L’Europa che non c’è

Vladimiro Giacché

L’Europa che vogliamo è facile a descriversi: è un’Europa giusta, democratica, unita, indipendente, e - ovviamente - pacifica. Purtroppo, volere un’Europa con queste caratteristiche significa volere un’Europa piuttosto diversa da com’è oggi. Diciamo pure: significa volere un’Europa che non c’è.

In effetti, è difficile definire “giusta” un’Europa nella quale le differenze nel reddito tra le diverse classi sociali crescono anziché diminuire ed in cui la precarizzazione dei rapporti di lavoro avanza pressoché ovunque. [1] Quanto alla “democrazia”, basterà ricordare che la cosiddetta “Costituzione europea” non è nata da una Costituente eletta direttamente dalle popolazioni dell’Europa, e tantomeno da un dibattito che abbia coinvolto i cittadini di questa “costituenda” Europa.

Anche l’”unità” europea non è oggi molto più che un’ideale - a parte la moneta unica: che è certo di grande importanza, ma non è davvero sinonimo di un’unità europea in senso pieno (e del resto non è adottata ufficialmente neppure da tutti i Paesi dell’Unione Europea).

Anche sull’”indipendenza” dell’Europa si potrebbe a lungo discutere: certo è che alla sovranità monetaria (ormai pienamente acquisita) non fanno riscontro né una politica economica, né una politica estera comuni - ed è ben difficile parlare di “indipendenza” laddove non vi sia neppure un’uniformità di indirizzi in questi campi.

Quanto al fatto di vivere in un’Europa “pacifica”, pensando all’Irak ne siamo più o meno tutti convinti: e certamente è un fatto che l’Unione Europea in quanto tale non ha dichiarato guerra a nessuno. A dire il vero, non potrebbe neppure farlo, stante l’assenza di una politica estera e di difesa comune; ma questo non dovrebbe rassicurarci: infatti - proprio a motivo di questa assenza - ben 10 tra i 25 Paesi dell’Unione Europea hanno inviato truppe in Irak - e di conseguenza non soltanto hanno preso parte ad una guerra, ma ad una guerra intrapresa senza e contro il parere dell’Onu, e quindi illegale secondo i principi della legalità internazionale. [2]

Insomma: per affermare i princìpi indicati all’inizio, si può dire - volendo essere eufemistici - che c’è ancora molto da lavorare. E qui dobbiamo tenere a mente due cose. La prima è che sarebbe illusorio pensare di potere conseguire quegli obiettivi al di fuori dell’Europa: in altri termini, quelle 5 sfide per noi oggi non possono giocarsi che sul terreno dell’Unione Europea (vedremo meglio più avanti cosa questo significhi in concreto). La seconda cosa è che in Europa o quegli obiettivi si conseguono tutti assieme, o non si conseguono affatto. Senza giustizia sociale avremo un’Europa sempre più divisa al suo interno, sia in termini sociali che territoriali. E in occasione del grande movimento per la pace del febbraio 2003 si è visto che il deficit di democrazia che affligge l’Europa (emblematicamente raffigurato dalla partecipazione di dieci Stati europei alla guerra, nonostante l’opinione pubblica europea fosse ovunque in maggioranza contraria) si è rivelato un forte limite anche per una politica indipendente dell’Europa in quanto tale.

Resta il fatto che oggi, su tutti i princìpi citati, registriamo una situazione tutt’altro che incoraggiante. In questo l’Europa è vittima di se stessa. In due sensi: è vittima del suo successo, del successo della costruzione europea, ed è vittima di alcuni vizi di fondo, cioè di alcuni limiti connaturati al processo di costruzione europea come si è svolto storicamente e fino ad oggi (più precisamente: così come esso è stato voluto e condotto dalle élite europee). Vediamo perché, cominciando dai successi dell’Europa.

1. L’euro: un successo... catastrofico?

Il vero, grande successo dell’Europa è l’euro. Per Robert Alexander Mundell, premio Nobel per l’economia nel 1999, l’euro è stato “un successo eccezionale”, “il miglior lancio di una valuta in tutta la storia delle monete su scala mondiale”. [i] Mundell ha ragione. Lo dimostra il fatto che, dalla sua introduzione, il peso dell’euro a livello internazionale cresce: è sempre maggiore il volume degli strumenti finanziari denominati in euro e delle transazioni commerciali effettuate in questa valuta; inoltre, aumenta il numero dei Paesi che hanno adottato l’euro o comunque lo adoperano come valuta di riferimento; e cresce il peso relativo delle riserve in euro detenute dalla banche centrali di tutto il mondo. A quest’ultimo proposito, il presidente della Commissione Europea Prodi ha raccontato che già quattro anni fa le autorità di Pechino gli avevano assicurato che avrebbero continuato “a comprare euro fino a quando non avremo nel futuro non vicino una uguale quantità di euro e di dollari nelle nostre riserve”.

Quindi quando lo stesso Prodi afferma che l’euro è “uno strumento che ha evitato il monopolarismo monetario”, dice la pura e semplice verità. [3] Una verità che da un anno a questa parte ritroviamo anche nelle dichiarazioni degli operatori sui cambi: “sono impressionato dalla forza dell’euro. Una cosa che trovo incoraggiante come trader è la crescente statura internazionale della valuta europea che in molti casi ormai la pone come alternativa diretta al biglietto verde”. [4] Il fatto di rappresentare un’alternativa al dollaro sarebbe ovviamente un fatto positivo per l’economia europea: ad esempio, l’Unione Europea potrebbe cominciare ad attrarre capitali dal resto del mondo - e si tratta di un processo che del resto è già in corso dal 2002, anno in cui l’afflusso netto di capitali verso la zona euro è stato di 29,4 miliardi di euro (l’anno precedente ne erano usciti 63,4). [5]

Potrebbe però essere un successo catastrofico. E non per via delle “alte quotazioni” dell’euro rispetto al dollaro. Queste quotazioni non sono particolarmente elevate, e tra l’altro presentano vantaggi non indifferenti (come quello di ridurre gli effetti dell’aumento del petrolio, che viene pagato in dollari). Tra l’altro, la quota maggiore del commercio estero dei Paesi europei è interna alla zona euro, e quindi da questo punto di vista le quotazioni della moneta unica rispetto al dollaro sono pressoché ininfluenti.

No. I rischi legati all’euro ed al suo successo vengono da un’altra parte: vengono dagli Stati Uniti. Nella stessa intervista citata più sopra Romano Prodi ha fatto anche un’affermazione piuttosto pesante: dopo aver detto che la moneta unica è un fatto “soprattutto politico”, ha spiegato che “non a caso i maggiori scontri e le maggiori tensioni con gli Stati Uniti sono avvenuti dopo che è stato creato l’euro”.

Sono affermazioni che possono sembrare eccessive e fuori luogo soltanto a chi non capisce che l’euro rappresenta la più seria minaccia di sempre all’egemonia valutaria del dollaro. Tale egemonia ha assunto la configurazione che perdura tuttora nel 1971, allorché Nixon decretò la fine della convertibilità del dollaro in oro. Da allora il dollaro è divenuto una valuta puramente fiduciaria, senza più l’ancoraggio al valore delle riserve in oro detenute dalla Federal Reserve. Nonostante ciò, oltre il 50% del commercio mondiale avviene tuttora contro pagamento in dollari (mentre la quota statunitense del commercio mondiale è appena del 25%), così come la maggior parte delle riserve valutarie delle banche centrali è in dollari. È questa egemonia valutaria che consente agli Stati Uniti di avere una bilancia commerciale con il resto del mondo cronicamente in rosso senza che questo comporti le conseguenze che ogni altro Paese del mondo al suo posto dovrebbe patire: svalutazioni, pagamento di cospicui interessi sui titoli di Stato, crisi finanziarie.

Il punto è proprio questo: se quella egemonia valutaria venisse meno, verrebbero meno questi privilegi (il cosiddetto “signoraggio del dollaro”). A questo tipo di osservazioni in genere i difensori della valuta statunitense rispondono che è “il mercato” a decidere il valore delle valute, e che quindi, se le cose vanno avanti in questo modo da così tanto tempo, è perché evidentemente non esiste una valuta in grado di rivaleggiare col dollaro. Verissimo - sino a poco tempo fa. Oggi però quella valuta esiste, ed è la moneta unica europea: che tra l’altro (a differenza di quanto troppo spesso si legge sui giornali anche economici) si riferisce ad un’economia che ha fondamentali più solidi di quelli statunitensi, a cominciare da una bilancia commerciale in attivo.

Di qui le contromisure adottate dagli Stati Uniti. Tra cui la guerra all’Irak. Da questa guerra, infatti, gli Stati Uniti si ripromettevano il conseguimento di questi obiettivi: controllare materie prime strategiche; scongiurare la possibilità che il petrolio fosse venduto in euro (come aveva iniziato a fare Saddam Hussein) anziché in dollari; controllare e/o destabilizzare di un’area come il Medio Oriente, che rientra nella zona gravitazionale dell’euro ed è geograficamente limitrofa all’Unione Europea;  [6] garantire introiti per le multinazionali a base Usa (tanto nella ricerca, estrazione e commercializzazione del petrolio, quanto nella ricostruzione del Paese e nella gestione delle sue risorse privatizzate); rilanciare le spese militari, di grande importanza per l’economia statunitense; [7] e, last but not least, operare una spaccatura politica dell’Europa: facendo leva sui Paesi dell’Europa dell’Est appena entrati nell’Unione Europea, nonché sui fedelissimi Blair, Aznar e Berlusconi.

Il raggiungimento di molti degli obiettivi di cui sopra sarà determinato dall’effettivo esito della guerra in Irak, che allo stato non sembra dare troppe soddisfazioni a chi l’ha voluta. Altri obiettivi, invece, sono stati comunque conseguiti. A cominciare dalla frattura politica in Europa. La cosa è stata subito chiara. “L’Europa è la prima vittima della guerra”: così titolava il Financial Times il 12 marzo 2003; “Ue, prima vittima”: quasi con le stesse parole, il 31 gennaio era stato titolato l’articolo di fondo del Sole 24 ore, scritto da Adriana Cerretelli; [8] più esplicito l’articolo scritto negli stessi giorni da Lucio Caracciolo: “È guerra contro l’Europa” (l’espresso, 6/2/2003). Al di là di questi commenti “a caldo”, una cosa è certa: far fallire il progetto di unità politica dell’Europa è tuttora un obiettivo esplicito dei neoconservatori americani che attorniano Bush. Basti pensare che nel settembre 2003 il settimanale “The Weekly Standard”, diretto dal neoconservatore William Kristol, ha fatto del motto “Contro l’Europa unita” il suo titolo di copertina. [9] Un’Europa unita, così argomenta Gerard Baker all’interno della rivista, sarebbe oltremodo pericolosa: “immaginate un’Europa unita che persegua aggressivamente un’unica linea contro gli Usa alla Nato. O che rovesci il suo peso economico in America Latina o in Africa”. Le contromisure consigliate sono varie: si va dal rafforzamento dei legami politici e militari degli Usa con i Paesi dell’Est europeo (appunto...), all’ostacolare i tentativi dell’Unione Europea di presentarsi come un unico soggetto in organismi internazionali quali l’Onu, il G8, la Nato (la rappresentanza unica europea è invece già una realtà all’Organizzazione Mondiale del Commercio); dall’impedire l’adozione dell’euro da parte della Gran Bretagna al far leva sul malcontento dei cittadini europei per questo nuovo Stato calato dall’alto. Dopo cotanti consigli, la conclusione dell’articolo è ottimistica: “non è troppo tardi: gli Usa possono impedire che questo superstato diventi realtà”.

Probabilmente, qualche mese dopo la pubblicazione di questo articolo sul “Weekly Standard”, i neoconservatori americani hanno pensato di avercela fatta. È stato quando, nel dicembre 2003, la Conferenza intergovernativa che doveva ratificare il progetto di Convenzione europea è fallita. Qui è bene essere chiari: si è trattato di un fallimento voluto - e non del frutto dell’insipienza berlusconiana. Curiosamente (ma non troppo) l’analisi più lucida in proposito si è potuta leggere sul giornale della Confindustria - mentre le testate di sinistra si trastullavano con la presunta “incapacità” di Berlusconi.

Ecco qualche passo dell’articolo che Piero Ignazi dedicò alla vicenda: “La crisi esplosa alla Conferenza intergovernativa parte da lontano, dal mutato assetto internazionale del dopo guerra fredda. Fino ad allora, Europa e Stati Uniti, al di là delle bizze [sic!] golliste, avevano sempre marciato assieme. Il comune nemico attestato sulle sponde dell’Elba cementava l’alleanza atlantica. (...) Scomparso il pericolo comune sovietico e, allo stesso tempo, approfondita la dimensione integrativa dell’Unione con la nascita dell’euro e lo sviluppo dei due ‘pilastri’ (sicurezza interna ed esterna), l’Europa è diventata, per forza di cose, non solo un partner degli Stati Uniti, ma anche un concorrente. (...) Oggi l’Ue è atttraversata da una nuova linea di frattura, definita dalla relazione con gli Stati Uniti”. E l’articolo proseguiva, venendo alle vicende della Conferenza intergovernativa: “Proprio perché si stanno disegnando nuove alleanze e nuove gerarchie nello scacchiere mondiale, Spagna e Polonia, capifila dei filo-americani ad oltranza, hanno avuto la forza di opporsi agli altri 23 paesi. (...) La conduzione dei lavori dimostra come il governo italiano avesse preventivato anche un esito negativo, non necessariamente ‘sotto-ordinato’ rispetto a quello ufficiale. Al punto da far pensare che l’obiettivo primario di Berlusconi non fosse la firma della convenzione ma il mantenimento/rafforzamento di buoni rapporti con gli alleati della cordata pro-americana, anche a costo di far fallire la trattativa”. [10]

Questa era quindi la situazione a fine dicembre 2003: la Costituzione europea non ratificata, e la prospettiva di un lungo stallo istituzionale (prospettiva che sarebbe poi stata messa in discussione dalla sconfitta di Aznar in Spagna, nel marzo successivo). Una gioia per i neoconservatori americani, e un vero guaio per chi propugnava l’unità europea.

Che la mancata ratifica del dicembre 2003 abbia rappresentato un gradito regalo per gli Usa e per i loro ascari europei, è un fatto. È altrettanto vero, però, che i limiti del progetto di Costituzione non erano (e non sono) né pochi, né di poco conto. Questo aspetto è di grande importanza, perché dalla sua comprensione dipende in misura non piccola la possibilità di perseguire con efficacia la costruzione dell’Europa che vorremmo - e che oggi, come abbiamo visto, non c’è.

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2. I cinque “vizi capitali” della “Costituzione” europea

Con la “Costituzione” europea l’Europa è stata vittima di se stessa in un senso ben preciso: è stata vittima, cioè, di alcuni vizi e dogmi di fondo che da sempre caratterizzano il processo di costruzione europea, e che nel testo di Costituzione sono per l’appunto emersi con grande chiarezza. Proverò a passare brevemente in rassegna questi “vizi” e questi “dogmi”:

1) Il vizio oligarchico. Come è noto, l’intero processo di costruzione dell’Europa è stato diretto dall’élite economica e politica degli Stati europei. Ben di rado i cittadini europei sono stati chiamati ad esprimersi sulla situazione, o a contribuire in prima persona ad essa. Le elezioni europee sono tradizionalmente ritenute “elezioni di serie B”, e lo stesso strumento del referendum (del resto esso stesso assai manchevole dal punto di vista democratico) è stato adoperato solo in casi in cui le opinioni pubbliche di alcuni Paesi lo chiedevano a gran voce - e varrà la pena di notare che in questi casi i risultati non hanno secondato l’integrazione europea, anzi. Questo vizio oligarchico si è espresso in forme estreme nella tessitura della “Costituzione” europea: i cui contenuti sono stati decisi da un plenum di parlamentari e personalità decise dai Parlamenti nazionali, i quali per giunta originariamente non dovevano preparare alcuna “Costituzione”. Non solo non è stata eletta dai cittadini europei alcuna “Assemblea Costituente”, ma addirittura il prodotto degli sforzi di Giscard & C., ossia la bozza di Costituzione, è ignota nei suoi contenuti alla massima parte dell’opinione pubblica europea: i sondaggi effettuati al riguardo in diversi Paesi parlano chiaro (del resto la maggioranza dei cittadini europei, nel pieno dei lavori della cosiddetta “Convenzione” diretta da Giscard, non sapeva neppure che vi si stesse discutendo di una Costituzione europea!).

2) Connesso con il precedente è il dogma economicistico. L’idea, cioè, che il procedere dell’integrazione economica avrebbe naturalmente condotto anche all’integrazione politica. Mentre è (o dovrebbe essere) ovvio che quella rappresenta la condizione necessaria - ma non sufficiente - di questa. Di più: è ormai evidente che soltanto un adeguato assetto istituzionale può impedire che l’integrazione economica europea regredisca, o comunque che assuma aspetti socialmente distruttivi.

3) Il dogma liberista trova chiara espressione nel testo della Costituzione. In particolare nel rifiuto di qualsivoglia politica di regolazione del mercato. Chiunque ponga anche superficialmente a confronto il testo della proposta di Costituzione europea con la Costituzione italiana del 1948 si accorge del fatto che quest’ultima è molto più avanzata da questo punto di vista: sino a subordinare la stessa attività economica privata agli interessi generali (più precisamente: a “fini sociali”).  [11]

Se prendiamo la Costituzione europea ci accorgiamo invece che l’impostazione è per così dire rovesciata: le funzioni dei poteri pubblici sono infatti desunte dal principio di “sussidiarietà”. Lo Stato (e più in generale la pubblica amministrazione ai suoi vari livelli) deve cioè svolgere una funzione residuale, di semplice supplenza delle “forze del mercato”, svolgendo soltanto i compiti che gli attori economici privati non svolgono con efficienza, e non può in genere intervenire su di essi. Da questo punto di vista, è estremamente significativo il rifiuto, da parte dei membri della Convenzione, di inserire nella Costituzione il concetto di “servizi di interesse generale”. [12]

Alla base dell’adozione del principio di sussidiarietà c’è il dogma della superiorità della concorrenza pura (o, come si dice nel testo, della “concorrenza libera e non falsata”). È esso a permeare di sé non soltanto l’intero Titolo III della Costituzione (gli articoli del Trattato dedicati al “mercato interno”), ma più in generale le parti della Costituzione relative all’economia. In questo senso ha perfettamente ragione Rossana Rossanda a definire il testo partorito dalla Convenzione come “la costituzione sovietica alla rovescia”: [13] non si tratta di una Costituzione “formale”, bensì di una Costituzione che assume esplicitamente alcuni princìpi di fondo circa la “costituzione materiale” della società.

4) Connesso con il dogma liberista è quello monetarista. Esso presuppone che, in presenza del “libero agire delle forze di mercato”, l’unica politica economica possibile sia quella rappresentata dalle “politiche macroeconomiche” (ossia monetarie): in altri termini, mercato + politica monetaria sarebbero in sé sufficienti per garantire lo sviluppo economico. Questo dogma è all’origine dell’assoluta autonomia della Banca Centrale Europea da qualsivoglia organismo politico prevista dal Trattato di Maastricht e riconfermata dalla Costituzione. Tale autonomia pone un problema molto serio, ossia quello della legittimità democratica delle decisioni di portata generale che la Banca Centrale assume: di fatto, in assenza di un “diritto di ingerenza” su una materia così importante, alla decisione democratica è sottratto un àmbito essenziale delle leve di governo dell’economia (tanto da far ritenere ad alcuni osservatori che questa autonomia renda “radicalmente impensabile” un governo dell’economia). [14] Dal punto di vista concreto, tale autonomia ha già prodotto decisioni piuttosto controverse: infatti, siccome le concezioni dei banchieri centrali di preminente importanza all’interno della Bce (ossia quelli tedeschi e dell’area economica ex-marco) vedono nell’inflazione il nemico principale, la Bce ha seguito una politica dei tassi molto rigida che non ha giovato alla crescita in Europa. Nella Costituzione europea non c’è nulla che impedisca alla Banca Centrale Europea di continuare ad assumere decisioni del genere anche qualora le opinioni pubbliche e le autorità politiche dell’Unione fossero di diverso avviso.

5) Infine, il vizio intergovernativo. La proposta di Costituzione rafforza i poteri del Consiglio Europeo (ossia del consesso dei premier e presidenti dei diversi Stati che compongono l’Unione), sottraendone per contro alla Commissione Europea e senza aumentare in misura significativa, come sarebbe stato assolutamente indispensabile, quelli attribuiti al Parlamento Europeo. In tal modo si rinazionalizzano di fatto le politiche, anche grazie all’ampiezza delle materie su cui la Costituzione prevede che si debba decidere soltanto all’unanimità (ciò che consente anche a singoli Stati di esercitare il diritto di veto). Si tratta di un vizio che, in maniera piuttosto ironica, ha già dispiegato i suoi effetti negativi: ostacolando l’approvazione della Costituzione stessa.

3. Diritti di Carta

I “vizi” e i “dogmi” sopra richiamati hanno condizionato pesantemente i lavori della Convenzione, diretta da Giscard d’Estaing, che ha elaborato il progetto di Costituzione.

Il risultato, come ho già ricordato, è stato un testo che prevede che molte delle decisioni più importanti per l’Unione Europea siano assunte all’unanimità. L’elenco delle decisioni che restano all’unanimità in materia economica è impressionante. Abbiamo infatti: l’armonizzazione delle politiche fiscali (artt. III-62 e 63), ma anche il ravvicinamento delle legislazioni ai fini del funzionamento del mercato interno (art. III-64) e la fissazione del tasso di conversione all’euro delle valute dei nuovi membri dell’Unione (art. III-92). Tra le politiche sociali, in particolare i seguenti temi: sicurezza sociale e protezione sociale dei lavoratori, protezione in caso di licenziamento, rappresentanza e difesa collettiva di lavoratori e datori di lavoro, condizioni di impiego dei lavoratori extracomunitari (art. III-104 e 106). Tra le politiche che riguardano l’ambiente: le misure fiscali, quelle riguardanti l’assetto territoriale e la gestione delle risorse idriche (art. III-130). Nell’ambito della politica commerciale, gli accordi nel settore dei servizi che abbiano implicazioni sugli spostamenti delle persone e la proprietà intellettuale (art. III-217); inoltre gli accordi di associazione con Paesi terzi, gli accordi con Paesi candidati all’ingresso nell’Unione Europea (art. III-221), e gli accordi internazionali sui tassi di cambio dell’euro rispetto ad altre valute (art. III-228). Per quanto i riguarda i fondi strutturali, le decisioni a maggioranza qualificata sono rimandate al 2007 (art. III-119).

È vero che in alcuni casi il progetto di Costituzione prevedeva poi le cosiddette “passerelle”, ossia la possibilità che il Consiglio europeo possa decidere all’unanimità di passare a votazioni a maggioranza qualificata (si vedano ad es. agli art. III-104 e 130). Questa possibilità (che rappresentava comunque una ben magra consolazione) è stata poi fortemente limitata da un’iniziativa, assunta durante il semestre italiano di Presidenza della UE, per soddisfare la Gran Bretagna, contraria anche a questa poco più che teorica possibilità di passare dal meccanismo dell’unanimità a quello della maggioranza qualificata. E qui si apre uno dei capitoli più dolenti: il testo della Costituzione, già molto insoddisfacente, è stato poi ulteriormente peggiorato dai negoziati tra i governi. In particolare, la Gran Bretagna ha giocato questa partita contrastando in modo molto aggressivo ogni possibile passo avanti sulla strada dell’integrazione europea. Sotto il profilo economico, ha sinora [15] ottenuto in particolare: l’ampliamento del voto all’unanimità alle materie fiscali nel loro complesso; ulteriori limitazioni alla possibilità di effettuare “cooperazioni rafforzate” tra alcuni Stati membri (ossia di procedere a livelli di integrazione maggiori); infine, ha ottenuto (da Berlusconi) che fosse inserita nel trattato una clausola interpretativa tale da limitare la portata dell’inclusione, nel testo della Costituzione europea, della “Carta dei diritti fondamentali”.

È utile spendere qualche parola su quest’ultimo aspetto. La “Carta dei Diritti fondamentali” è stata approvata dal Consiglio europeo di Nizza del dicembre 2000. Essa era però soltanto una sorta di dichiarazione politica e non era quindi vincolante. Con il suo inserimento nella Costituzione, la Carta dei Diritti acquisisce maggiore peso giuridico. Si tratta di un passo importante, soprattutto in quanto la Carta comprende anche i diritti sociali, individuali e collettivi, ivi inclusi il diritto di associazione sindacale, nonché il diritto alla contrattazione collettiva ed allo sciopero. La successiva introduzione surrettizia del diritto dei diversi Stati di interpretarne la portata sulla base della legislazione nazionale può renderla praticamente inefficace. Il problema, però, non è solo questo. Il fatto è che la concreta operabilità di molti di quei diritti era già vanificata di fatto da altre parti del Trattato.

In primo luogo, nella Costituzione non vi è alcuna coerenza tra gli obiettivi contenuti nella Carta dei Diritti (inclusa nella seconda parte del Trattato) e le politiche di cui si tratta nella terza parte della Costituzione, che come abbiamo visto è caratterizzata da un assoluto appiattimento su una prospettiva per cui “il mercato è il re”. Al riguardo è stato scritto che “è sufficiente leggere il capitolo III, sezioni 1 e 2, dedicate all’occupazione e alla politica sociale, per rendersi conto che le innovazioni in termini di principi e di obiettivi introdotte nella Prima parte non trovano per nulla riscontro nella Terza, là dove si definiscono i contenuti concreti e gli strumenti d’attuazione delle politiche sociali e del lavoro dell’Unione”. [16]

In secondo luogo, il fatto stesso di prevedere su materie chiave meccanismi decisionali imperniati sull’unanimità determinerà necessariamente un andamento delle politiche concrete in contraddizione con gli obiettivi sociali che sono solennemente enunciati nella seconda parte del Trattato. Questo punto richiede qualche parola di spiegazione, perché - pur essendo di cruciale importanza - è stato indebitamente trascurato da tutti o quasi i commentatori della Costituzione.

Prendiamo la politica fiscale e la politica sociale: come abbiamo visto, il testo della Costituzione prevede che su tali materie le decisioni circa politiche comuni siano assunte soltanto all’unanimità. L’ovvia conseguenza sarà l’assenza di politiche comuni in questi settori (cosa, del resto, in linea con l’ideologia liberista che impronta la Costituzione). In assenza di politiche coordinate si produrrà il livellamento verso il basso dello standard delle politiche poste in essere dai differenti Stati europei in materia di fiscalità e di protezione dei lavoratori: in altri termini, si avranno da un lato politiche fiscali più convenienti per le imprese (sul modello dei paradisi fiscali che sussistono anche nel territorio dell’Unione Europea), [17] dall’altro minore protezione sociale per i lavoratori, importando così importano il “dumping sociale” all’interno dell’Europa. Sotto il profilo dell’aggravamento delle ingiustizie sociali, le conseguenze di questi processi sono esplosive: anche perché entrambe convergono verso un abbattimento delle garanzie e della protezione sociale dei lavoratori. Il perché è presto detto.

Da un lato abbiamo: l’assenza di coordinamento delle fiscalità. Essa comporta una generalizzata fiscalità al ribasso per le imprese, in quanto in assenza di regole comuni (ossia soglie minime di tassazione delle imprese) i Paesi si faranno concorrenza utilizzando la riduzione delle tasse alle imprese per attrarre investimenti (o anche solo per impedire che le imprese con sede sociale nel Paese debbano patire uno svantaggio competitivo nei confronti di imprese situate in altri Paesi membri che praticano una tassazione d’impresa inferiore). Però i vincoli di Maastricht (il cosiddetto “patto di stabilità”) impongono il mantenimento di soglie molto basse di deficit pubblico: pertanto, venendo meno il gettito proveniente dalle imprese, sarà inevitabile aggravare il carico fiscale sulle persone fisiche (ed in particolare sui lavoratori a reddito fisso) e/o tagliare le spese sociali. Questo è il primo fronte, indiretto, di attacco al Welfare (oltreché della riduzione del salario reale).

Il secondo fronte è aperto dall’unanimità in materia di politiche sociali: in questo caso, il mancato coordinamento porta direttamente al “dumping sociale”, ossia alla riduzione del salario e della protezione sociale dei lavoratori. Ancora una volta, attacco al Welfare (o a quello che ne resta...).

A questo dobbiamo aggiungere le modalità con le quali è avvenuta l’annessione all’Unione Europea dei Paesi dell’Europa Centro-Orientale: ossia ingresso immediato nell’Unione, ma non nell’area dell’euro (sino almeno al 2010); e libera circolazione dei capitali, delle merci e dei servizi, ma non delle persone. [18] In tal modo si creerà una sorta di “periferia fordista” dell’Unione Europea, deputata alla produzione industriale (ed in generale a produzioni mature e ad alta intensità di forza-lavoro): in questa periferia, nella quale saranno ancora possibili svalutazioni competitive, si potranno realizzare delocalizzazioni di produzioni (o anche solo minacciarle, al fine di abbassare gli standard sociali a casa propria...). [19] Anche per questa via si produrrà un attacco agli standard sociali dei lavoratori dell’“Europa dei 15”.

4. Cambiare rotta

Posta in questi termini, la situazione sembra chiara: a quanto pare, abbiamo a che fare con un “delitto perfetto” ai danni del lavoro. Sotto le false sembianze dell’Europa sociale, di una Costituzione che è addirittura così democratica da costituzionalizzare i diritti del lavoro, si celano tutti i presupposti di un formidabile attacco alle condizioni di vita e di lavoro. Mentre a parole si loda il modello sociale europeo, l’”economia sociale di mercato”, con i fatti si va in tutt’altra direzione: e i ministri dell’economia di Gran Bretagna, Francia e Germania (appartenenti a partiti diversi) giungono a cofirmare un articolo in cui viene riproposto come ricetta per lo sviluppo il solito mantra liberista. [20] Mentre si contrappone retoricamente il “capitalismo ben temperato” europeo al darwinismo sociale trionfante negli Usa, nella pratica si assumono questi ultimi come modello competitivo: precarizzazione dei rapporti di lavoro, detassazione dei redditi di impresa, riduzione delle prestazioni sociali.

Ma c’è un ma. In questo quadro, le contraddizioni non mancano. A cominciare dai rischi derivanti dall’assenza di un quadro istituzionale adeguato e di politiche economiche coordinate. Non ci riferiamo ai rischi per il lavoro (questi l’abbiamo già visti, e per il capitale rappresentano altrettante opportunità), bensì a rischi di ordine sistemico (che preoccupano in primo luogo il capitale).

Il punto è che non è pensabile, nel medio-lungo periodo, un’unione monetaria alla quale non corrisponda un’unione politica. E non è un caso che i più fermi oppositori di quest’ultima, ossia gli Inglesi, siano anche fuori dell’unione monetaria. Lo stesso deve dirsi delle politiche economiche. L’assenza di politiche economiche coordinate (anch’esse osteggiate in primis dal governo britannico) è sicuramente utile per combattere la battaglia contro il lavoro. Però presenta anche pesanti controindicazioni. Ad esempio, una fiscalità non omogenea (e più in generale la persistenza di quadri normativi nazionali non armonizzati) priva le multinazionali europee di uno dei principali vantaggi dell’Unione economica e monetaria, ossia l’abbattimento di alcuni “falsi costi di produzione” (necessità di costruire società ad hoc in ogni Paese per seguire le legislazioni nazionali ecc.) ed il pieno sfruttamento delle economie di scala; e inoltre è di ostacolo alla creazione di un mercato finanziario europeo pienamente integrato. Ma c’è di più. L’assenza di politiche economiche armonizzate può risultare pericolosa per la sopravvivenza stessa dell’unione monetaria. Infatti essa rende possibili shock asimmetrici, ossia crisi economiche che colpiscano alcuni Paesi dell’Unione e non altri. [21] Ora, i Paesi più colpiti, qualora la crisi fosse di eccezionale gravità ed in assenza di altri strumenti per farvi fronte, potrebbero essere tentati di tornare alla scorciatoia rappresentata dalle svalutazioni competitive. Il risultato sarebbe la fine dell’unione monetaria e la regressione dell’Unione Europea ad un area di libero scambio - e il ritorno all’egemonia incontrastata del dollaro quale valuta internazionale di riserva. Sembra fantascienza: ma se pensiamo anche solo alle dinamiche dei prezzi, è evidente che già oggi assistiamo ad una marcata e crescente divergenza tra diversi Paesi di Eurolandia.

Tutto questo cosa significa? Significa che le contraddizioni (per fortuna) non sono soltanto “in seno al popolo”, ma anche in seno al capitale. La riprova: la richiesta avanzata da Francia e Germania di adottare una tassazione minima unica a livello di Unione Europea. A cui si oppongono Gran Bretagna, Irlanda, e qualche altro Paese minore. In ogni caso, è chiaro che entro il capitale europeo si combattono due tendenze: quella che ha tutto da guadagnare da una sempre più stretta integrazione europea (le grandi multinazionali europee, in particolare quelle franco-tedesche), ed un’altra che vede la sopravvivenza nel mantenimento di nicchie e rendite di posizione (è il caso di molte piccole e medie imprese italiane), o in atteggiamenti opportunistici e “corsari” tipici di chi deve ancora scegliere tra area dollaro ed area euro (vedi Gran Bretagna). Se questo è vero, esiste una frazione significativa del capitale europeo che vede maggiori vantaggi in un coordinamento delle politiche piuttosto che nel mix, tendenzialmente incontrollabile e centrifugo, di politica monetaria unificata e politiche economiche rinazionalizzate.

E poi ci sono i lavoratori. Per quanto riguarda le organizzazioni dei lavoratori, è risaputo che la sfida europea è assai improba: si tratta di costruire un fronte comune tra organizzazioni diverse per cultura, tradizioni, indirizzi; e di rompere con pratiche diplomatico-lobbistiche che - se potevano avere un senso nelle prime fasi dell’integrazione europea - oggi hanno perso ogni efficacia e ragion d’essere.

Il punto da cui partire è questo: l’orizzonte europeo non è una dimensione che si può scegliere o meno; è un contesto necessario e quindi anche un nuovo campo di possibilità. Questo contesto crea innanzitutto le premesse materiali per un’unificazione della classe operaia su una base diversa e più ampia che in passato (con un salto di qualità simile, per intendersi, a quello prodottosi nell’Italia e nella Germania del secondo Ottocento con la creazione degli Stati nazionali). Quando si dice che “l’esistenza di una unità monetaria permette l’omogeneizzazione del processo di valorizzazione del lavoro sociale”, si dice anche questo.

In definitiva, “la moneta unica apre nuovi spazi di intervento politico ed esige un adeguamento delle proposte programmatiche alla nuova articolazione degli ambiti istituzionali e di potere”. [22] In un contesto che, a differenza di quanto spesso si ritiene, è fatto anche di elementi positivi. Ad esempio, nella zona euro è oggi molto più difficile (se non impossibile) porre in essere quel ricatto valutario (fuga di capitali e svalutazione) che in Italia - sin dai primi anni Sessanta - molto spesso è stato giocato contro le rivendicazioni salariali. [23] Quanto al contenuto di queste rivendicazioni, è destinata ad emergere molto presto l’insostenibilità dei cospicui differenziali retributivi oggi esistenti, a parità di mansioni, tra i diversi Paesi dell’Unione Europea (anche se la rivendicazione di “salari europei in tutta Europa” sarà resa più ardua, oltreché dall’ingresso dei nuovi Paesi membri, anche dalle barriere linguistiche alla mobilità lavorativa). [24]

Al tempo stesso, la moneta unica chiude - almeno tendenzialmente - lo spazio nazionale come orizzonte strategico dell’azione sindacale e politica. Questo significa che non esiste oggi alcuno spazio per un ritorno alla “sovranità perduta”, ossia non c’è alcuna possibilità di successo per chi si rinchiuda in un orizzonte politico e rivendicativo nazionale. È quindi corretto affermare - come fanno Arriola e Vasapollo - che oggi “la mobilitazione sociale richiede un lavoro politico nell’ambito locale, ma l’agenda economica deve essere pensata nella dimensione globale dell’Unione”.

A questo riguardo è decisivo che le organizzazioni dei lavoratori sappiano assumere forme organizzative adeguate al nuovo contesto, ossia molto più “flessibili” e “articolate internazionalmente” delle attuali. Esse dovranno porsi l’obiettivo di attuare una ricomposizione su scala continentale - in termini di coscienza di classe e di organizzazione delle lotte - della classe operaia: ossia dei “soggetti del lavoro, del non lavoro, del lavoro negato”. [25]

Soltanto così sarà possibile modificare in senso positivo, dopo decenni di arretramenti, i rapporti di forza tra capitale e lavoro. Soltanto così sarà possibile dare finalmente vita a quell’”Europa del lavoro e dei popoli” che oggi ancora non c’è.


[1] Vedi R. Martufi, L. Vasapollo, “Povero atipico... tipicamente povero”, in Proteo, n. 1/2004, pp. 3-19.

[2] Questi Paesi sono: Danimarca, Italia, Portogallo, Regno Unito, Spagna, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria. Non si tratta quindi soltanto dei Paesi della “nuova Europa” cari a Rumsfeld: i primi 5 di essi infatti fanno parte dell’Europa a 15.

[i] “Una scommessa vinta dall’Europa”, intervista a R.A. Mundell, il Sole 24 Ore, 2 gennaio 2003.

[3] Le due affermazioni sono tratte da un’intervista contenuta nel libro Europa al bivio di Piero Badaloni (Portalupi Editore, 2004).

[4] B. Tamiso, “L’euro scavalca anche lo yen. La corsa potrebbe continuare”, Borsa & Finanza, 26 aprile 2003. Va notato che queste dichiarazione sono state rilasciate prima che l’euro toccasse i massimi sul dollaro.

[5] Dati resi noti dalla Banca Centrale Europea il 24 febbraio 2003.

[6] Nel 2001 M. Sturm, un ricercatore della Banca Centrale Europea, osservava: i Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa sono tra i Paesi “nei quali probabilmente il ruolo internazionale dell’euro crescerà più rapidamente ed estesamente. Già oggi l’euro gioca in molti di questi Paesi un ruolo preminente per la determinazione dei tassi di cambio come riserva in valuta straniera”; per questo motivo “l’Europa sarebbe maggiormente colpita da crisi politiche ed economiche in Medio Oriente di quanto lo sarebbero, per esempio, gli USA” (“The Middle East and Northern Africa as Part of the ‘Euro Time Zone’”, EUI Working Paper, Badia Fiesolana, novembre 2001, pp. 5 sgg.).

[7] Un’esame più dettagliato dei motivi della guerra all’Irak è contenuto in alcuni miei articoli: “Irak: una guerra e i suoi perché”, la Contraddizione, n. 93, 6/2002; “La debolezza della forza. L’imperialismo americano e i suoi problemi”, ne Il piano inclinato del capitale, a cura di L. Vasapollo, Milano, Jaca Book, 2003, pp. 167-190.

[8] Anche se la Cerretelli, curiosamente, addebitava la cosa al “pacifismo franco-tedesco” [sic!].

[9] R. Menichini, “Usa, il manifesto anti Ue: ‘Fermiamo il Superstato’”, la Repubblica, 19 settembre 2003.

[10] P. Ignazi, “Nascono oltre l’Atlantico le divisioni esplose alla Cig”, il Sole 24 ore, 17 dicembre 2003.

[11] Gli articoli della Carta Costituzionale che rilevano a tale proposito sono l’art. 3 (comma 2), l’art. 41 e l’art. 46.

[12] P. Alliès, “Constitution post-libérale”, in le Monde, 3 luglio 2003.

[13] R. Rossanda, “L’Europa sulla Carta”, il manifesto, 4 giugno 2003.

[14] P. Alliès, “Constitution post-libérale”, cit.

[15] Maggio 2004.

[16] E. Gabaglio, “L’Europa sociale nella Convenzione europea”, in Quaderni di rassegna sindacale, 2004, pp. 68-69.

[17] A questo riguardo è significativo che, nell’attaccare la proposta franco-tedesca di stabilire un livello di tassazione minima per le imprese su scala europea, il Financial Times abbia scritto testualmente che “corporation tax is a dying tax” (“Ripe for rejection”, 14 maggio 2004).

[18] Il motivo generalmente addotto per questa limitazione (che in concreto rappresenta il rifiuto di applicare rispetto ai nuovi Paesi una delle “libertà” previste dal Trattato di Roma) è la possibilità di forti flussi migratori da questi Paesi verso i Paesi della “vecchia Europa”. Ma questi rischi sono stati smentiti da rilevazioni della stessa Unione Europea. L’insussistenza di tale ipotesi è stata dimostrata sulla base di considerazioni anche di carattere demografico: v. M. Livi Bacci, “L’invasione fantasma dell’Europa a 25”, la Repubblica, 23 aprile 2004.

[19] Per le caratteristiche dell’allargamento dell’Unione Europea si veda l’ottimo volume di J. Arriola, L. Vasapollo, La dolce maschera dell’Europa. Per una critica delle politiche economiche neoliberiste, Milano, Jaca Book, 2004, ed in particolare le pp. 47-108.

[20] Ossia: liberalizzazioni, “maggiore flessibilità del lavoro”, eliminazione della “regolamentazione non necessaria”: vedi G. Brown, N. Sarkozy, H. Eichel, “Europe must reform if it wants to speed up growth”, Financial Times, 21 maggio 2004.

[21] “La storia ci suggerisce che problemi fiscali asimmetrici possono minare le unioni monetarie” (cit. in C. Baum, “Pensioni, l’Europa peggio degli Usa”, Bloomberg Investimenti, 29 novembre 2003).

[22] Ivi, p. 116.

[23] A questo riguardo si veda lo stimolante articolo di E. Brancaccio, R. Realfonzo, “I redditi senza politica”, il manifesto, 22 febbraio 2004. Del resto, non è fuori luogo ricordare che anche in Francia la fine della politica delle nazionalizzazioni, portata avanti dal primo governo Mitterrand, fu decretata da fughe di capitali e da un attacco speculativo al franco.

[24] J. Arriola, L. Vasapollo, La dolce maschera dell’Europa, cit., p. 117 e 121-125.

[25] J. Arriola, L. Vasapollo, La dolce maschera dell’Europa, cit., passim.