Il corpo a buon mercato

Paolo Graziano

La prostituzione delle donne immigrate nelle dinamiche socio-economiche del meridione

Stazionano in luoghi situati in prossimità di fabbriche o lungo cantieri aperti,
quasi a ricordare il rapporto che intercorre tra sesso e produzione.
A. Pascale, La città distratta

1. Introduzione

Qualcuno ha definito la prostituzione come “il mestiere più antico del mondo” inaugurando un luogo comune di enorme successo, che tuttavia rappresenta una piccola parte di verità e molte errate congetture nella comprensione del fenomeno, specialmente delle sue configurazioni attuali. L’impiego pressoché esclusivo di straniere nel mercato del sesso, affermatosi in seguito alla vertiginosa crescita dei flussi migratori dai paesi del terzo mondo dopo i primi anni ottanta, rende inefficace l’applicazione di un modello della continuità, fondato sulla comparazione della prostituzione di ieri e di oggi: le donne che affollano le litoranee o le periferie cittadine sono completamente estranee al tessuto sociale locale, bisognose di relazioni e strutture d’appoggio dietro le quali si nasconde il lucroso sfruttamento praticato da piccole e grandi organizzazioni criminali, pertanto si riduce drasticamente la loro possibilità di gestione del mercimonio del corpo. In definitiva, le donne non sono destinatarie di una quota significativa dei benefici della transazione economica che regola la vendita e l’acquisto del sesso. Se ne deduce che, nelle sue forme attuali, la prostituzione non ha più le connotazioni di un “mestiere”, ovvero di un’attività volta a produrre reddito per chi direttamente la esercita. Bisogna intendersi: la prostituzione produce quotidianamente un enorme volume di denaro [1] contante e facilmente trasformabile, che tuttavia viene quasi totalmente requisito dall’organizzazione criminale oppure, con meccanismi più sottili ma non meno perversi, convertito dalle ragazze nell’acquisto obbligato di “servizi” o nell’estinzione di debiti fittizi ugualmente generati dalle dinamiche di sfruttamento. Quali siano i procedimenti destinati al recupero del denaro lo si vedrà più oltre. Ciò che interessa segnalare, in prima istanza, è una caratteristica della prostituzione di donne immigrate che funga anche da clausola metodologica nell’analisi del fenomeno: le pratiche attuali della prostituzione che si osservano nel Meridione come in altre aree della sponda settentrionale del Mediterraneo non sono riconducibili alle tradizionali logiche del lavoro, sia pure illegale, poiché non producono ricchezza per chi la pratica. Alla sopraffazione sociale implicita nell’acquisto di prestazioni sessuali si aggiungono dunque forme estreme di sfruttamento economico, spesso identificabili con la schiavitù, che rendono la situazione delle ragazze straniere deputate nel nostro territorio alla vendita del corpo radicalmente diversa da quella della “meretrice”, così come ci è stata consegnata dall’immaginario letterario e cinematografico o dal senso comune.

2. Progetto migratorio e prostituzione: i termini di una relazione

Alle radici di questa differenza sta la condizione di migranti, che caratterizza oggi la quasi totalità delle donne prostituite in strada in molte aree dell’Europa mediterranea. Le cifre non consentono di pensare ad una concentrazione momentanea o comunque circostanziale, ma indicano piuttosto un’avvenuta mutazione nelle regole del mercato del sesso a pagamento, che prevede una rigida divisione di aree e funzioni in cui le donne extracomunitarie occupano il posto più esposto e meno remunerativo [2].

Già alcuni anni fa l’associazione PARSEC, aggiornando su mandato del Ministero per le Pari Opportunità i dati di una ricerca svolta con l’Università di Firenze, stimava la presenza in Italia di un numero di straniere prostituite compreso tra le 14.000 e le 19.300 unità, con una concentrazione maggiore nei grossi agglomerati urbani come Milano (2.500) e Roma (3.500) e alcune anomalie significative quali l’elevata cifra di vittime della tratta (tra 1.000 e 1.500) che esercitano il meretricio nelle zone rurali e costiere della Campania [3]. Le poche analisi attendibili sulla situazione attuale mostrano una crescita esponenziale delle presenze, segno di un’indiscussa affermazione dell’offerta di prostituzione straniera sul mercato italiano del sesso a pagamento. È difficile stabilire con esattezza la quota percentuale delle prostitute straniere sul numero totale delle donne impiegate nel commercio del sesso - la fonte appena citata parla di un’incidenza del 50% circa - ma si tratta di un dato poco significativo, poiché la specializzazione dell’offerta, con la separazione di compiti, luoghi e condizioni della prostituzione tra italiane e straniere, rende più efficace parlare di due pratiche diverse piuttosto che di aspetti complementari della medesima attività. Delle due, l’esercizio della prostituzione da parte di extracomunitarie, svolgendosi prevalentemente in strada, è di gran lunga più visibile, esposto e, di conseguenza, destinato a generare tensioni sociali e a subire il carico delle periodiche repressioni.

Tra le ragioni del successo della manodopera straniera nel mercato del sesso va segnalato, in primo luogo, il costo esiguo delle prestazioni, la facilità di reperimento delle donne - collocate, peraltro, secondo precise strategie di organizzazione del territorio - e, non ultimo, il gusto della scoperta e della trasgressione intrinseco nella ricerca di sesso a pagamento e soddisfatto dall’aspetto esotico delle ragazze [4]. Più complesse e variegate le cause che determinano una così elevata disponibilità di manodopera straniera da impiegare nella prostituzione. Secondo Massimo Di Bello, la vertiginosa crescita delle extracomunitarie sulle strade si registra principalmente nel triennio 1989-1992 in relazione a due fattori di diversa natura: la destabilizzazione del sistema politico dell’est europeo, con la caduta del muro di Berlino e l’inizio del conflitto in Yugoslavia che aprono le cateratte dei flussi migratori verso occidente, e la coscienza diffusa della trasmissione dell’Aids attraverso rapporti eterosessuali non protetti, che favorisce il ritiro delle italiane dall’attività della prostituzione e apre illimitate possibilità di lavoro alle nuove schiave del sesso [5].

Precedentemente la prostituzione di donne straniere - segnatamente sudamericane provenienti da Brasile, Colombia, Perù, Santo Domingo
 era soprattutto l’esito ultimo di progetti migratori individuali disperati o comunque destinati al fallimento. È solo a partire dai primi anni novanta, dunque, che si sviluppano flussi eterodiretti, organizzati e continui di donne provenienti dai paesi dell’est e dell’Africa sub-sahariana, destinati a confluire nel grande mercato del sesso dell’Europa occidentale: bisogna assumere questo spartiacque storico - come suggerisce Chris de Stoop - per parlare di tratta di donne, uomini e minori a scopi di sfruttamento sessuale [6].

Un così ampio insieme di persone, singolarmente omogeneo per genere, condizione sociale e attività, risulta tuttavia profondamente articolato al suo interno. Significative, in primo luogo, sono le differenze che caratterizzano le motivazioni del progetto migratorio e il rapporto di quest’ultimo con il comune esito finale. Secondo un approfondito dossier elaborato dalla Cooperativa Sociale Dedalus, sulla base di tali criteri si possono individuare tre principali categorie di donne nel vasto scenario della prostituzione migrante:

• Un primo gruppo include le vittime della tratta vera e propria, ovvero le donne coattivamente e violentemente costrette alla prostituzione a seguito di un itinerario cominciato in patria con il raggiro o il rapimento;

• Una seconda componente, quantitativamente poco rilevante, è costituita da donne che si prostituivano già nel proprio paese o comunque gravitavano in circuiti collaterali all’esercizio effettivo del meretricio. Il loro progetto migratorio è fondato, ad un tempo, sulla continuità e il cambiamento, poiché sperano di migliorare la propria condizione svolgendo la stessa attività in un contesto più favorevole;

• Il terzo insieme raggruppa le donne che individuano, sin dalla partenza o poco dopo il loro arrivo, nella prostituzione l’unica alternativa alla povertà o comunque allo svantaggio economico. Si tratta di una categoria che pone interrogativi di portata capitale, poiché scaturisce da una forma di coercizione spesso più efficace e penetrante della violenza fisica e di gran lunga più diffusa: quella esercitata dalla divaricazione della forbice delle disuguaglianze e dall’imposizione dei modelli occidentali di benessere [7].

Pur mantenendo il quadro generale, sarebbe più corretto a questo punto parlare di prostituzioni invece che di prostituzione. Nelle differenze tra aspirazioni, progetti, appartenenze che caratterizzano queste donne si rintracciano d’altronde le variegate dinamiche della mirabolante impresa della vendita del sesso, che produce ricavi altissimi, veicola denaro pulito e facilmente riconvertibile in altre attività illecite sfruttando una manodopera in costante aumento dai costi minimi.

 

3. La “specializzazione” etnica

L’appartenenza etnica e il luogo di provenienza delle donne sono fattori fondamentali nella determinazione delle strategie di sfruttamento e nella segmentazione dell’offerta di sesso a pagamento. Senza considerare il dato sociologico e persino antropologico sfuggono del tutto i versatili e flessibili meccanismi messi in atto dal padronato criminale per realizzare il controllo sulla catena della tratta: l’attuazione efficace e senza sbavature di un qualsiasi tipo di sfruttamento richiede, infatti, una conoscenza profonda del retroterra sociale, economico e culturale del soggetto sfruttato.

Per i clienti, dall’altro lato, l’appartenenza etnica della prostituta acquista senso solamente sul piano estetico e può evidentemente aumentare il valore della merce: le implicazioni profonde della provenienza della ragazza sono deliberatamente tenute fuori dalla relazione (anzi, il rapporto mercenario è possibile solo a patto di tener fuori tali aspetti), poiché ne incrinerebbero pericolosamente le condizioni [8]. Trova qui concreta applicazione una delle più sottili violenze perpetrate ai danni dell’immigrata, in realtà condizione necessaria dello sfruttamento come di qualsiasi atto volto alla diminuzione della persona: la negazione dell’individualità, della storia personale e l’appiattimento del soggetto sulla propria condizione attuale o la presunta categoria d’appartenenza. La ricaduta di ciò negli atteggiamenti linguistici e mentali degli “ospitanti” è descritta da una giovane ungherese: “Tu non hai nemmeno un nome, quando si parla di te si dice ‘la filippina’, ‘la peruviana’, ‘il mio cingalese’ oppure ‘la ragazza’, ‘la donna’” [9].

L’invisibilità delle reali dimensioni della differenza agli occhi della clientela, sommata all’astuta utilizzazione di tali particolarità da parte delle organizzazioni criminali, determina l’esistenza di diversi tipi di prostituzione, che può essere indicata come il risultato dell’ottimizzazione della catena dello sfruttamento. Nel meridione d’Italia, di cui in particolare ci occupiamo, si distinguono quattro modelli principali di prostituzione migrante costituiti sulla base della provenienza etnica e geografica delle vittime, relativi alle aree del Maghreb, dei paesi dell’ex blocco sovietico, dell’Albania e della Nigeria.

La prostituzione maghrebina registra la presenza più antica sul territorio: principalmente concentrata nei grossi centri urbani - soprattutto quelli che hanno un’antica tradizione di contatti con il nord-Africa, come Napoli - viene praticata da donne di 30-60 anni la cui permanenza in Italia risale ad un periodo compreso tra i 5 e i 18 anni or sono. La maggior parte di loro gode di un permesso di soggiorno e ha una famiglia che può contare soltanto sui proventi del meretricio; quest’ultimo si svolge in orari prevalentemente diurni (dalle 10.30 alle 13.30 e dalle 16.00 alle 20.00): l’adescamento del cliente avviene in strada ma il rapporto si consuma quasi sempre nell’appartamento preso in affitto dalla donna o in un camera d’albergo, con il tacito accordo del proprietario. Si noti che le prostitute maghrebine di norma sono completamente autonome e svolgono l’attività senza alcun vincolo con protettori o altre figure.

A ben vedere le donne nordafricane costituiscono l’unica fetta della prostituzione migrante che presenta un’organizzazione del lavoro simile a quella del meretricio esercitato prima della legge Merlin o, in generale, a quella di una qualsiasi attività terziaria: tempi ordinari, spazi deputati, regime di indipendenza e collaborazione con altri fornitori di servizi, come l’albergatore o il padrone di casa.

Radicalmente diversa la filiera in cui sono invischiate le ragazze provenienti da diverse aree dell’est europeo e dell’africa sub-sahariana: nel loro caso il commercio del sesso viene esercitato in un regime di sfruttamento parziale o totale. I primi arrivi di ragazze europee provenienti dall’ex blocco comunista si verificano dopo il biennio 1989-90 a causa del varo della legge Martelli (L. 39/90) e del cambiamento del panorama politico internazionale seguito alla disgregazione della cortina di ferro. Più tardivo il flusso delle albanesi, risalente al 1992-93, che determina comunque un mutamento generale nelle dinamiche della prostituzione migrante: il modello di sfruttamento cui sono sottoposte le donne provenienti da quest’area prevede forme di coercizione esplicita, esercitate con la violenza e la sopraffazione fisica sin dall’inizio del percorso verso l’Italia. È noto che l’ingresso di queste donne nel mondo della prostituzione comincia spesso con un sequestro, tanto da spingere i genitori a ritirare “le proprie figlie dalla scuola in Albania per timore che possano essere rapite davanti all’istituto” [10]. Altre volte la sottrazione della libertà alla donna passa attraverso l’instaurazione di un rapporto sentimentale con il futuro sfruttatore, che si propone come fidanzato promettendo un futuro matrimonio in cui la ragazza ripone fatue speranze di un’agiata vita familiare. Non sempre le due modalità sono compiutamente distinguibili: spesso capita, piuttosto, che i comportamenti violenti e coercitivi si associno alle implicazioni affettive e che la figura del “protettore” si identifichi con quella di un familiare o un compagno [11]. Fondare lo sfruttamento sul legame con la figura fisica dello sfruttatore richiede l’esercizio di un controllo costante della donna, utile ad annullarne qualsiasi autonomia: gli operatori sociali hanno osservato, nel comportamento delle albanesi, il rituale della telefonata all’uomo che le controlla prima e dopo ogni rapporto, la presenza dell’auto del “protettore” poco lontano e così via. Ogni aspetto della vita personale delle ragazze è piegato a questo scopo: la maternità, ad esempio, può essere consentita se il fidanzato-sfruttatore percepisce che la presenza di un bambino servirà a legare maggiormente la donna; di contro viene demonizzato qualsiasi gesto affettuoso che la ragazza riceve da un cliente poiché minaccia uno strumento fondamentale del business, ovvero l’esclusività della relazione con lo sfruttatore.

Come si può arguire, l’economia di sfruttamento praticata dai clan albanesi a danno delle proprie connazionali si regge su un’ambiguità insostenibile agli occhi di altre prostitute provenienti da zone diverse [12], eppure efficace perché coglie un tratto caratteristico del tessuto sociale albanese, ovvero la profonda svalutazione delle donne e la deprivazione culturale in cui esse vivono, specie nelle città più periferiche come Fier, Pogradec, Kukes, Tropoj, Durazzo, Korc, Librazhd, Elbasan, Shijak, Kavaj, da cui provengono nei fatti quasi tutte le prostitute albanesi [13].

A riprova del fatto che le differenze etniche e culturali costituiscono altrettanti strumenti per realizzare le più efficaci forme di sfruttamento, c’è il diverso atteggiamento che le stesse bande albanesi - dominanti nel mercato della prostituzione proveniente da est - riservano alle donne di altri paesi dell’ex blocco socialista. In molti casi del genere l’autonomia della donna è superiore e la distribuzione dei proventi effettiva: ucraine, moldave, polacche possono ottenere fino al 50% dei propri guadagni o comunque cifre forfetarie annuali di gran lunga superiori a quelle delle albanesi, che non riescono a inviare più di 5.000 euro alla famiglia. D’altronde la crescita vertiginosa degli ingressi clandestini dai paesi dell’est - soprattutto, secondo dati recenti, dalla Romania [14] - potrebbe mutare rapidamente anche le abitudini socio-economiche che riguardano questa fetta della prostituzione migrante. -----

La prostituzione delle ragazze nigeriane, che costituiscono una rilevante presenza nell’area tirrenica del meridione, risponde a criteri organizzativi e produttivi profondamente diversi che coinvolgono apparati criminali gerarchici e complessi. Sin dagli esordi, il percorso della tratta si svolge sotto i crismi di un’apparente legalità: la ragazza stipula un contratto, spesso alla presenza di un notaio locale, con cui si impegna a restituire una somma di denaro prestata alla sua famiglia dalla stessa organizzazione che la avvierà al meretricio. Quest’ultima si occupa del viaggio e dell’ingresso della donna in Italia, dove viene affidata a personale nigeriano che ne garantisce l’addestramento, l’inserimento e il controllo. Obbligo della nigeriana è soltanto quello di pagare il debito in tempi stabiliti: dunque il rapporto di sfruttamento, a differenza di quanto accade per le albanesi, “ha una scadenza prefissata o collegabile al determinarsi di una particolare condizione” [15]. Non per questo è meno violento. Si può osservare, piuttosto, che il modello socio-economico di riferimento per questo particolare genere di abuso non è quello della schiavitù, come nel caso delle albanesi, ma quello dell’usura. Il debito da risarcire cresce, infatti, a seguito di ogni servizio fornito o imposto dall’organizzazione, aumenta se la ragazza contrae il debito senza garanzie (spesso viene richiesto l’atto di proprietà della sua casa in Nigeria), se deve abortire e persino se viene espulsa, poiché le viene segnato a carico il costo della cauzione [16] e del nuovo viaggio verso il nord. A rafforzare il legame della donna con l’organizzazione interviene la pratica del rito vodoo che accompagna il giuramento di fedeltà, la cui infrazione comporta spesso effetti devastanti per l’equilibrio psichico della ragazza.

L’anello fondamentale della catena dello sfruttamento, nel caso delle africane, è costituito dalla madame o maman-loi, la donna nigeriana che in Italia assiste e controlla le ragazze, spesso vivendo con loro. È stato osservato che la madame può assumere due ruoli diversi nel traffico delle donne: quello di sponsor che segue interamente il percorso della tratta, dal reclutamento al trasferimento fino alla gestione del soggiorno, oppure quello di compratrice che acquista i diritti sul debito di una ragazza già presente in Italia e ne gestisce l’attività. La gestione implica, come abbiamo visto, anche l’assistenza e la cura della ragazza, con cui si instaurano ancora una volta ambigui rapporti affettivi e commerciali: essi ricalcano stavolta la relazione familiare piuttosto che la relazione di coppia emergente nel caso delle albanesi. Le coordinate culturali tipiche del villaggio o della tribù centrafricana, infatti, accordano grande importanza al rapporto verticale tra genitore e figlio, discendente e antenato, la cui imitazione garantisce alla madame un maggiore potere sulle ragazze [17]. Quest’ulteriore variazione dimostra una volta di più che le dinamiche di un’efficace economia di sfruttamento, come quella che tentiamo di esaminare, si basano necessariamente sulla conoscenza dei bisogni non solo economici ma soprattutto relazionali, affettivi, spirituali delle vittime.

 

4. I marciapiedi del sud Italia: la prostituzione migrante sul territorio

Per un’analisi compiuta delle dinamiche di sfruttamento della prostituzione migrante bisogna considerare una ulteriore variabile, costituita dalle caratteristiche del territorio, del contesto sociale ed economico in cui essa si esercita. Le attività connesse ai fenomeni migratori, infatti, si svolgono per loro natura tra un qui e un altrove, tra un luogo d’origine e un luogo d’arrivo dei soggetti migranti, e di entrambi i poli tengono conto.

Le strategie di gestione della prostituzione migrante nel meridione d’Italia avallano ampiamente questo assunto, poiché evidenziano l’aderenza delle sue modalità organizzative alle caratteristiche del luogo e l’accordo delle organizzazioni criminali straniere con quelle locali che controllano il territorio. Nelle zone ad elevata penetrazione camorristica o mafiosa l’intesa si basa sul principio della divisione delle sfere d’influenza: alla criminalità straniera la proprietà delle persone, a quella locale il dominio sul territorio. Nella zona a nord di Napoli, ad esempio, l’affermazione di tale principio dopo lunghe lotte di potere si traduce in un ulteriore aggravio per le donne prostituite, costrette spesso a versare una cifra mensile (circa 300 euro) alla malavita locale per il “fitto” della loro porzione di marciapiede. D’altronde il controllo del territorio da parte della malavita locale non costituisce uno svantaggio per le bande straniere che gestiscono la tratta, ma la condizione necessaria affinché quest’ultima possa esercitarsi: essa garantisce, infatti, le franchigie e le tutele indispensabili allo svolgimento delle attività illecite, che allignano specialmente in alcune aree dove vige di fatto una palpabile “sospensione della legalità”. A proposito di tale caratteristica, che facilita l’arrivo e poi rende impossibile la vita dello straniero non regolare, un immigrato scrive che il Meridione è un territorio “facile e terribile al tempo stesso, facile, voglio dire, per la sua flessibilità ma anche terribile per l’estremo che questa flessibilità può rappresentare, un territorio dove tutto è possibile, da una parte capace di prescindere dalle cose più ‘banali’ come i documenti, ma che con la stessa ‘leggerezza’ prescinde da contratti di lavoro, di affitto, dalla minima assistenza sanitaria, da tutti quei fattori insomma che fanno la cittadinanza” [18].

La focalizzazione sul microcosmo costituito da un paese del litorale domitio, in Campania, potrà servire ad evidenziare le relazioni economiche e sociali che collegano alcune componenti del territorio e della società locale alla prostituzione migrante e all’immigrazione in genere. A Castelvolturno, secondo le rilevazioni ISTAT del 2000, l’8,53% della popolazione residente è costituita da extracomunitari. La massiccia presenza di clandestini rende, tuttavia, più credibili percentuali che si aggirano attorno al 20-25% degli abitanti [19]. La presenza delle donne sfiora il 56%, una percentuale insolitamente alta rispetto agli standard registrati nel caso dell’immigrazione africana, che privilegia tradizionalmente la mobilità maschile: di questa popolazione le nigeriane costituiscono addirittura il 54%. Tre donne immigrate su quattro presenti nell’ambito territoriale dell’Asl Ce2 risiedono a Castelvolturno. Basta percorrere la Domitiana per capire che una tale concentrazione non è casuale e va ricondotta, in buona parte, alle scelte del racket della prostituzione. D’altro canto il paese domitio presenta alcune caratteristiche favorevoli all’accoglienza delle vittime della tratta e al commercio del sesso, come l’enorme estensione lungo un’arteria molto trafficata eppur periferica, l’isolamento del territorio dai grandi centri e, soprattutto, la “facilità d’accesso degli alloggi, seconde e terze case, che venivano utilizzate per le vacanze, mentre nel recente passato hanno risentito della disaffezione per il litorale domizio come meta turistica, determinatasi negli anni del post-terremoto, quando le unità abitative furono utilizzate per gli sfollati ed i senza tetto dell’area metropolitana di Napoli” [i]. Considerando il lucroso mercato degli affitti agli stranieri irregolari - per il 59% privi di regolare contratto di fitto nel sud Italia [20] -, si delineano i contorni di un “indotto” della prostituzione che reca indubbi benefici ad una vasta schiera di proprietari di case nella zona di Castelvolturno.

Il caso, e quest’ultimo dato in particolare, valga ad affermare il principio che i rapporti tra la prostituzione migrante e il Meridione sono ambivalenti: da un lato la prostituzione incide negativamente sul territorio, determinando degrado e conflittualità sociale; dall’altro lascia intravedere possibilità di speculazione e innesca ulteriori forme di sfruttamento del debole.

 

5. Fobie e luoghi comuni: la prostituzione nell’immaginario della società meridionale

Nonostante l’intreccio di relazioni, basato sull’acquisto di prestazioni sessuali e talvolta su altri tipi di transazione come quelli appena esaminati, la distanza tra le vittime della tratta e la popolazione locale appare abissale. Il contatto quotidiano, la condivisione del territorio non attiva pratiche di avvicinamento, ma contribuisce a rafforzare le barriere immateriali con cui la società meridionale tenta di difendersi da un gruppo percepito come assolutamente altro, perché caratterizzato da troppe diversità: la condizione femminile, quella dello straniero e della prostituta. Per questo, si diceva in apertura, le reali dimensioni del dramma della prostituzione migrante, la profondità storica della vicenda di ragazze che hanno vissuto un “prima” della prostituzione, si dissolvono nel presente assoluto della loro attuale condizione, che implica come unica funzione la vendita di piacere e bellezza: “Le nigeriane sia quando si siedono sia quando stazionano in piedi sono quasi immobili. Per questo alcuni esteti della prostituzione dicono: sono delle bellezze statuarie. Questa affermazione contiene una rimozione, e cioè le nigeriane prima ancora di essere belle e poi statuarie, sono profondamente infelici” [21].

La rimozione del soggetto assolutamente debole importato come merce nel nostro territorio fa leva su alcune paure endemiche di qualsiasi società, come quella della malattia. In particolare nel tessuto sociale meridionale, che ancora ricorda con terrore la deflagrante epidemia di colera del ‘72, la prostituta per giunta proveniente da aree depresse del pianeta appare soprattutto come un pericoloso veicolo di infezioni. I dati dell’Istituto Superiore di Sanità rilevano l’aumento di malattie sessualmente trasmesse (MST) tra la popolazione immigrata, che in dieci anni, dal 1988 al 1998, sono passate dal 2,7% al 16% delle patologie diagnosticate in extracomunitari. Tra queste malattie ricompare peraltro la sifilide, che sembrava definitivamente debellata almeno in Occidente [22]. Dell’incremento percentuale è senz’altro responsabile anche la crescita della presenza di stranieri in Italia, oltre che l’esclusivo impiego di immigrati nel mercato della prostituzione. Nella percezione comune, tuttavia, le MST non vengono collegate tanto alle attività che le donne straniere sono costrette a svolgere, in un contesto per lo più indifferente, sulle strade del meridione, quanto alla specifica condizione dello straniero: come a dire che la malattia è sempre e comunque importata, mai contratta in Italia. E che si tratta del frutto di una colpa: morbus pravorum si diceva della sifilide [23]. Eppure la comparazione di categorie omogenee di immigrati e italiani - ad esempio prostitute verso prostitute - mostrano percentuali simili di incidenza dell’HIV, con il 6,5% di positività per le straniere e il 9,5% delle italiane: è evidente, dunque, che la presenza di patologie non va imputata alla provenienza delle donne ma all’attività che sono costrette ad esercitare nell’ambito dei regimi di sfruttamento attuati dalle organizzazioni criminali straniere con il concorso del territorio d’accoglienza.

6. Un insieme di solitudini. Conclusioni

L’economia di sfruttamento che governa il mercato della prostituzione migrante nel sud Italia si fonda, tanto nell’elaborazione dell’offerta quanto nell’espressione della domanda, sulla duplice negazione della donna come lavoratrice e come persona. Come è stato sottolineato, lo sfruttamento dei bisogni e del sostrato socio-culturale delle vittime, operato dalle organizzazioni criminali straniere, trova atteggiamenti complementari nella ghettizzazione e nella diminuzione della straniera perpetrata dalla società locale. Questa riduzione della donna prostituita a cosa, scrive Enrico Pugliese, “è una delle tante espressioni dei processi di globalizzazione e mercificazione. I trafficanti gestiscono il controllo di una merce [...] il cui arrivo è in generale illegale, così come in generale è illegale l’arrivo di coloro i quali vengono a svolgere attività o mestieri che la società considera onesti. Anche in questo caso si pagano organizzazioni più o meno criminali per procurarsi la possibilità di entrare nei paesi ricchi dell’Occidente. Solo che in questi casi la dipendenza finisce solitamente all’arrivo” [24]. Per le vittime della prostituzione, invece, il vincolo continua e si configura come esperienza totalizzante, che genera radicali forme di abuso.

Consideriamo la rigorosa formulazione marxista della logica dello sfruttamento: Marx distingue il corpo fisico dell’operaio dalla forza lavoro, risultato di diverse capacità umane. Il capitalista acquista appunto questa capacità di lavoro, dopodiché la gestisce a proprio piacimento. Ma il lavoro compiuto non corrisponde soltanto al denaro speso, bensì continua per un tempo ulteriore: così si origina il plusvalore. Ad esso si sacrifica lo spazio esistenziale e la capacità produttiva, ma non necessariamente il corpo del lavoratore: “A ben vedere, dunque, all’origine del plusvalore c’è questa scissione, nel corpo stesso, tra il sostrato materiale corporeo e la forza lavoro come capacità di lavoro, come pura potenza” [25]. Nella prostituzione, invece, il corpo è l’unico mezzo di produzione che le dinamiche della tratta espropriano, gestiscono, espongono (pro-statuere significa appunto “porre davanti”) e vendono. Ai corpi esibiti delle mercenarie forzate del sesso si adatta l’espressione di “nuda vita”, con cui Giorgio Agamben indica l’individuo sottratto al diritto e alla proprietà di se stesso, prestato a qualsiasi violenza o manipolazione e irrimediabilmente impoverito: nel caso specifico, le malattie contratte con l’esercizio della prostituzione sottraggono all’immigrata la salute individuale, ovvero “l’unico patrimonio personale disponibile” [26].

L’estrema dequalificazione insita nella funzione della prostituta - per cui basta avere un corpo, neanche giovane e attraente - si aggiunge alla condizione di straniero e bisognoso nel rendere ardua la costruzione di una coscienza collettiva e l’assunzione di comportamenti di difesa da parte delle ragazze. In breve, le prostitute straniere non esistono ancora come gruppo sociale, se non nelle pianificazioni economiche delle organizzazioni criminali o nelle faccende di ordine pubblico. Ma questo è solo l’esempio più evidente della difficoltà che i nuovi soggetti deboli, gli immigrati nei paesi occidentali, incontrano nel percepirsi come collettività dai problemi comuni: “forse perché - scrive lucidamente uno di loro - quello dell’immigrazione è di per sé un percorso disperatamente individuale in cui impari a contare solo su te stesso” [27].


[1] Si vedano, al proposito, le interviste a donne prostituite raccolte in un buon numero di ricerche effettuate sul campo da associazioni ed enti che si occupano di immigrazione: una ragazza che lavora in strada - il gradino più basso e meno remunerativo della prostituzione - mette insieme quotidianamente una cifra compresa tra i 150 e i 250 euro. Si provi appena a moltiplicare questa cifra per 4 milioni di donne impiegate annualmente - secondo dati ONU - nella vendita di servizi sessuali, per avere un’idea dei ricavi derivanti da tale business (cfr. Nell’inferno della domiziana, a cura dell’associazione J. E. Masslo, 2002, pp. 13 e 33).

[2] Con il loro ingresso, “pare che si sia venuto a determinare parallelamente un processo di involuzione del mercato della prostituzione nei termini di un minor potere contrattuale” (R. Palladino, Un universo ignorato. La domanda di prostituzione, in A. Morniroli (a cura di), Maria, Lola e le altre in strada. Inchieste, analisi, racconti sulla prostituzione in strada, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003, p. 166).

[3] Stima relativa al 1998, che aggiorna la precedente ricerca PARSEC - Università di Firenze, Il traffico delle donne immigrate per sfruttamento sessuale: aspetti e problemi. Ricerca ed analisi della situazione italiana, aprile 1996, studio realizzato per la Conferenza internazionale di Vienna sul tema “La tratta degli esseri umani”, Vienna, 10-11 giugno 1996.

[4] Infinite le considerazioni sull’argomento reperibili nella bibliografia specializzata, che tuttavia non include uno studio sociologico esaustivo sulle abitudini, le proiezioni e i problemi degli acquirenti di sesso. Appare tuttavia chiaro che la ricerca di evasione è una molla fondamentale nelle transazioni economiche a fini sessuali, come dimostra l’aumento vertiginoso dei rapporti consumati con transessuali (PARSEC 1998) e la richiesta elevatissima di rapporti anomali rivolti alle ragazze prostituite in strada (cfr. R. Palladino, op. cit., p. 166).

[5] M. Di Bello, La devianza degli immigrati: il ruolo delle organizzazioni criminali, Dipartimento di Teoria e Storia del Diritto, Università di Firenze, par. 3.8.

[6] Cfr. C. De Stoop, Elles sont si gentilles, Monsieur, La longue vie, Paris 1993.

[7] Cfr. A. Morniroli, op. cit., p. 26.

[8] Quando si deroga a tale regola implicita, il cliente può trasformarsi improvvisamente da fiancheggiatore in oppositore della tratta, proponendo ad esempio la fuga alla ragazza. È un evento dagli effetti pratici e simbolici dirompenti, profondamente temuto dalle organizzazioni criminali che gestiscono il commercio del sesso: ciò spiega il ferreo controllo esercitato anche durante l’attività sulle prostitute albanesi, moldave, ucraine che non sono legate allo sfruttatore dai fortissimi vincoli immateriali usati per trattenere le nigeriane.

[9] C. Morini, La serva serve. Le nuove forzate del lavoro domestico, Derive Approdi, Roma 2001, p. 47.

[10] A. Morniroli, op. cit., p. 57.

[11] Cfr. F. Carchedi - A. Piccolini (a cura di), I colori della notte. Migrazioni, sfruttamento sessuale, esperienze di intervento sociale, Franco Angeli, Milano 2000, pp. 146-148.

[12] “Anche quando il legame assume i toni della relazione sentimentale, [le altre donne dell’est] non manifestano la stessa dipendenza delle albanesi: hanno livelli di accettazione e sopportazione molto più bassi e appena si sentono tradite, o maltrattate, si fanno meno scrupoli a scappare e/o a denunciare i propri sfruttatori [...] Alcune ragazze della Moldavia e dell’Ucraina hanno raccontato di essere rimaste sconvolte di come le donne fossero trattate in Albania, essendo abituate ad una situazione molto diversa nel loro paese (A. Morniroli, op. cit., pp. 66-67).

[13] Cfr. ivi, p. 55.

[14] A proposito dei romeni, la Caritas rileva che “si tratta di una delle nazionalità a più elevato tasso di crescita in Italia negli ultimi anni”, seguita da un altro gruppo proveniente da est, quello dei bulgari. Questa pressione è esercitata prevalentemente da immigrati irregolari - facile preda dei circuiti economici illegali - come dimostrano i 4.109 provvedimenti di riammissione (24,1% dei casi) riguardanti romeni nel 2002 (Presentazione del Dossier statistico immigrazione 2003 della Caritas italiana, http://www.caritasroma.it/primopiano/Dossier2003-scheda.pdf).

[15] A. Morniroli, op. cit., p. 62.

[16] In Nigeria, dove vige il modello legislativo britannico, la prostituzione è un reato punibile con il carcere fino a tre mesi.

[17] Si consideri, al proposito, la “presenza” degli antenati in ogni momento della vita quotidiana delle tribù nigeriane. Cfr. I. Caputi, Nigeria: la religione tradizionale africana, in F. Belletti et al., L’ospitalità tollerata, Associazione J. E. Masslo, Napoli 2003, p. 94.

[18] D. A. Harouna, L’identità difficile, in F. Belletti et al., L’ospitalità tollerata, cit., p. 8.

[19] Cfr. R. Natale, Dalla memoria all’impegno, in F. Belletti et al., L’ospitalità tollerata, cit., p. 28.

[i] Nell’inferno della domiziana, cit., p. 40.

[20] Cfr. Condizioni abitative degli immigrati in Italia, ricerca Sunia Ancab-Legacoop, http://www.sunia.it/files/studi_ricerche/sunia_immigrati.htm.

[21] A. Pascale, La città distratta, Einaudi, Torino 2001, p. 141.

[22] http://www.iss.it/iss/sae/Notiziar.htm

[23] Un atteggiamento peraltro non nuovo. Si pensi alle rappresentazioni della sifilide che l’Europa moderna ha conosciuto dopo la scoperta dell’America: “Già in origine rappresentava il moderno prototipo della malattia di importazione, con tutto quello che ne consegue sul piano emotivo e sociale [...] Il rapido diffondersi del male favorì uno ‘scaricabarile’ ante litteram, con l’attribuzione di responsabilità allo straniero di turno (‘mal francese’ in Italia; ‘mal de Naples’ in Francia; ‘vaiuolo ispanico’ in Olanda; ‘mal dei portoghesi’ in Spagna e, naturalmente, ‘mal dei cristiani’ in Turchia)” (G. B. Gaeta, Tra paura e realtà, in F. Belletti et al., L’ospitalità tollerata, cit., p. 112).

[24] E. Pugliese, Prefazione ad A. Morniroli (a cura di), op. cit., p. 9.

[25] P. Covre, Prostituzione e libertà individuale, relazione al convegno “Conversazioni sulla laicità. Verso un forum dei laici in Italia”, a cura dell’Ufficio Nuovi Diritti della CGIL e della Fondazione Critica Liberale, 10 marzo 2004.

[26] G. B. Gaeta, op. cit., p. 115.

[27] D. A. Harouna, op. cit., p. 8.