi superiori agli incassi previsti.
Quando il ciclo di accumulazione entra nella sua fase declinante il comportamento degli agenti che dirigono il settore del credito tenderà ancor più del solito a concedere finanziamenti in base alla ricchezza patrimoniale delle imprese, piuttosto che in relazione ai progetti di in-vestimento i quali, a loro volta, per poter essere in grado di assicurare oltre che il profitto il rimborso del debito, saranno contraddistinti da un maggior coefficiente rischio/rendimento. Come risultato, si rafforza una generale situazione di instabilità finanziaria che può finire per compromettere la struttura degli agenti più deboli, tra cui le imprese piccole e giovani, alcune delle quali si troveranno costrette a rivedere, rimandare o annullare i progettati investimenti, mentre per altre si porrà il problema della stessa sopravvivenza in relazione alla mutata struttura di mercato. Le imprese minori che riescono a sopravvivere si vedranno costrette ad utilizzare la propria ricchezza o per ripagare i debiti precedentemente con-tratti rifinanziando per questa via il settore del credito, o ad alienare in tutto o in parte il proprio patrimonio a favore di qualche impresa maggiore a prezzi da "fallimento", il che porterà non solo ad una maggiore centralizzazione del mercato, ma a quella svalorizzazione di una parte del capitale esistente che costituisce il passaggio decisivo per controbilanciare, o almeno ritardare gli effetti, di quella crisi dell’accumulazione che è da intendersi in ultima analisi come crisi da sovrapproduzione di capitale.
Alcune evidenze empiriche relative all’economia italiana sembrano indicare che:
l’indebitamento netto delle imprese si è prima leggermente ridotto per poi ricrescere, con marcate differenze in relazione alla dimensione,
l’indebitamento netto delle famiglie è cresciuto,
si è verificato uno spostamento progressivo della distribuzione funzionale verso i redditi non da lavoro accompagnato da un aumento della povertà,
In presenza di una così evidente "riluttanza" del capi-tale a investire all’interno, preferendo di volta in volta optare per le scelte più congeniali ai suoi spiriti animali, dal-la delocalizzazione agli investimenti speculativi alle spese in beni di consumo di lusso, e in presenza di una conseguente diminuzione della crescita, con costi pesantissimi sui bilanci dei lavoratori occupati e disoccupati tra i qua-li aumenta in maniera preoccupante l’area della povertà, è auspicabile che sia le azioni di politica fiscale che quelle di politica monetaria di governi e istituzioni che vogliano dirsi progressisti si rivolgano al sostegno del lavoro. e non a quello del capitale.