Le Tendenze macroeconomiche del processo di ristrutturazione capitalistica

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

Terza parte: Fattore capitale e processi di internazionalizzazione produttiva

1. Lo scontro economico USA-UE e i processi di internazionalizzazione

Avevamo chiuso la precedente Seconda Parte di questa nostra analisi-inchiesta ponendo l’attenzione sui processi di internazionalizzazione attraverso l’analisi degli investimenti diretti esteri (IDE). E’ dall’analisi di tali processi che vogliamo ripartire nel nostro "viaggio" di inchiesta politico-economica, evidenziando il peso che va assumendo lo scontro interimperialistico USA-UE per il dominio economico mondiale ed il controllo sui processi complessivi di globalizzazione.

 

1.1. Alcuni parametri macroeconomici internazionali, in particolare sul fattore capitale

Per inquadrare l’attuale situazione economica internazionale si può, tra gli altri, guardare al contenuto della “Relazione del Governatore della Banca d’Italia all’Assemblea generale ordinaria dei partecipanti del 31 maggio 1999”, riferita ai dati del 1998, dalla quale si possono evidenziare alcuni parametri e alcune dinamiche che hanno caratterizzato l’economia internazionale nel 1998.

Si nota immediatamente che la crisi finanziaria che nel 1997 aveva interessato solo i paesi dell’Asia Orientale si è allargata all Russia e ad alcuni paesi dell’America Latina, determinando crisi valutarie e del debito ed instabilità economica di molte aree, anche a causa del crollo dei prezzi del petrolio e delle altre materie prime e alla moderata dinamica dei costi unitari del lavoro, con forti ripercussioni moltiplicative che hanno causato anche fenomeni di recessione internazionale. Per quanto riguarda l’andamento del PIL degli ultimi anni si veda le Tab.1 e Tab.2.

E’ interessante notare il differenziale di crescita tra i vari paesi e le diverse aree a disuguale livello di sviluppo. Si noti che nel 1998 il PIL mondiale è aumentato complessivamente del 2,5% mentre nel 1997 l’incremento era stato del 4,2%; si consideri che, escludendo la Cina e l’India che continuano ad avere ritmi di crescita molto sostenuti, i paesi in via di sviluppo asiatici hanno segnalato un decremento del PIL del 5% mentre nel 1997 si era avuto un aumento del 4%; la Russia proprio a causa della crisi finanziaria evidenzia una riduzione del prodotto del 5%; l’America Latina, anche a causa del crollo di prezzi delle materie prime, passa da un incremento del 5,2% del PIL del 1997 ad un aumento del 2,3%.

La crisi internazionale ha fatto sì che i paesi a capitalismo avanzato imponessero una accelerazione ai processi di riforma dei mercati monetari e finanziari internazionali intervenendo anche sulle politiche monetarie e abbassando a più riprese i tassi di interesse, agendo fortemente in chiave di assoluto dominio e di controllo economico e politico sui paesi in via di sviluppo.

Siamo tutti coscienti che i paesi sottosviluppati "poveri" e soprattutto quelli a medio-basso sviluppo (come ad esempio quelli dell’area balcanica, dell’est europeo, per non parlare dell’asse russo-cinese-indiano) in molti casi hanno delle grandi potenzialità economiche nel loro territorio, sia in termini di risorse materiali sia di capitale umano, nonostante ci siano delle grandi disuguaglianze economiche e sociali tra paese e paese. I paesi del Terzo Mondo, per poter sopravvivere sono indebitati in una maniera incredibile con i paesi sviluppati, i quali così facendo sfruttano le risorse di queste terre tenendole sotto il loro controllo ed evitando così che diventino un domani concorrenti pericolosi; ad esempio quello che gli Stati Uniti hanno fatto al Messico con il NAFTA, oggi viene fatto con la Russia, con i paesi dell’area balcanica e dell’ex blocco socialista. Le guerre economiche sui mercati del cambio, gli attacchi speculativi sui mercati finanziari, l’uso delle crisi geopolitiche di area, e quelle nei Balcani sono sistematiche e sintomatiche, rappresentano momenti di guerra economica e politica di una violenta competizione fra poli imperialisti, in particolare fra USA e UE.

Un vero e proprio conflitto economico internazionale di dominio, che vede tutto muoversi intorno ai parametri della competitività. Ad esempio, come si può leggere dalle Tab. 3 e Tab.4, mentre l’area statunitense anglosassone vede in genere peggiorare gli indicatori di competitività, questi mostrano, invece, buone performance per il Giappone e per alcuni paesi dell’UE.

I paesi in via di sviluppo, in particolare dell’Africa e dell’Asia centrale ricca di risorse petrolifere e di gas devono affrontare questi problemi di dominio, legati ai fattori di competitività dei paesi a capitalismo avanzato, sotto il ricatto di una guerra economica, e non solo fra USA e UE, o alcuni paesi interni alle suddette aree. Si tratta di veri conflitti economico-commerciali scatenati per imporre gravi costrizioni dovute al peso schiacciante del debito contratto con i paesi ricchi, ai quali si devono pagare in interessi più di quello che si è ricevuto in prestiti, donazioni, investimenti; e il pagamento di un debito così cospicuo costringe i paesi del Terzo Mondo a saccheggiare le foreste, svendere le materie prime, sfruttare senza controlli le risorse naturali, destinare enormi fette del proprio territorio all’allevamento degli animali, sottostare ad accordi noeliberalisti e a privatizzazioni e a standard ambientali minimi tali da attirare gli investitori stranieri.

In mancanza di una rottura radicale con la struttura della dipendenza i paesi a medio sviluppo (e in Europa quelli dell’area balcanica e dell’ex blocco socialista nel sono un esempio eclatante) e del Terzo Mondo si vedono condizionati a sviluppare la loro industria e la loro produzione agricola in modo tale che i paesi portatori dei diversi progetti imperialisti ne beneficino. Hong Kong, Singapore, Taiwan e altri paesi asiatici hanno convertito i processi di trasformazione; il loro sviluppo è ormai direttamente sottomesso dalle esigenze del mercato europeo e statunitense. E’ la domanda esterna dei due grandi poli imperialisti che modella l’ampiezza e l’orientamento del processo di accumulazione del capitale asiatico funzionale al paradigma dell’accumulazione flessibile occidentale. L’America Centrale e Meridionale, l’Africa Sub-Sahariana, il Sud Asia e l’Indocina hanno debole apparato statale e produttivo, non essendo ancora capaci di dare l’impulso ad un processo di industrializzazione autonomo e quindi funzionale a veri a propri processi di colonizzazione da parte dei due poli imperialisti USA e UE. Vi sono in queste aree anche dei paesi che dagli anni ’70 hanno sperimentato una crescita economica nell’industria sotto l’azione combinata del capitale straniero e di quello controllato dalla borghesia interna, dove ha un ruolo dominante il capitale imperialista che ha cercato di modificare i termini di dipendenza e dare un nuovo impulso all’industrializzazione per la costruzione di processi di dominio dipendenti anche dalle importazioni, mantenendo una struttura di distribuzione dei salari che non deve consentire una crescita verso la sussistenza. Infine nei paesi esportatori di petrolio con importanti risorse finanziarie (Arabia Saudita, Venezuela, ecc.) o nei paesi con grande abbondanza di risorse naturali e con congiunture economiche molto favorite dall’occidente, il mercato interno si espande in modo significativo, dando un impulso ad una industria del tutto dipendente dal capitale imperialista (ad es. Colombia, Cile, Nigeria, Indonesia, ecc.).

La crescita economica di alcuni di questi paesi è dovuta al processo di accumulazione e di trasformazione tecnologica che ha creato un nuovo e solido modello di dipendenza finanziaria e tecnologica dai due grandi poli imperialisti. La riproduzione su vasta scala del moderno apparato industriale, agroindustriale e agricolo è basato sull’importazione di macchinari, attrezzature e fabbricazioni. L’alto livello di importazioni inerente a questo modello di crescita e la mancanza di dinamismo del settore delle esportazioni, la relazione di scambio diseguale, gli utili rimessi alle imprese straniere sono alcuni degli elementi che originano nei vari decenni uno squilibrio macroeconomico e una tendenza continua al deficit della bilancia commerciale, colmato con sempre più frequenti ricorsi ad un indebitamento con l’estero e ad uno stimolo dell’impiego di capitali stranieri quale via per ottenere l’equilibrio della bilancia dei pagamenti. La politica economica determina sempre più scelte monetariste e neoliberiste, lasciando intatte le cause profonde che originano gli squilibri della struttura produttiva approfondendo il deficit commerciale. Seguendo le indicazioni della Banca mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, numerosi governi continuano ad applicare politiche di “congiuntura strutturale” e di apertura commerciale accelerata, con privatizzazione delle imprese statali e la deregulation economica, immettendo politiche antiflazionistiche che hanno come prime ripercussioni l’abbassamento dei salari reali, l’aumento della disoccupazione, la deindustrializzazione senza investimenti reali e produttivi finanziati da capitale interno e quindi l’ampliamento della dipendenza dall’imperialismo. Con l’aumento del debito estero e dell’impiego di capitale straniero, cresce la profittabilità di questo e la distribuzione all’estero degli utili, rafforzando il disequilibrio nel settore delle esportazioni. Il rifinanziamento del debito accumulato provoca l’aumento di capitale straniero per nuovi acquisti di capitale che aiutino ad arrestare la decapitalizzazione e che permettano di continuare a finanziare uno sviluppo comunque dipendente, anche se apparentemente incrementa il settore delle esportazioni, avendo l’illusione di ottenere un utile duraturo. Ma per mantenere i livelli di profittabilità si incentiva l’impiego di capitale straniero e la dipendenza delle attrezzature e strutture, si sfruttano i lavoratori, si riducono gli investimenti pubblici e si applicano politiche restrittive; cadendo così in un circolo vizioso di dipendenza finanziaria e tecnologica che aumenta il debito con l’estero.

Anche per il 1999 le prospettive di sviluppo non possono certo definirsi buone per i paesi a basso e medio livello di sviluppo, anche perchè i vari organismi internazionali stimano un rallentamento del PIL mondiale che dovrebbe segnalare complessivamente una crescita non superiore al 2%, con un risultato inferiore al 2% nell’area dell’Euro (area nella quale la Germania e l’Italia potrebbero segnare uno sviluppo ancora più incerto) ed un ulteriore ristagno dell’economia giapponese insieme ad una situazione fortemente critica per l’America Latina. Pertanto anche per il 1999 la domanda mondiale dovrebbe essere sostenuta soltanto dagli Stati Uniti, che si ipotizza raggiungeranno un incremento del PIL superiore al 3%, ma con le stesse logiche di dominio colonialista ed imperialista che caratterizzano la loro politica economica, la quale anche per il 1998 ha evidenziato in tal modo una fase espansiva, che dura ormai da oltre otto anni, raggiungendo un aumento del prodotto del 3,9% dovuto ad una alta dinamica degli investimenti, in particolare in attrezzature informatiche e in quel macrosettore che può individuarsi come area produttiva dell’economia di guerra, ed anche a continui aumenti della produttività.

Per avere un quadro di confronto fra USA e gli altri dei più importanti indicatori macroeconomici si vedano le Tabb. 5 e 6, in cui si possono leggere i diversi ritmi di crescita complessivi dell’economia, ed in particolare di alcuni elementi del fattore capitale (CLUP, investimenti, ecc.).

E’ proprio ad esempio dall’andamento degli investimenti che si notano le difficoltà nello sviluppo, come si può vedere nei Graff.1, 2, 3, 4, 5.

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Si nota, invece, per il Giappone negli ultimi anni una situazione economica che continua a peggiorare, realizzando un calo del PIL di circa il 3%, e un crollo degli investimenti fissi con variazioni spesso negative, rispetto all’anno precedente; si tratta inoltre di crisi che ha colpito fortemente l’andamento occupazionale dei salari. Nonostante alcuni interventi sul mercato monetario che per favorire la domanda e gli investimenti hanno portato i tassi di interesse a brevissimo termine ad una percentuale molto vicina allo zero, è avvenuto che l’enorme liquidità così liberata è continuata ad affluire sui mercati internazionali e non sul mercato interno, accentuando la posizione netta sull’estero del Giappone. Ciò comporta alti rischi sul mercato internazionale di cambi visto che gli Stati Uniti registrano invece un disavanzo corrente per il 1998 di 80 miliardi di dollari e l’area dell’euro evidenzia una diminuzione di 20 miliardi dell’attivo.

Sempre per il 1998 i paesi dell’area dell’euro hanno registrato un incremento del PIL del 2,9% contro l’aumento del 2,5% del 1997; tale performance è stata la più alta degli ultimi dieci anni, dovuta anche ad un buon andamento della domanda interna, anche se all’incremento del prodotto nell’Unione Europea non è però corrisposto un miglioramento dell’andamento del mercato del lavoro che segnala ancora circa un 11% medio del tasso di disoccupazione.

Anche dai dati precedentemente analizzati si può evincere che il sistema mondiale riproduce su scala ampliata la contraddizione centro-periferia, (vedi ad esempio precedente Tab.2), tenendo ancorati, ad un luogo e ad una funzione determinanti per la propria produzione interna o per l’esportazione, i diversi paesi che ne fanno parte. Questa tendenza configura una struttura mondiale che permette ai paesi sviluppati di giocare un ruolo dominante nel settore industriale, agricolo, finanziario, militare e tecnologico, che può essere accresciuto attraverso la lotta economico-finanziaria e dei mercati del capitale soprattutto contro il Terzo Mondo.

La “globalizzazione dell’economia” è voluta dal libero gioco delle leggi del mercato, ma bisogna valutare questo gioco di mercati in tutta la sua pienezza, mettendo l’accento principalmente sulla globalizzazione della concorrenza, sull’effetto supposto dell’apertura delle frontiere per la crescita degli scambi di beni e servizi e anche sulle dinamiche dei flussi internazionali di capitali a breve termine. Tutto ciò non è a vantaggio del consumatore, apparentemente libero di acquistare i prodotti ai prezzi più bassi grazie all’apertura dei mercati, allo smantellamento delle regolamentazioni pubbliche e al totale regime di concorrenza tra le imprese.

Il contenuto effettivo della globalizzazione è dato, non dalla mondializzazione degli scambi, ma da quella delle operazioni del capitale, tanto sotto la forma industriale che finanziaria. All’origine della crescita della sfera finanziaria esistono dei flussi verso questo settore di frazioni di ricchezza che sono nate all’interno della produzione e che, prima di essere travasati nelle diverse forme nei vari paesi attraverso la via delle imposte e trasferiti verso la sfera finanziaria a titolo di pagamento degli interessi e di rimborso di una frazione del debito pubblico, avevano assunto la forma di salari e di stipendi, o di redditi operai, contadini e artigiani. Questi flussi sono all’origine dei meccanismi di accumulazione perversi in cui la caccia alle economie nazionali sono finalizzate al dominio del capitale finanziario e sono parte del rapporto di competizione internazionale tra poli imperialisti, mediati da compromessi all’interno delle organizzazioni sovranazionali del capitale finanziario (G8, BM, FMI, OCSE, BEI, BRI, ONU) ed in quest’ambito deve, o almeno dovrebbe, giocare il suo ruolo l’UE, e quindi l’euro, con una funzione, inizialmente utile anche agli USA, come meglio si vedrà successivamente.

 

1.2. L’andamento del fattore capitale in Italia

Prima di analizzare i caratteri dello scontro politico-economico fra il polo imperialista statunitense e quello europeo è interessante verificare alcune tendenze avute dai margini di profitto, e in genere dai parametri riferiti al fattore capitale, nel nostro paese negli ultimi anni per cercare di comprendere se e in che modo agisce la competitività delle imprese italiane nei confronti degli altri paesi occidentali nel nuovo contesto di globalizzazione.

Dal trend di crescita economica di quasi tutta l’area dell’euro, si discosta completamente l’Italia (cfr. Tab.7 e Tab.8) che evidenziano negli ultimi anni tra le peggiori performance dell’area euro per i più importanti indicatori macroeconomici, compresa una scarsissima dinamicità positiva degli investimenti, come si era già evidenziato in precedenza.

Le tabelle indicano una economia sicuramente in difficoltà, in particolare con forme dirette o indirette di contrazioni del reddito. Ad esempio a fronte di un sempre alto tasso di disoccupazione (sempre superiore al 12%) e a bassi incrementi occupazionali (dovuti esclusivamente a forme di lavoro atipico, interinale, part-time, LSU, ecc.) si realizzano nel contempo scarsi incrementi dei consumi privati a causa di una contrazione dei redditi da lavoro e una scarsa propensione agli investimenti privati interni, anche perchè i capitali fuggono sempre di più all’estero alla ricerca di paradisi fiscali, di speculazione finanziaria e di costi del lavoro sempre più bassi.

Si noti invece l’enorme incremento in Italia dei profitti. Infatti ricordando che la redditività viene valutata attraverso il tasso di profitto, ossia il profitto in rapporto al valore del capitale, e il margine di profitto, ossia il profitto in rapporto al valore aggiunto, va evidenziato che la tendenza alla diminuzione dei margini di profitto avutasi in Italia negli anni 1988-1992 è stata sostituita da una forte crescita di tale margine negli anni successivi dovuta soprattutto alla svalutazione della lira, alla diminuzione dei costi di produzione (principalmente il lavoro) e all’aumento dei prezzi dei prodotti destinati all’esportazione. Negli anni 1993-1995 si è avuto un incremento della domanda interna per beni di uso durevole e di investimento; il fatturato è aumentato del 15,7% ( in termini nominali) e del 7,4% (in termini reali). Nel 1995 si è avuto nel complesso un utile netto rettificato di oltre 6.600 miliardi (ossia l’1,4% del fatturato), con un apporto di oltre 1.150 miliardi da parte delle imprese pubbliche (ossia il 2,2% del fatturato). Sempre in questi anni si è realizzato un incremento del 5,5% della remunerazione lorda del capitale in termini di valore aggiunto, ciò è stato dovuto soprattutto ad uno sviluppo della produttività del lavoro (14%) rispetto a quello del costo del lavoro unitario (5%).

In sostanza la Centrale dei Bilanci registra che “la fase di espansione delle attività produttive ha ulteriormente incrementato i fabbisogni operativi derivanti sia dall’intensità degli investimenti tecnici sia dalla lievitazione del capitale circolante, raggiungendo il 7% del fatturato rispetto al 6.5% del 1994. La crescita dei margini si è tradotta in un incremento dell’autofinanziamento ante gestione finanziaria ed imposte di 1,5 punti percentuali, al 10,5% in termini di fatturato, mentre a livello di autofinanziamento netto la crescita è stata più contenuta (+0,8 punti percentuali, al 6,8%) per un aumento delle componenti distributive".

Ricordando che, secondo la definizione fornita dall’ISTAT, il fatturato è dato da: “l’ammontare di tutte le fatture emesse nel periodo di riferimento per vendite sul mercato interno e su quelli esteri. In esso sono comprese anche le vendite di prodotti non trasformati dall’impresa e le fatture per prestazioni di servizi e per lavorazioni eseguite per conto terzi su materie prime da essi fornite; sono però escluse le vendite di capitali fissi dell’impresa” [1] , è interessante mostrare l’evoluzione di tale parametro negli anni 1983-1998 distinguendo la parte interna da quella estera.

Il Graf.6 e la relativa tabella dei dati mostrano chiaramente che la distribuzione fra il fatturato interno e quello esterno è quasi sempre intorno al 50% (l’unica vera eccezione si riscontra nel 1991 quando il fatturato interno è il 90% e quello estero il 10%). L’evidente tendenza all’aumento del fatturato estero rispetto a quello interno registrata dal 1996 in poi è dovuta all’internazionalizzazione dei mercati e alla conseguente sempre maggiore presenza di imprese italiane all’estero.

Nei Graff. 7,8,9,10,11,12 seguenti si evidenzia l’andamento a livello settoriale del fatturato mostrando il fatturato totale e accanto il fatturato all’esportazione. Si evince immediatamente che sia nel settore dell’abbigliamento (in cui il valore del fatturato estero è quasi triplicato nel 1997 rispetto al 1988) sia nel settore meccanico ed in quelli siderurgico e dei trasporti ( i cui valori sono più che raddoppiati) si può riscontrare, così come ad esempio per il settore energetico, un significativo numero di imprese che hanno deciso di delocalizzarsi o che sono entrate a far parte di filiere estere di produzione.

E’ importante a questo punto analizzare anche l’indice del fatturato, ossia la variazione del valore delle vendite (sul mercato interno e su quello estero) delle imprese industriali a prezzi correnti (Istat) per meglio comprendere le dinamiche dell’evoluzione economica e industriale dell’Italia.

Nelle Tabb.9, 10, ponendo come base per l’indice nella prima tabella l’anno 1980 uguale a 100 e l’anno 1990 uguale a 100 nella seconda, si nota immediatamente che specialmente negli ultimi anni si è registrata una notevole crescita dell’indice dovuta soprattutto al forte ampliamento della parte estera e quindi ai processi di internazionalizzazione produttiva delle imprese italiane. Questo aumento dell’indice del fatturato ha toccato quasi tutti i settori economici ed in particolare i settori dell’industria che più si sono mostrati dinamici nel realizzare filiere produttive internazionali. Solo nel 1996 si è registrato un leggero calo da imputare alla diminuzione del fatturato interno (quello estero è invece cresciuto ancora). Si è avuto inoltre un forte aumento, negli ultimi anni, del fatturato per i beni finali di consumo e per i beni finali di investimento; i beni intermedi, significativamente cresciuti nel 1994 e 1995 hanno registrato un lieve calo nel 1996.

I Graff. 13,14,15,16,17,18 evidenziano con immediatezza i risultati ottenuti dalle imprese distinte per settori [2]. Appare chiaro che il settore chimico, quello dei trasporti, siderurgico e metallurgico hanno fatto registrare degli utili negativi; va rilevato però che essendo la voce ammortamento molto elevata per tutti questi settori, tali risultati potrebbero essere spiegati in parte dalla facile usura degli impianti e in parte dal fatto che essendo comunque l’ammortamento una voce “negativa” in un bilancio contabile, questo ha avuto un peso significativo fra i costi rispetto all’andamento delle voci di ricavo.

L’ultimo rapporto di Mediobanca del 1999, che analizza i dati aggregati di 1755 società italiane (un campione che rappresenta oltre il 40% del fatturato complessivo), dati riferiti all’anno 1998, mette in evidenza quanto già si era sostenuto in questa parte del’analisi-inchiesta e nelle due parti precedenti (vedi Proteo 3/98 e Proteo 1/99). Infatti le imprese italiane hanno raggiunto nel 1998 un vero e proprio record per i profitti, con un incremento del 53% rispetto all’anno precedente degli utili netti. Ma ciò è avvenuto senza un corrispondente aumento del fatturato, con investimenti che continuano ad essere inferiori a quelli di dieci anni fa e a scapito dell’occupazione, che prosegue il suo trend ormai pluriennale al ribasso.

Per evidenziare soltanto alcuni dati si tenga conto che, per lo stesso campione di imprese e rispetto all’anno 1997, gli utili netti nel 1998 si sono incrementati di 8.000 miliardi di lire, passando da 15.000 miliardi di lire a 23.000 miliardi (nel 1996 gli utili netti erano 10.000 miliardi di lire). In particolare tale incremento complessivo del 53% è avvenuto con pesi diversi rispetto alle tipologie d’impresa: ad esempio l’utile netto delle imprese pubbliche è aumentato del 36% mentre quello delle private del 32%, ed il settore terziario ha evidenziato il miglior risultato con un incremento annuo del 70%. Nel 1998 il giro di affari complessivo ha segnato un incremento totale del fatturato soltanto dell’1% sull’anno precedente, con un 6,9% di incremento del giro di affari nel terziario e una diminuzione dello 0,3% per il totale dell’industria; in più si tenga conto che il mercato interno ha segnato un aumento delle vendite soltanto dello 0,4%, contro il 6% del 1997 a conferma di una domanda interna molto debole, mentre le esportazioni sono cresciute del 2,7%, dato inferiore al 1997 anche a causa di una maggiore dinamica e aggressività da parte dei paesi asiatici. Si consideri, inoltre, che si deve evidenziare una flessione delle esportazioni in settori di importanza primaria come il tessile-abbigliamento, il chimico-energetico, mentre andamenti positivi nell’esport vengono segnalati per il settore meccanico-elettronico, i trasporti e le imprese di impiantistica e costruzioni.

Si noti che il forte incremento dei profitti non è stato, quindi, dovuto a particolari incrementi delle vendite, cioè del fatturato, né a particolari risultati positivi nell’andamento del valore aggiunto, nonostante il netto calo dei prezzi dei prodotti di base e delle materie prime, con un abbattimento sostanziale nel prezzo del petrolio. Se a ciò si aggiunge una buona tenuta del Margine Operativo Lordo Globale, ciò sta a significare che l’incremento degli utili netti, e quindi dei profitti, è derivato da una forte compressione del costo del lavoro, diminuzione dovuta anche ai continui incrementi di produttività [3]. Infatti per il 1998 nell’industria si è avuta una diminuzione del costo del lavoro dello 0,2% e dell’1,7% nel terziario, a ciò si aggiunga che si è verificata una diminuzione dell’1,4% medio nel costo del denaro e l’abolizione dei contributi delle imprese al Servizio Sanitario Nazionale, oltre a una diminuzione complessiva delle imposte sul reddito. Si segnala, dunque, una riduzione dell’aliquota fiscale media di circa tre punti percentuali per il settore dell’industria (che passa dal 53 % al 50%) e di circa l’11% nel terziario (un’aliquota media che passa dal 54% al 43%) e ciò grazie all’introduzione dell’IRAP e della riforma tributaria che ha favorito fortemente le grandi imprese.

Tale quadro sta anche a dimostrare una continua tendenza verso i processi di finanziarizzazione dell’economia, in quanto se è vero che i profitti si sono realizzati anche a causa dei minori oneri finanziari e della minore incidenza tributaria è anche vero che l’elevato importo dei profitti è stato solo in parte correlato a incrementi di valore aggiunto. Pertanto è desumibile che una parte degli utili netti è da attribuire ad operazioni di rendita finanziaria e ciò è anche confermato dalla mancanza di seri programmi di investimenti, nonostante la riduzione del costo del denaro. Ne segue che il vantaggio derivato dal calo dei tassi di interesse non ha comportato consistenti programmi di investimento, infatti gli investimenti tecnici e finanziari delle imprese private italiane continuano ad andare più all’estero che al mercato interno, ciò a conferma del processo intenso di internazionalizzazione che da qualche anno sta interessando le imprese italiane. Tant’è che nel 1998 gli investimenti tecnici delle società del campione sono aumentati globalmente del 5,4%, rimanendo ancora più bassi del 18% di quelli di inizio decennio. Va anche segnalato che per ogni 100 lire di investimenti realizzati nel 1998 ci sono state quasi 39 lire di disinvestimenti; ciò a dimostrare il continuo processo di esternalizzazione produttiva e di delocalizzazione internazionale che fanno sì che le imprese italiane si concentrino soltanto sulla parte del ciclo produttivo ad alti margini e sulle lavorazioni ad alto valore aggiunto, dismettendo le funzioni aziendali e le fasi del ciclo non strategiche a scarso contenuto di know how e quindi realizzabili in quei paesi dove più basso è il costo del lavoro e scarsi sono i diritti del lavoro.

Si consideri, inoltre, che le imprese hanno continuato a generare molto denaro che è affluito spesso a speculazioni finanziarie e in incrementi di dividendi distribuiti. Ciò è spiegabile attraverso un semplice ragionamento per punti:

a) si realizza un aumento record degli utili netti;

b) a ciò non corrispondono significativi incrementi né di fatturato né di valore aggiunto;

c) sostanziale tenuta dei Margini Operativi Lordi e dei Margini Operativi Netti;

d) il valore aggiunto deve essere redistribuito al fattore lavoro e al fattore capitale, ma al fattore lavoro non sono andati incrementi nè di salario diretto nè di salario indiretto;

e) le imposte fiscali e tributarie diminuiscono;

f) gli oneri finanziari sull’indebitamento calano come conseguenza del minor costo del denaro;

g) i maggiori flussi di denaro realizzati dalle imprese non vanno ad investimenti, anzi si realizza anche un 39% di dismissioni di attività;

h) per il terzo anno consecutivo i dividendi distribuiti (nel 1998 circa 8.500 milioni di euro) sono stati maggiori degli aumenti di capitale a pagamento (nel 1998 meno di 7.500 milioni di euro), realizzando un saldo negativo fra dividendi e aumenti di capitale di oltre 1000 milioni di euro, penalizzando di fatto l’autofinanziamento in quanto i detentori di azioni in pratica continuano a ricevere più di quanto danno;

i) deciso miglioramento della struttura patrimoniale delle società e il rapporto tra debiti finanziari e patrimonio netto diminuisce toccando il valore più basso degli utlimi dieci anni, anche per la diminuita quota di debiti contratti con le banche a vantaggio di finanziamenti a breve realizzati con le consociate dovuti all’accentramento a livello di gruppo della gestione finanziaria.

Con il quadro rappresentato nei punti precedenti si evince chiaramente che i vantaggi di cui hanno potuto usufruire le imprese italiane sono rimasti esclusivamente nelle tasche degli imprenditori, dei manager, degli azionisti i quali non hanno “socializzato” in alcun modo le condizioni ottimali di crescita di questi ultimi anni e in particolare del 1998, anno in cui si sono registrati i migliori risultati dell’ultimo decennio.

Il Profit State continua a omaggiare di condizioni favorevolissime gli imprenditori e a operare sconti eccezionali al profitto e ciò non si traduce neppure in miglioramenti di spesa sociale ( diminuisce il peso contributivo delle imprese), né in incrementi di investimenti sul mercato italiano, né in riduzione di orario di lavoro, né in incrementi di salario e in operazioni redistributive a favore del lavoro, né, come si vedrà meglio di seguito nel dettaglio, aumenta l’occupazione.

Infatti, sempre in riferimento al campione di Mediobanca, si ha che negli ultimi tre anni sono stati espulsi dal processo produttivo 58.518, lavoratori di cui 19.867 nel 1998, 16.573 nel 1997 e circa 22.000 nel 1996; evidenziando così un intenso processo di deindustrializzazione nel nostro Paese, poiché dei 58.518 posti di lavoro persi ben 54.928 sono in imprese industriali mentre i restanti 3.590 sono lavoratori espulsi dai processi produttivi delle imprese terziarie. Solo nel 1998, sempre in riferimento al campione di Mediobanca di 1755 imprese si rileva che mentre le imprese terziarie registrano un aumento di 1.400 unità di lavoro essenzialmente nel comparto delle telecomuncazioni per lo sviluppo della telefonia mobile (anche se si tratta spesso di contratti part time) e di formazione, le imprese industriali invece evidenziano una perdita di 21.667 posti di lavoro.

Si consideri inoltre che il lieve incremento registrato nelle retribuzioni dirette è stato ampiamente bilanciato, sempre nel 1998, dall’abolizione degli oneri a carico delle imprese per i contributi al Servizio Sanitario Nazionale e all’incidenza dell’imposizione fiscale che, come si è detto precedentemente, è fortemente variata in senso favorevole alle imprese, soprattutto per quelle di grande dimensione (si parla infatti che con l’introduzione dell’IRAP e della DIT, la Dual Income Tax, le grandi imprese e le banche abbiano risparmiato oltre 10.000 miliardi); va infine considerata anche la diminuzione degli oneri finanziari grazie al calo dei tassi di interesse.

In pratica il capitalismo italiano continua ad intascare profitti senza creare opportunità di occupazione, ristrutturando per seguire esclusivamente un’ottica di competitività internazionale basata su processi di delocalizzazione produttiva all’estero, decrementi occupazionali all’interno del Paese, supersfruttamento del lavoro con incrementi degli straordinari e dei ritmi, uso di lavoro nero e precario e con scarsi diritti riconosciuti ai lavoratori, in particolare le nuove figure del lavoro atipico, con flessibilità del salario e del lavoro, con tagli continui alla spesa sociale, quindi con salari reali sempre a minore capacità di acquisto. Il tutto finalizzato a determinare utili che, nonostante le condizioni favorevoli di cui si è detto, non vengono utilizzati in investimenti produttivi nel Paese ma inseguono la speculazione finanziaria e l’investimento produttivo estero percorrendo traiettorie verso i paesi dove si può avere un lavoro specializzato a basso costo e a basso contenuto normativo.

 

1.3. L’internazionalizzazione italiana

Le Tabb.11,12,13 aiutano a comprendere più chiaramente che anche in questi ultimi anni, come già si era visto nella Seconda Parte dell’analisi-inchiesta (vedi Proteo 1/99), le imprese italiane non risultano essere molto competitive, non riescono a rimanere stabilmente sul mercato e i beni e servizi vengono venduti a prezzi troppo elevati rispetto alla concorrenza.

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Va ricordato che la bilancia dei pagamenti nel 1997 ha registrato un saldo passivo di 11.142 miliardi, 7.480 miliardi in più rispetto all’anno precedente; inoltre la struttura produttiva è generalmente concentrata in pochi settori (macchinari agricoli e industriali, prodotti tessili e dell’abbigliamento, cuoio e calzature, mobili in legno), i quali pur essendo molto competitivi hanno contratto forti debiti nel settore dell’alta tecnologia, che risultano essere molto elevati nei confronti dei paesi esteri. Il nostro Paese si caratterizza, quindi, per un livello di produzione industriale non omogeneo; fenomeno che negli anni’70, veniva chiamato di industrializzazione a “macchia di leopardo”. Si registra, poi, un andamento crescente sia della produzione che della redditività, a significare che si sta espandendo la base produttiva, proprio in virtù dei processi di concentrazione e di delocalizzazione e decentramento produttivo, quindi internazionalizzazione di impresa, anche se motivati diversamente (vedi Tab.14).

Ad esempio, tra il 1988 e il 1995, la quota dei prodotti intermedi esportati in via temporanea e successivamente reimportati, dopo una lavorazione eseguita al di fuori del Mercato Unico, sulle importazioni complessive è salita dal 2.8% al 5.9% in Germania, dal 2 al 3.4% in Francia e dallo 0.8% al 3.5% in Italia. Il fenomeno ha interessato in modo più intenso i settori del tessile e abbigliamento, del cuoio, calzature e delle macchine e apparecchi elettrici; per l’Italia, la quota dei prodotti tessili e dell’abbigliamento è ulteriormente cresciuta nei primi 11 mesi del 1997 (dal 7.9% al 12.7%), mentre è rimasta stazionaria per gli altri paesi (21.4% e 8.5% rispettivamente per la Germania e la Francia). “Al contrario i settori metalmeccanici, della chimica e plastica e della lavorazione dei minerali, mostrano una quota elevata di addetti nell’UE e negli Usa, che indicherebbe un utilizzo prevalente della produzione per servire il mercato locale [4].

All’inizio degli anni’90, mentre le grandi industrie italiane attraversavano un periodo di crisi, emergevano, caratterizzando fortemente il nostro sistema economico e in genere quello europeo, le piccole e medie imprese [5] . Va ricordato, infatti, che il 99,8% delle imprese dei paesi dell’UE hanno meno di 250 dipendenti e il 91% meno di 20, esse rappresentano, quindi, il 66% dell’occupazione totale e il 65% del fatturato dell’UE. Il sistema economico del nostro Paese si basa principalmente sull’attività delle piccole e medie imprese del settore manifatturiero a bassa intensità di capitale. Infatti la propensione ad esportare in tutto il settore si è incrementata di sette punti dal 1991 al 1995, grazie al forte contributo di alcuni comparti in cui sono fortemente presenti le PMI (piccole e medie imprese) per lo spiccato orientamento, da parte dei produttori, all’esportazione nei mercati di tutto il mondo; ad esempio, le macchine per ufficio, quelle agricole, il cuoio e le calzature, hanno fatto registrare una propensione all’export superiore al 50%, con sempre, comunque, una forte e maggiore propensione ad esportare rispetto alla penetrazione delle importazioni in tutto il settore (cfr.Tabb.15,16).

In questi ultimi anni in Italia si è avuta una forte tendenza agli investimenti diretti esteri [6] , soprattutto a causa del peso crescente degli investimenti nei paesi dell’Est europeo.

Va rilevato che dai primi mesi del 1996, le nostre aziende hanno privilegiato l’Europa Occidentale (41% degli addetti in imprese partecipate), l’America Latina (17.1%), l’Europa Orientale (16.4%), il Nord America (8.2%) e l’Area del Pacifico (5%). Questi risultati sono in accordo con quelli registratisi a livello mondiale, i quali hanno evidenziato un’importante riduzione degli investimenti verso i paesi in via di sviluppo. Ma già dagli anni che vanno dal 1992 al 1995 si erano manifestati importanti mutamenti nella composizione geografica degli investimenti diretti esteri: l’America Latina è tornata a rivestire un ruolo importante ed è emerso un nuovo mercato verso cui espandersi rappresentato da tutta l’Area del Pacifico.

Dalla seconda metà degli anni’80 l’eccessivo protagonismo da parte dei gruppi industriali italiani più importanti ha generato una grossa accelerazione del processo di internazionalizzazione, infatti le imprese estere partecipate da investitori italiani si sono incrementate del 20.9% e gli addetti sono aumentati del 50.3%. Sempre in questo periodo si è manifestato un altro fenomeno molto importante: l’estensione della base multinazionale del nostro paese che ha provocato una crescita del 9.3% del numero degli investitori esteri. Va rilevato che la forte svalutazione della lira ha impedito la mancata ripresa degli investimenti diretti esteri in Italia, e questo per due motivazioni importanti: la prima di natura strutturale poiché imputa il suddetto fenomeno al deterioramento della situazione interna sia sotto il punto di vista della qualità dei fattori localizzativi e di economie esterne, sia per l’instabilità politico-istituzionale, che caratterizza il nostro paese; la seconda riguarda l’aspetto congiunturale, in quanto fa ricadere la colpa sulle numerose turbolenze che hanno influito sulla svalutazione della lira. Queste ultime hanno generato “un accumulo potenziale di investimenti pronti a materializzarsi non appena lo scenario si presterà a certe previsioni” [7].

Risultati tutt’altro che positivi provengono dalle nuove partecipazioni e dalle dismissioni che si verificano ogni anno; infatti fino la 1992 si è avuta una crescita costante di nuove partecipazioni (anche sotto l’aspetto del numero di addetti), che erano in grado di bilanciare il numero, sempre maggiore, delle dismissioni. La crescita delle imprese multinazionali nel nostro Paese ha subito una brusca frenata nel 1993 a causa della forte svalutazione della lira e della recessione che ha colpito l’Italia. Dal 1993 la situazione muta in modo repentino, le nuove iniziative passano da 325 a 136, con il conseguente calo del numero di addetti e parallelamente si incrementa il totale delle dismissioni. Questo fenomeno è stato causato anche dai processi di ristrutturazione attuati dai grandi gruppi privati e pubblici, quali CIR, PIRELLI e IRI e dall’esclusione dei potenziali investitori di alcune imprese che sono entrate a far parte dei gruppi multinazionali esteri (Cinzano Martini & Rossi, Società italiana Vetro e Telico Cavi). Si comprende, quindi, perché il saldo tra nuove partecipazioni e dismissioni tende a divenire sempre più negativo. Tra il 1994 e il 1995 la situazione è tornata ai livelli del 1993, con una riduzione, seppur minima, del numero delle dismissioni. Dal punto di vista geografico, il 67.3% degli addetti nelle partecipate estere appartengono all’Europa Occidentale, il 26.1% al Nord America, il 2.4% al Giappone e il 4.2% al Resto del Mondo. Bisogna anche considerare la ripartizione delle nuove iniziative sull’intero territorio nazionale, che, in questi ultimi anni, ha mostrato un relativo equilibrio; il 20.1% degli stabilimenti delle imprese a partecipazione estera risiedono nelle regioni centrali, il 12.6% in quelle meridionali, il 46.4% nelle regioni nord-occidentali, ed infine il 20.9% in quelle nord-orientali. Per rendere molto attuale in termini di dati molto recenti questa panoramica relativa ai processi di internazionalizzazione riguardanti l’Italia, si vogliono fornire alcuni elementi quantitativi e qualitativi relativi all’anno 1998 e desunti dalla "Relazione del Governatore della Banca d’Italia all’Assemblea Generale dei Partecipanti del 31 maggio 1999". Per il 1998 il conto finanziario dell’Italia ha registrato afflussi netti per 6.000 miliardi di lire compresa la variazione delle riserve ufficiali con una posizione netta sull’estero complessivamente debitoria per 34.500 miliardi pari all’1,7% del PIL. In particolare gli investimenti diretti esteri hanno evidenziato deflussi netti per 17.200 miliardi di lire, risultato dovuto ad un forte aumento degli investimenti italiani diretti all’estero (pari a 21.700 miliardi di lire) che segnano un incremento di circa il 21% rispetto al 1997, mentre si evidenzia una forte riduzione degli investimenti diretti in Italia dall’estero che raggiunge un 28% in meno rispetto al 1997, con soli 4.500 miliardi di lire. In particolare gli IDE in Italia dall’estero sono diminuiti nel settore delle imprese da 4.000 miliardi del 1997 a 3.300 miliardi di lire del 1998 e quelli nelle imprese finanziarie ed assicurative sono scesi da 1.400 miliardi di lire a 1.000; va precisato, comunque, che la quasi totalità degli IDE in entrata è arrivata da paesi dell’area dell’Euro. Invece gli IDE italiani all’estero hanno visto un significativo incremento nelle imprese finanziarie, passando da 9.000 miliardi di lire del 1997 a 10.500 miliardi di lire del 1998, mentre nel settore non finanziario gli investimenti si sono ridotti da 5.800 miliardi di lire del 1997 a 3.900 del 1998; gli IDE in uscita hanno riguardato per 7.800 miliardi i paesi dell’UE (oltre la metà a società con sede in Lussemburgo) e altri 4.900 miliardi si sono indirizzati verso il Regno Unito; gli Stati Uniti infine continuano ad essere il paese fuori dall’area dell’Euro a forte attrattiva per gli IDE italiani in uscita (2.000 miliardi nel 1998 con un incremento di un terzo rispetto al 1997).

Il coinvolgimento delle PMI al processo di internazionalizzazione ha modificato anche la struttura settoriale. Da un lato si è accresciuta l’importanza delle attività tradizionali, dall’altro i settori a più elevato contenuto tecnologico hanno assistito al loro ulteriore indebolimento. Infatti il 67% degli occupati provengono dai settori ad elevate economie di scala, il 15% da quelli tradizionali e solo il 9% da quelli specialisti della meccanica e dell’elettromeccanica strumentale. La forte svalutazione della lira e la recessione interna, hanno fatto si che dal 1993 si è avuta una brusca e sensibile frenata della crescita multinazionale dell’industria italiana. Basti pensare che all’inizio del 1996, 478 imprese delle 622 multinazionali erano imprese con meno di 500 addetti; in più le aziende estere partecipate da queste ultime erano 685 dando lavoro a più di 76 mila addetti (Cfr Tab. 17).

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E’ da rilevare che questi dati sono in realtà sottostimati rispetto al numero reale delle “piccole multinazionali”, poiché molte iniziative minori non sono prese in considerazione dalle banche dati. Va comunque rilevato che le “piccole multinazionali” hanno privilegiato i paesi dell’Europa Centro ed Orientale, ed invece meno attrattivi risultano essere i paesi dell’Unione Europea. Costi di produzione più contenuti, in particolare basso costo del lavoro coniugato a molto buoni livelli di specializzazione della manodopera una migliore qualità del prodotto grazie ad un buon livello di conoscenza economico-produttiva e una appropriata competenza aziendale acquisita dalle imprese locali, sono tra i motivi principali che inducono le imprese italiane a privilegiare i paesi dell’Est europeo per avviare nuovi stabilimenti o per acquisirne di già esistenti.

E’ interessante ora esaminare alcuni settori in modo dettagliato per comprenderne più significativamente l’evoluzione.

Per il tessile, abbigliamento, cuoio e prodotti in cuoio si è avuto, dalla metà degli anni’80 un forte sviluppo del processo di industrializzazione; in poco meno di 10 anni il numero dei dipendenti delle partecipazioni italiane all’estero è passato da 12 mila a quasi 49 mila unità. L’area territoriale interessata da questo fenomeno include la Francia, la Germania, la Spagna e gli Stati Uniti; in Germania, ad esempio, vi sono state importanti acquisizioni a forte ricaduta sugli assetti produttivi globali. In questi ultimi anni, inoltre, si è avvertita la necessità di creare nuovi equilibri nel rapporto efficienza - costo delle risorse umane, attuando nuove strategie di delocalizzazione dei cicli produttivi caratterizzati da una mole maggiore di lavoro e da un forte impatto ambientale con la conquista di nuovi mercati locali. Per queste ragioni gli investimenti sono stati realizzati nell’Europa Orientale, dove, allo stesso tempo, esistevano salari reali più bassi, un discreto livello qualitativo di risorse umane e distanze chilometriche non troppo elevate.

Il settore alimentari e bevande ha subito un elevato processo di espansione che ha portato ad incrementare di sei volte il numero degli addetti aderenti alle partecipazioni all’estero. La spinta di questo sviluppo, contrariamente a quanto è avvenuto per la moda italiana, è rappresentata dalla speranza soprattutto di conquistare i mercati locali. Per quanto riguarda l’estensione geografica, il fenomeno di internazionalizzazione ha coinvolto soprattutto l’Europa Occidentale; infatti nel 1996 si è registrato un numero di addetti pari al 63,2% del totale, questo risultato lo si deve agli investimenti effettuati soprattutto dalla Montedison, dalla San Carlo e dalla Ferrero. Contrariamente alla situazione appena descritta, nel Nord America si sono verificati fenomeni di contrazione del settore.

Quello dei prodotti in gomma e in plastica è l’unico settore che in questi ultimi anni ha fatto registrare un calo assoluto del numero di addetti. La causa principale di questa diminuzione è la dismissione della Pirelli e la decisione di dedicare la sua attività alla creazione di cavi e pneumatici. L’estensione territoriale riguarda, in modo particolare, l’Europa Occidentale, l’America Latina e l’area del Pacifico.

Nel 1992 si è avuto un forte sviluppo internazionale del settore dell’estrazione e lavorazione dei minerali non metalliferi grazie all’acquisizione da parte di Italcementi del gruppo Ciments Français. Sotto l’aspetto geografico, invece, agli inizi del 1996, la netta predominanza spetta all’Europa Occidentale con il 48% degli addetti, seguita dall’Europa Centrale e Orientale con il 24% e dal Nord America con il 16% del totale. Un ruolo marginale è rivestito dall’America Latina a causa dell’abbandono del gruppo Ferruzzi.

In questi ultimi anni il settore chimico-farmaceutico si è indebolito a causa di alcuni importanti scorpori e scissioni. Un’azione di sostegno l’hanno svolta le piccole e medie imprese specialistiche che sono riuscite a crearsi un mercato di nicchia specializzato all’interno di quello mondiale. Per quanto riguarda l’aspetto geografico questo tipo di collaborazioni si sono sviluppate, in modo particolare, nell’Europa Occidentale e nel Nord America, penalizzando l’Asia e l’Africa.

Il settore dell’automobile ha sempre svolto un ruolo importante soprattutto nel nostro Paese, infatti solo la produzione dei veicoli su gomma, nel 1996, impiegava 94 mila addetti in imprese estere; tutto questo grazie alla Fiat e all’Iveco. L’America Latina assorbe circa il 30% degli occupati, mentre l’Europa Orientale e Centrale ne accolgono il 19%. Infatti il Brasile e l’Europa Orientale sono i paesi verso cui si è orientato il processo di internazionalizzazione attuato dai nostri produttori, i quali non prediligono i mercati nord americani, principali obiettivi di imprese automobilistiche giapponesi e tedesche. Ma nel 2000 la situazione tenderà a modificarsi, poiché in molti paesi tra i quali l’Italia verranno aboliti gli ultimi ostacoli ancora esistenti per le importazioni automobilistiche nipponiche, e ciò tenderà ad inasprire ancora di più la concorrenza sul mercato nazionale ed europeo.

Negli anni’80 circa l’85% degli addetti impiegati nelle industrie italiane all’estero nel settore dei cavi ed in genere dell’elettromeccanica e prodotti elettrici erano dipendenti della Pirelli e Fornara, e la maggior parte svolgevano la loro attività in America Latina: Brasile, Argentina, Messico e Perù presso l’Ansaldo e Bassani Ticino. Con il trascorrere degli anni questo settore si è esteso anche all’Europa attraverso le industrie di elettrodomestici e elettrosanitari, come Candy, Merloni Elettrodomestici e Merloni Eelettrosanitari.

Durante la seconda metà degli anni’80, nei settori dell’ elettronica, telecomunicazioni, macchine per ufficio e strumentazione, si sono verificate un numero consistente di fusioni con un’espansione geografica che ha riguardato l’Europa Occidentale (54% degli addetti) e il Nord America (26% degli addetti). Questo processo ha subito una brusca frenata tra il 1990 e il 1996, infatti il numero degli occupati delle imprese italiane all’estero si è notevolmente ridotto in Europa Occidentale a causa dell’abbandono, da parte dell’Olivetti e della Stet.

 

1.4. Lo scontro tra i poli USA e UE

Tutti i fenomeni connessi alla mondializzazione finanziaria sono perni del progetto dell’Unione Europea così come si sta costruendo e l’attuale contesto della situazione economica e sociale a livello mondiale così come è fa crescere il dissenso statunitense all’UE. Si è ormai presa coscienza specialmente da parte degli USA e della Gran Bretagna, che è tempo di vedere un’Europa sempre più in crisi, poiché tale grande mercato può offrire prospettive di sviluppo neoliberiste in alternativa al polo imperialista anglosassone che nelle aree dell’Europa centro-orientale, dell’Africa mediterranea e di molti paesi dell’Asia centrale avrà sempre meno voce in capitolo.

L’euro è inscritto in una logica mercantilistica, poiché mira a creare un blocco regionale europeo in grado di competere con Stati Uniti, Giappone e Asia anche se apparentemente la globalizzazione invece significa apertura dei mercati e delle frontiere. Basta guardare, ad esempio, al vertice di Rio, conclusosi dopo la guerra NATO alla Jugoslavia, in cui l’UE ha posto le basi per la creazione di un’area transatlantica di libero scambio con l’America Latina, in assenza degli USA, anzi in aperto contrasto con l’Alca, il concorrente interamericano. Il vertice di Rio ha avuto il dichiarato scopo di contrastare a livello economico internazionale l’egemonia dell’imperialismo statunitense nell’area dell’America Latina in un’area in cui l’export USA è tre volte maggiore di quello UE (per non parlare dei movimenti di capitale), ma dove tale supremazia non è più incontrastata né sul piano commerciale né su quello degli investimenti. Si pensi che nel ’90 gli IDE (investimenti diretti esteri) verso l’America Latina degli USA erano di 3 miliardi di dollari contro 1,5 dell’Europa; nel 1995 erano 15 miliardi di dollari degli USA contro i 5 europei, nel 1997 di 24 miliardi USA contro 19 e l’Unctad prevede per il 1999 nell’area latino americana il sorpasso degli IDE europei rispetto a quelli statunitensi. Le esportazioni europee verso l’America Latina in pochi anni sono più che raddoppiate; nel 1997 hanno toccato quasi i 53 miliardi di dollari e le importazioni da quell’area hanno superato i 38 miliardi di dollari.

Questi sono solo alcuni risultati della guerra di egemonia economica che si fa sempre più frontale in tutte le aree del pianeta fra il polo imperialista USA e quello dell’UE. E lo scontro diventerà ancora più duro e favorevole all’UE se l’euro avrà il tempo e l’opportunità di rafforzarsi.

L’impatto dell’euro sulle relazioni internazionali può avere effetti dirompenti rispetto agli assetti e agli equilibri internazionali attuali, nonostante le ambiguità e i limiti più a carattere interno all’UE.

Cominciamo a vedere il contesto attuativo dell’Unione Europea. A dar luogo all’Europa è l’economia finanziaria globalizzata in cui è la moneta e i movimenti dei soli capitali a scandire il fenomeno imperialista europeo, in un contesto di apparente globalizzazione totale in cui invece ogni polo imperialista si erge a fortezza internazionalizzata in cui i mercati interni o di area di influenza devono rimanere assolutamente prioritari e prevalenti.

Risulta sempre più evidente che il Trattato di Maastricht e quello di Amsterdam hanno carattere geopolitico soprattutto per quanto riguarda la Germania nel contesto Unione europea. Il Trattato di Maastricht presentava in sé già molte ambiguità. Tanto per cominciare, la struttura di Maastricht si doveva basare su tre elementi: la moneta unica, la politica estera e di sicurezza comune, la lotta alla criminalità. Moneta unica e integrazione politica dovevano reggersi reciprocamente. Cosa succede invece? Il vincolo dei criteri di convergenza imposto a Maastricht ha un significato geopolitico e geoeconomico: divide gli stabili e affidabili paesi dell’area del marco dai paesi mediterranei, creando problemi alle stesse multinazionali europee. Il cuore del Trattato sull’Unione europea, varato a Maastricht l’11 dicembre 1991, firmato ufficialmente il 7 febbraio 1992 e vigente dal 1° novembre 1993, è al momento semplicemente e solamente la moneta unica, inaugurata il 1° gennaio 1999. Dopo l’Atto unico del dicembre 1985, con il quale venivano poste premesse della libera circolazione di persone, merci e capitali nello spazio comunitario, l’unificazione della moneta è considerata dai suoi ideatori come la premessa indispensabile di una più profonda integrazione europea, e ciò è finalizzato alla creazione del più grande mercato finanziario del mondo. Con questo evento si impone fittiziamente una confederazione le cui finalità di controllo travalicano l’Europa occidentale per imporre il dominio sui paesi dell’Est (ex satelliti di Mosca), superando così in una logica di polo imperiale gli aspetti ambigui e le incongruenze derivanti da una non voluta soluzione dei mali sociali dell’Europa occidentale a vantaggio di tutti i nuovi soggetti finanziari europei, investitori istituzionali e non.

L’euro appare come un tentativo di dare all’Europa una sola moneta, una nuova moneta forte nelle transazioni internazionali di riferimento fondamentale per l’est europeo e per l’Africa mediterranea; mentre di fatto si presenta come un progetto ambiguo che caratterizza un’élite di “eurovirtuosi” e manda alla deriva tutti gli altri, anche paesi importanti all’interno dell’UE. E’ implicito nello stesso trattato di Maastricht la legittimità del principio dell’Europa a diverse velocità, tale principio indica che nella comunità, formalmente di eguali c’è chi è più eguale degli altri; sotto questo profilo Maastricht non è la continuazione dell’Europa del trattato di Roma ma è l’esplicitazione contraddittoria del polo imperialistico europeo.

L’Europa, infatti, dà via libera alla Germania per la riunificazione in tempi rapidi, ottenendo come contropartita l’europeizzazione del marco. Dunque è un riflesso germanofobo a muovere i leader europei poiché si presume che la Germania unita con i suoi oltre 85 milioni di abitanti, la forza della sua economia e della sua moneta, rischi di sbilanciare la polarizzazione imperialista; infatti gli Stati Uniti riconoscono alla nuova Germania lo status di super potenza ed esprimono la necessità di contenerla. La Germania ha bisogno dell’Europa per difendere i suoi interessi internazionali più della Francia e dell’Italia, e allo stesso tempo mantiene il proprio nazionalismo economico, ma Maastricht costringe la Germania a cedere il marco, per limitarne la potenza e incardinarla in un’Europa alternativa agli interessi USA. C’è da tener presente che gli obiettivi originari della Germania rispetto a quelli di Francia e Italia erano opposti. A Francia e Italia interessava togliere il marco ai tedeschi, mentre ai tedeschi interessava germanizzare le politiche economiche e finanziarie dei partner, adeguarle ai criteri di stabilità su cui hanno costruito il “miracolo” del secondo dopoguerra. Inoltre, attraverso una calibrata manovra dei tassi di interesse gestita dalla Bundesbank, intendevano garantirsi un forte flusso di capitali europei verso la Germania, necessari a riempire la voragine dell’ex RDT. Nella Germania prevale un’impreparazione ad affrontare le responsabilità interne e internazionali che le derivano dal suo nuovo status e dalla scomparsa della supremazia sovietica, che le ha aperto uno sterminato campo di influenza, ma anche di problemi e di responsabilità.

Per ora sembra solo che la preoccupazione maggiore dei governi sia stata quella di scegliersi l’alleato ideale nella lotta alla supremazia economica e politica, in contrapposizione più o meno marcata rispetto al polo imperialista statunitense, imponendo una maggiore centralità del mercato UE non solo per le multinazionali europee ma anche per quelle esterne. La sorte dell’euro è fortemente condizionata dal contesto esterno, che siano i mercati finanziari nel mondo o la politica monetaria degli Stati Uniti. L’ipotesi euro continua a prendere consistenza e profilarsi come strumento di guerra commerciale, pertanto gli Usa stanno facendo il possibile per soffocarla. Per gli americani la migliore Europa possibile deve essere sufficientemente unita ma sotto il dominio USA e, quindi, agiscono per renderla sufficientemente divisa per impedirne l’affermazione come superpotenza concorrente. Gli Usa, dunque, temono oggi più di ieri una moneta destinata a favorire nel tempo le esportazioni europee e nel tempo, a minacciare il rango del biglietto verde come valuta di riserva mondiale. La subordinazione UE agli USA è chiara anche durante e dopo la guerra NATO in Jugoslavia, basta vedere come l’euro ha perso in quel periodo sul dollaro (circa il 12%) e come la guerra ha inciso in modo decisamente negativo sull’economia dell’Europa dei 15, mentre la crescita in USA nel periodo bellico è del 4,5% seguendo un forte andamento di crescita già avuto negli ultimi mesi del 1998 in cui l’economia americana si preparava ai nuovi conflitti in Iraq e in Jugoslavia.

A prescindere dai conflitti di interessi l’Europa dell’euro è una scelta nell’ambito della logica spartitoria imperialista diretta dai principi della globalizzazione finanziaria. Ed è proprio per questo che nonostante le apparenze si tratta di un’ideologia molto fungibile e ancora carica di indeterminatezza sulle aree di influenza da aggredire. La teoria dell’Europa unita è ancora troppo debole nei confronti del polo USA per poter servire progetti differenti, se non opposti: dallo stretto dominio sociale a carattere finanziario ed economico all’interno degli attuali confini statali e comunitari, fino allo stravolgimento della carta geopolitica mondiale mascherato da criteri “etnici” o socio-economici ma determinato, nella realtà, anche nel Terzo Mondo, da logiche di polarizzazione imperialista.

In questo ambito assumono rilevanza fondamentale la funzione svolta dagli USA e dagli organismi internazionali a carattere finanziario. Infatti i crediti concessi ai paesi in via di sviluppo hanno creato il meccanismo di trasferimento di ricchezza su vasta scala del periodo contemporaneo. Il riciclaggio dei “petroldollari” ha fatto crescere questo eccessivo debito dei paesi del Terzo Mondo. La formazione dei mercati obbligazionari, la trasformazione in titoli del debito pubblico e la crescita sempre più rapida di quella parte del budget dei paesi dell’Ocse che si pone al servizio del debito, stanno a dimostrare che il meccanismo di captazione e di trasferimento più importante è sempre quello di una globalizzazione a vantaggio del grande capitale finanziario.

Comunque la mondializzazione capitalistica e l’intento del capitale finanziario di dominare il movimento di capitale nella sua totalità, non solo tendono a cancellare l’esistenza degli stati nazionali, ma immediatamente tali processi accentuano i fattori di gerachizzazione tra i paesi e ne ridimensionano la configurazione accentuando i conflitti imperialistici per il controllo su quelle aree a maggiore interesse di spartizione geopolitica e geoeconomica.

La liberalizzazione degli scambi insieme alla deregolamentazione e allo smantellamento della legislazione a tutela dei salari, ha permesso ai gruppi delle multinazionali, in particolare americane, di sfruttare simultaneamente i vantaggi della libera circolazione delle merci e delle forti disparità tra i paesi, le regioni o i luoghi situati anche all’interno della stesso mercato unico europeo. Il grande mercato continentale assicura contemporaneamente ai gruppi economico-finanziari delle multinazionali totale libertà di scelta dei differenti elementi costitutivi di una produzione integrata a livello internazionale, rispondendo anche alle esigenze delle strategie di differenziazione dell’offerta e della fedeltà della clientela, esigenze che sono proprie alla concorrenza oligopolistica.

E’ con tali premesse che gli USA passano nei confronti dell’UE dalla guerra economica anche alla guerra guerreggiata, vedi la guerra in Jugoslavia, sfruttando il fatto che in Europa va avanti la centralizzazione economica ma manca del tutto quella politica, e quindi, militare, contando su questi temi anche sul ruolo di "guastatore europeo" della Gran Bretagna. Infatti, la guerra della NATO contro la Jugoslavia rappresenta un punto di svolta tra il modello politico ed economico dell’imperialismo americano e quello del polo imperialista europeo. Quest’ultimo è ormai in forte competizione con quello USA sia per quanto riguarda l’imposizione del nuovo ordine mondiale, sia per la spartizione del mercato mondiale sia, infine, per il controllo delle mire espansionistiche imperialiste del polo asiatico da parte ancora del Giappone o dell’eventuale costituendo asse russo-cinese-indiano.

 

2. Le diverse forme di internazionalizzazione economico-produttiva

2.1. Delocalizzazione produttiva e filiere internazionali

Il processo di trasformazione che ha interessato i mercati internazionali in questi ultimi anni ha avuto, inoltre, tra le sue più dirette conseguenze anche un mutamento fondamentale nelle modalità del processo produttivo. Le imprese più piccole si sono dovute combinare fra loro per consentire il cambiamento avvenuto da ” local for global”, ossia prodotti nazionali, produzione nazionale, mercati internazionali, a “global for global”, ossia prodotti multilocali, produzione multilocale, mercati globali. Si è avuta così la nascita di “aziende virtuali”, ossia gruppi di imprese che temporaneamente agiscono come se fossero un’unica azienda. Si genera così una situazione di “reti integrate a diversi livelli lungo una stessa catena di business costituite da nuclei interattivi, articoli in gruppi e sottogruppi, che condizionano alcune infrastrutture (sistemi informativi, sistemi gestionali, valori) e sono in grado di rispondere creativamente ai continui cambiamenti di scenario e di mercato. Questo tipo di “rete” viene definito “sistema alonico” ove a circolare sono le informazioni piuttosto che i beni fisici” [8].

Le nuove forme di internazionalizzazione possono, comunque, essere classificate in diverse categorie che prevedono accordi di natura tecnologica (joint venture, alleanze di vario tipo, cessioni di licenze, ecc.), accordi di natura produttiva per la realizzazione di opere complesse o determinati prodotti (subappalti, co-produzione e subforniture) ed accordi di marketing, assistenza e distribuzione (contratti di distribuzione, franchising). Spesso i dirigenti delle imprese che non riescono a detenere la totalità o la quota di maggioranza di una società estera costituiscono delle joint venture per ottenere degli utili più elevati: “Una joint venture è la partecipazione di due aziende alla proprietà, direzione e controllo di una terza creata per portare benefici a tutte e due” [9]. In sostanza si tratta di una collaborazione fra imprese diverse a livello internazionale per svolgere un determinato affare o portare a compimento una determinata opera, per un periodo di tempo variabile [10] .

Se si vuole parlare di joint venture occorre analizzare la situazione del Giappone, in quanto questo paese si è fortemente contraddistinto per la creazione e lo sviluppo di tale tipo di imprese. Basti pensare a questo proposito che, infatti, 64 su 100 delle società estere più importanti nel mercato nipponico sono state originate tramite joint venture, le quali, inoltre, rappresentano un terzo dell’industria petrolifera. La creazione di queste imprese è iniziata in Giappone negli anni’70, periodo in cui le joint venture rappresentavano lo strumento migliore per superare le barriere di tipo legale e diretto che ostacolavano l’entrata nel mercato giapponese. Dopo qualche anno però si ebbe una drastica riduzione del loro numero. Nel 1989 poi lo scoppio “dell’economia della bolla finanziaria” provocato dalla repentina e improvvisa discesa del mercato azionario e immobiliare ha indotto le banche e le imprese nipponiche ad evitare gli investimenti.

Comunque le alleanze dovute alla creazione di joint venture generalmente hanno una vita molto lunga (15-20 anni) soprattutto a causa degli elevati costi da sostenere nel caso di un suo scioglimento. Fino a pochi hanno fa, inoltre, il ruolo delle aziende occidentali consisteva nell’apporto di prodotti o tecnologie all’avanguardia in cambio della possibilità di entrare nel mercato giapponese, oggi invece le aziende nipponiche hanno imparato a costruirsi da sole queste tecnologie.

Anche i paesi europei, soprattutto i paesi dell’Unione Europea, hanno realizzato in questi ultimi anni molti programmi tendenti a realizzare la nascita di joint venture. Va ricordato per primo l’ECIP (European Community Investment Partners) creato dall’Unione Europea nel 1988: si compone di quattro “facilities” ideate per finanziare lo studio, l’investimento e l’assistenza tecnica di joint venture tra imprenditori comunitari ed operatori di alcuni paesi dell’Asia, America Latina, Area Mediterranea e della Repubblica Sudafricana. Vi è poi Il programma JOPP - Joint Venture Phare Programme attualmente tramutato in JOP -Joint Venture Programme in quanto la sua operatività non è più limitata ai Paesi aderenti al programme Phare ma dal 1995 è compresa anche la Federazione Russa e dal 1997 i Paesi CIS-Comunità degli Stati Indipendenti e la Mongolia. Il JOP fu creato nel 1991 per favorire l’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese attraverso la realizzazione di investimenti produttivi sotto forma di imprese miste, tra imprenditori comunitari ed operatori dei Paesi suddetti. I progetti finanziabili dal programma JOP devono prevedere un incremento dell’occupazione nel mercato del lavoro locale, uno sviluppo della tecnologia, un miglioramento della bilancia valutaria e la tutela dell’ambiente. Il programma offre, sulla falsariga dell’ECIP, diverse tipologie di interventi suddivise in “facilities” correlate alle varie fasi del processo di creazione o ampliamento di una impresa. Infine si ha il JEV (Joint European Venture) destinato a sostenere la costituzione di imprese comuni transnazionali all’interno dell’Unione “Modellato” sulle esperienze dei due programmi precedenti. il JEV si prefigge l’obiettivo di creare nuove attività economiche che stimolino, attraverso un investimento, la creazione di posti di lavoro all’interno dei paesi membri dell’UE e più precisamente incentivare la nascita di partnership tra aziende situate all’interno dell’ U.E. mediante consorzi, partecipazioni o joint venture nei settori dell’industria, servizi, commercio e artigianato.

Sempre nell’ambito degli accordi di natura tecnologica si hanno anche i contratti di cessione di licenza (licensing) che avvengono dietro pagamento di un corrispettivo e sono in sostanza concessioni di sfruttamento temporaneo dei diritti su brevetti o marchi, ecc.

Tra gli accordi di natura produttiva si possono citare la subfornitura, i subappalti e la co-produzione; nel primo caso si tratta di un accordo nel quale un’impresa affida ad un’altra l’esecuzione di una parte del proprio processo produttivo per consentire lo sfruttamento delle condizioni più favorevoli. Anche il subappalto e la coproduzione sono accordi tra imprese, contratti che garantiscono lo sfruttamento delle migliori condizioni produttive.

Negli accordi di marketing si ricorda il franchising ossia quella collaborazione continuativa tra due parti nella quale una (l’affiliante) concede all’altra (l’affiliato) giuridicamente ed economicamente indipendente di utilizzare la propria formula commerciale (Immagine) nell’interesse reciproco delle parti. Il franchising internazionale può essere di prodotto, di servizi, di marchio commerciale.

La conseguenza più evidente di questo scenario è che da qualche anno, l’economia mondiale è sottoposta ad un processo di globalizzazione dei mercati e della concorrenza a carattere delocalizzativo tramite imprese rete multinazionali e filiere produttive internazionali e contemporaneamente si assiste a forti e continui processi di concentrazione della proprietà d’impresa il tutto in un contesto di speculazione finanziaria.

L’alto livello di conoscenza tecnologica e scientifica rende indispensabile ormai un legame sempre più stretto tra i vari settori delle imprese di ogni paese; lo sviluppo dei mezzi di comunicazione e di trasporto, inoltre, annullando di fatto le distanze tra i diversi paesi fanno si che le imprese si trovino a considerare il mercato internazionale nella sua globalità. Se a ciò si aggiunge la riduzione di tutti i dazi doganali che incentivano lo scambio di beni tra i vari paesi e la notevole trasformazione dei processi produttivi che ha portato alla necessita di passare da una produzione con elevato uso di manodopera (labour-intensive) a un modello industriale basato sui capitali materiali (cioè impianti e attrezzature, capital-intensive) e con un elevato aumento dei costi destinati al capitale immateriale, come l’informazione, la ricerca e lo sviluppo, si comprende che per l’impresa capitalistica competere in un sistema globale significa sostenere costi fissi molto elevati, e trovare il modo per recuperarli, anche perché i costi variabili sono, ormai, economicamente superati. E’ allora indispensabile avere partners internazionali che possono contribuire ad ammortizzare i costi fissi e con i quali definire strategie che permettono di massimizzare la redditività d’impresa attraverso la compressione del costo del lavoro diretto e indiretto e la riduzione dell’imposizione fiscale e tributaria.

L’innovazione tecnologica, l’omogeneizzazione mondiale dei bisogni dei consumatori, la diminuzione delle barriere doganali e la trasformazione produttiva sono senza dubbio tra le principali motivazioni di questo nuovo processo che sta ormai interessando il mercato mondiale. La verità è che l’imprenditore internazionale attraverso le multinazionali, il commercio estero, gli investimenti diretti esteri, è alla continua ricerca di sempre nuovi mercati di sbocco ma soprattutto di nuovi mercati di incetta a basso costo della risorsa umana, il lavoro, e delle materie prime garantendo il capitale nelle aree che si prestano ad isole felici e paradisi fiscali.

La generalizzazione della produzione flessibile, con quelle che sono le sue esigenze nei termini di vicinanza tra coloro che fanno le ordinazioni e i fornitori di pezzi, di semiprodotti e di servizi, ha lo stesso peso sulla scelta della localizzazione a scapito dei paesi a medio sviluppo, in particolare, ad esempio, di quelle industrie dei Balcani e dell’Est Europeo in cui il basso costo del lavoro si associa a livelli medio-alti di specializzazione della manodopera, ivi comprese certe industrie a impiego intensivo di manodopera. Questi stessi fattori spiegano la marginalizzazione non solo di gran parte dei paesi in via di sviluppo ma dei paesi soprattutto dell’Europa centro-orientale, poi dell’Africa mediterranea. Le opportunità di delocalizzazione della produzione in direzione dei paesi a salario molto basso, rese possibili dalla liberalizzazione degli scambi pressoché completa, si tramutano per molti paesi dell’Europa dell’Est o anche parti di interi continenti (essenzialmente l’Africa) soltanto in assoluto movimento di mondializzazione del capitale, provocando un nuovo colonialismo nella forma di marginalizzazione anche degli stessi processi finanziari.

Il processo di internazionalizzazione fondato inizialmente sulle sole esportazioni si è ampliato negli anni fino a diventare un’insieme di attività organizzate, quali la progettazione del prodotto, la localizzazione delle produzioni, il marketing e la commercializzazione. Infatti “mentre una volta chiamavano esportazione una cosa che altro non era che la vendita in un mercato più ampio, ma in genere ignorando quasi del tutto i bisogni di questi altri consumatori e non localizzando, se non in superficie, i nostri prodotti, oggi si chiama esportazione un insieme di operazioni che partono dalla conoscenza dei bisogni, passano per un’analisi dei costi di prodotto, di struttura ed accessori e si concludono con un bene/servizio che ottimizza tutti i fattori....” L’internazionalizzazione è definita “l’insieme delle operazioni che un’azienda fa per internazionalizzarsi, ma per quanto ci riguarda internazionalizzazione vuol dire considerare di avere fattori e clienti nei posti migliori in tutto il mondo, non solamente nella nostra nicchia” [11] . Si tratta in sostanza di una delocalizzazione del processo produttivo. E’ chiaro che quando un’impresa intraprende un processo di internazionalizzazione subirà la pressione dei concorrenti non solo del mercato interno ma anche di quello estero.

Occorre, quindi, tenere presente che “il paese che ci interessa ha: un ampio mercato, l’accesso ad un mercato regionale, un basso costo del lavoro, una manodopera esperta, fattori produttivi eccellenti (costo delle materie prime, affitti, elettricità, altri fattori produttivi), basse tasse e la possibilità di usufruire di incentivi governativi. Tutti questi punti potranno fornirci indicazioni sia sul dove investire che sul come ottenere il profitto che l’azienda si aspetta dall’investimento” [12] . In questo senso “la risposta teorica di una parte della dottrina economica ed economico-aziendale asserisce che, date alcune condizioni economiche, sociali e tecniche, esiste, per quella determinata unità produttiva, una localizzazione “ottimale” o quanto meno “più soddisfacente” delle altre, anche se essa è di difficile individuazione. Esiste una seconda tradizione delle teorie di localizzazione il cui fondamento sta nell’esplicita considerazione dei costi di trasporto” [13]. Si deve considerare, però, che vi sono altri fattori che incidono sulla decisione della localizzazione ottimale: si intende parlare delle infrastrutture industriali, generiche e specifiche, degli inputs di produzione, del lavoro e della popolazione, i servizi di interesse industriale, i fattori riguardanti il mercato misurati dall’estensione del mercato locale e regionale e dal livello della sua concorrenza ed infine dalle condizioni di insediamento per la popolazione.

Si arriva così alla realizzazione dell’”impresa globale” che considera il mercato globale nel suo intero; la differenza tra questo nuovo tipo di impresa globale e l’impresa multinazionale consiste soprattutto nel fatto che mentre la prima valuta il mercato internazionale come composto da tutti i mercati degli altri paesi senza distinzione, l’impresa multinazionale invece tende a mantenerli separati. Il processo di internazionalizzazione produttiva comporta, quindi, una significativa revisione delle scelte di localizzazione dell’impresa e quindi anche un cambiamento nello scambio delle merci. Ma è allora lecito chiedersi se gli investimenti all’estero favoriscono o meno il commercio. Dagli studi delle realtà produttive dei vari paesi è risultato evidente che gli investimenti diretti esteri crescono di fatto con il commercio internazionale e che in sostanza i due fenomeni sono intrecciati fra loro. La crescita delle imprese multinazionali all’estero infatti contribuiscono alla conoscenza dei mercati ed accelerano quei processi che solo con il commercio internazionale sarebbero stati molto più lenti.

 

2.2. Le forme di concentrazione

Negli ultimi mesi si è assistito al moltiplicarsi di concentrazioni industriali, bancarie e commerciali in tutti i paesi a capitalismo avanzato. In sostanza si è reso necessario attuare delle alleanze tra le imprese che hanno portato a sempre maggiori concentrazioni delle stesse [14]. Inoltre, la concentrazione può essere intesa sotto vari punti di vista [i] .

A fronte dei processi di internazionalizzazione economica e ai processi di delocalizzazione produttiva, si assiste nei più importanti poli capitalistici a continue fusioni, acquisizioni e concentrazioni finanziarie ed industriali che spesso assumono la forma di processi a carattere nazional-capitalistico alla ricerca di spazi concorrenziali. Nella quasi totalità dei casi di concentrazione della proprietà si invoca l’efficienza e la competitività che si traduce in drastiche riduzioni del personale, in esternalizzazioni di fasi del ciclo che producono lavoro nero, precario e flessibile, in condizioni vessatorie per i fornitori ed in genere in forme di redistribuzione tutte favorevoli al profitto.

Se attraverso il coefficiente di concentrazione territoriale si analizza il livello di concentrazione territoriale del sistema imprenditoriale italiano, si evince dal Graf. 19 come la concentrazione [15] di imprese al Nord sia più elevata soprattutto nel settore industriale, mentre, invece al Centro e al Sud pur risultando inferiore al Nord è maggiormente evidenziabile una concentrazione del settore terziario rispetto a quello industriale.

Il Graf.20 invece mostra chiaramente la forte concetrazione di addetti nel settore industriale soprattutto nelle regioni del Nord Italia; infatti i valori più elevati si riscontrano in Lombardia (28,74), in Veneto (11,21) ed in Piemonte (12,9); le regioni del Centro-Sud evidenziano maggiori livelli di concentrazione territoriale per i servizi, con un indice di concetrazione per il terziairo molto alto nel Lazio (vicino al 25%).

Se si analizza più in generale la situazione europea, si nota che le imprese sono più propense a fondersi o ad acquisire imprese al di fuori dei confini dell’Unione Europea, anche se le regole e i metodi per effettuare queste operazioni variano da paese a paese. Ad esempio la Francia è risultata negli ultimi anni il principale compratore di acquisizioni di imprese, in termini di controlli di compartecipazioni estere, con un saldo attivo di 22 miliardi di dollari tra il 1990 e il 1991: anche la Svezia, la Svizzera, la Germania e i Paesi Bassi hanno adottato la stessa politica delle aziende francesi; la Gran Bretagna invece è il mercato europeo più semplice da conquistare. Ad esempio la Nissan ha trasferito il suo impianto di assemblaggio nel Regno Unito, mentre l’ICL è stata acquisita dalla Fujitsu con lo scopo di incrementare la sua quota di mercato dei computer, anche le alleanze tra la Rover e la Honda e tra la Volkswagen e la Suzuki sono nate con l’obiettivo di migliorare le performance reddituali e produttive in cambio dell’accesso al mercato britannico e a quello tedesco.

L’apertura dei mercati dell’Europa dell’Est ha fortemente condizionato le politiche adottate dalle imprese europee. Va ricordato che i paesi maggiormente coinvolti sono: la Cecoslovacchia, la Polonia, l’Ungheria e l’Ex Unione Sovietica. Infatti le stesse fonti imprenditoriali evidenziano che “l’Europa la sentiamo ogni giorno più vicina non tanto per la sensazione di sentirsi nella casa comune o ancora per il progetto politico di unità culturale, ma per il fatto di riconoscere le stesse strutture economiche e finanziarie in Francia come in Germania e in Spagna e fra poco anche in Ungheria, Polonia e nei paesi ex-Comunisti, disposti ad accogliere velocemente i concetti del mercato libero e ad attrarre capitali stranieri”  [16] .

La notevole concentrazione delle grandi imprese statunitensi è dovuta, nella maggior parte dei casi, ad intensi processi di fusioni e alle acquisizioni. Dall’inizio del secolo si sono avuti tre picchi nei suddetti processi. Il primo si è avuto tra il 1897 e il 1905: ogni anno 352 aziende scomparvero a causa di processi di fusione, raggiungendo il limite massimo nel 1898, quando furono assorbite 1.208 imprese; nella seconda metà degli anni’20 si registrò il secondo picco, tra il 1925 e il 1929 si accorparono quasi 4.500 imprese [17]. Il terzo picco si ebbe tra il 1955 e il 1968; in questi anni 1.114 imprese furono assorbite e sempre più aziende preferirono acquistarne di già esistenti piuttosto che crearne di nuove. Il processo di fusione subì una battuta di arresto dopo le crisi petrolifere del 1974 e del 1979; a metà degli anni’80 venne effettuato un numero crescente di fusioni anche tra aziende di grandi dimensioni; questi ultimi anni sono fortemente caratterizzati da numerose acquisizioni estere causate dalla maggiore internazionalizzazione delle attività di impresa. Tale fenomeno è comune sia alla realtà statunitense sia alle realtà imprenditoriali europee e asiatiche e come si vedrà in particolare nel prossimo numero della rivista Proteo dove questa analisi-inchiesta alla sua Quarta Parte toccherà in maniera approfondita questi temi, i processi di concentrazione accelerata che stanno attraversando tutti i maggiori poli capitalisti significano un’economia mondiale sempre più nelle mani di poche multinazionali che dispongono di un dominio illimitato capace di controllare il mondo, alla faccia della tanto decantata democrazia economica.

 

2.3. Il commercio internazionale

Già a partire dall’osservazione del Graf.21 è evidente che negli ultimi quindici anni il commercio mondiale è più che raddoppiato, passando da circa 2.000 miliardi di dollari nel 1981 a oltre 5.000 miliardi nel 1996. Anche lo scambio di merci registra una forte crescita a partire dal 1986 , pur se nei primi anni ’90 si registra una diminuzione che diventerà variazione negativa nel 1993 dello 0,5% (cfr. Graf.22).

Dalla Tab.18 si può notare il calo accentuato, negli ultimi anni del prezzo delle materie prime, in particolare del petrolio; inoltre nel 1998 si hanno variazioni dell’import e dell’export dei paesi industrializzati molto più contenute rispetto a quelle dell’anno precedente; la crisi asiatica dell’ultimo anno è particolarmente evidente anche dall’analisi del commercio con l’estero che mostra un serio calo dell’esportazione dell’area asiatica, ma in particolare un vero tracollo delle importazioni.

L’internazionalizzazione dell’economia e l’apertura dei mercati fanno sì che nella maggior parte dei casi l’impresa entra a far parte di un mercato posto a migliaia di km dal suo sito, ma questa situazione ha però accentuato la posizione critica dei paesi più poveri, che si vedono costretti a sottostare a condizioni di cambio e di scambio vessatorie, incrementando ulteriormente il divario esistente con i paesi più ricchi. I processi di internazionalizzazione hanno così creato uno scenario internazionale fortemente condizionato da tre grandi poli industriali: l’UE dell’euro, gli USA con lo spazio NAFTA (North America Free Trade Agreement) o area del dollaro, ed infine l’Asia, il Giappone e area dello Yen.

I paesi principali che sono coinvolti anche nello scambio internazionale risultano quindi sempre essere gli Stati Uniti, il Giappone e l’Unione Europea; infatti come si può osservare dal Graf. 23 riferito al 1997, queste tre aree da sole assorbono quasi i 3/5 delle importazioni e delle esportazioni mondiali.

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E’ interessante anche mostrare, per gli anni ’90, la propensione dei vari paesi all’esportazione (rapporto percentuale tra esportazioni di beni e servizi e PIL a prezzi costanti). Il Graf.24 mostra come l’Unione Europea realizzi valori piuttosto elevati negli anni considerati fino ad arrivare nel 1996 al 33,5%, mentre gli Stati Uniti mantengono una percentuale sempre vicina al 10%.

Anche per il livello di penetrazione delle importazioni l’Unione Europea registra valori elevati. (cfr. Graf.25) che nel 1996 superano il 30%, mentre gli USA per lo stesso anno si attestano intorno al 14%.

3. Ancora sui processi di internazionalizzazione attraverso l’analisi degli investimenti diretti esteri

Come si è già visto nel numero precedente di Proteo, in particolare per l’assetto produttivo USA all’inizio degli anni ’70 il processo di internazionalizzazione ha portato alla nascita anche all’estero, di modelli nazionali di imprese in concorrenza con quelli sviluppatesi negli Stati Uniti. Il cosiddetto “boom reganiano” che ha caratterizzato l’economia del mondo negli anni ottanta, infatti, ha cominciato a mostrare i primi cedimenti dal 1989 ed ha avuto una ulteriore contrazione produttiva nel 1990-91. Anche il Giappone, la cui economia era molto legata a quella statunitense ha risentito della crisi, ed è iniziata una lunga fase di recessione che solo nel 1996 ha cominciato in parte la ripresa. L’Europa, invece, non ha risentito immediatamente della crisi americana, anche grazie alla riunificazione delle due Germanie e la conseguente riunificazione monetaria (la conversione favorevole dei marchi orientali in quelli occidentali fece aumentare la domanda di beni di consumo con effetti favorevoli su tutta l’Europa).

La conferma di ciò si ha anche dalla tendenza crescente della percentuale degli investimenti esteri degli USA (cfr. Graf.26) verso l’UE.

Nel 1992 si ha l’uscita della lira e della sterlina dallo SME; nel 1993 mentre il prodotto interno lordo degli USA saliva rapidamente (nel 1994 ha superato il 4%), in Europa si registrava un’espansione minima. Dal 1994 però si è avuta una ripresa (la crescita del PIL si è avvicinata al 3%) che ha riportato l’Europa al fianco degli Stati Uniti. Alla fine dell’anno 1996 e all’inizio del 1997 inizia la cosiddetta “grande crisi asiatica” che ha avuto gravi ripercussioni economiche in tutto il mondo. Si è trattato di una serie di crisi economico-finanziarie, aziendali, politiche, valutarie e di Borsa che, iniziate nei paesi dell’Estremo Oriente si sono poi diffuse anche negli Stati Uniti, in Francia, in Germania e nel Regno Unito e un po’ in tutta Europa.

Attualmente si consolida la tendenza ad una separazione fra due grandi aree: da un lato gli Stati Uniti e l’Europa occidentale che si caratterizzano per crescite moderate ma abbastanza continue, e dall’altro aree più a rischio quali l’America Latina, l’Europa orientale e i paesi asiatici che registrano tassi di crescita più elevati ma soggetti a perturbazioni critiche molto accentuate.

Interessante , ad esempio, è il ruolo che nei processi europei di internazionalizzazione produttiva ha assunto l’Europa dell’est. Ad esempio, prendendo come riferimento il 1994, anno per il quale i dati sono disponibili a livello disaggregato, distinguendo gli investimenti di tipo equity da quelli non equity ,si nota (vedi Tab.19) il ruolo importante e diffuso di tutti i paesi dell’est europeo che assumono rilevanza strategica nei processi europei di internazionalizzazione. Gli IDE europei infatti, di quest’area aumentano significativamente nel tempo, sia in entrata sia in uscita, in termini di stock e di flussi.

Il 1994 presenta un totale di 4342 milioni di dollari di flussi in uscita e 520 in entrata. Oltre l’84% delle attività è rappresentato dagli investimenti di tipo equity, quindi da acquisizioni azionarie al capitale sociale; gli investimenti di tipo non equity invece hanno più successo in termini di uscita, raggiungendo l’85% del totale. L’interesse da parte dell’Europa per quest’area ha finalità geopolitiche e geoeconomiche per un controllo complessivo su tutti i paesi ricchi di materie prime e di manodopera specializzata e a basso costo. Particolarmente importanti risultano, dall’osservazione dei dati della tabella, i mercati di frontiera e di cerniera della cosiddetta Eurasia, come la Polonia e l’Ungheria, che oltre a posizionarsi tra i migliori investitori, rappresentano delle buone mete per localizzare gli investimenti degli altri paesi dell’Unione Europea.

E’ in questo contesto che si sta verificando, inoltre, un’evoluzione di nuovi sistemi di coinvolgimento estero da parte delle multinazionali ed in genere delle imprese; si intende parlare in particolare degli investimenti esteri diretti a partecipazione maggioritaria ed anche della vendita di licenze e brevetti. Analizzando i flussi di investimenti diretti dall’estero, sembra potersi confermare la teoria che esista una relazione diretta tra costo del lavoro, produttività del lavoro e afflusso di investimenti. Infatti, laddove il costo del lavoro è alto e la produttività del lavoro mostra tassi ridotti, i movimenti di capitale evidenziano valori esigui, mentre nei paesi in cui la produttività del lavoro elevata ed è accompagnata solitamente da costo del lavoro basso, meglio se anche si tratta di lavoro a scarso contenuto di diritti ma a medio-alta specializzazione (vedi i paesi dell’Est Europeo), i rinnovi degli investimenti diretti dall’estero, allora, risultano considerevoli. L’Italia si colloca in una posizione media sia per quanto riguarda la produttività del lavoro sia per gli afflussi di investimenti, a conferma della relazione diretta tra le i due fenomeni. Anche il regime e la pressione fiscale hanno una rilevanza notevole sul movimento degli IDE. Se, infatti, si mette a confronto l’imposizione fiscale media dei diversi paesi con l’afflusso medio degli investimenti diretti esteri nello stesso periodo, si può notare in maniera evidente una relazione inversa tra afflusso di investimenti e pressione fiscale.

Comunque, considerando i movimenti globali in tutte le aree internazionali, si nota che gli investimenti diretti esteri sono sempre cresciuti negli ultimi trenta anni anche se in modo discontinuo (cfr.Graf.27); la continua ascesa ha subito una diminuzione all’inizio degli anni ’90 per poi risalire dal 1993. I flussi di investimenti diretti all’estero hanno raggiunto i 380 miliardi di dollari nel 1997 contro i 19 miliardi di dollari ad inizio degli anni ’70. I flussi di investimento in entrata hanno superato i 250 miliardi di dollari sempre nel 1997, a fronte dei 16 miliardi di dollari a inizio degli anni ’70.

La Tab.20 mostra l’evoluzione da metà degli anni ’80 nell’origine degli investimenti esteri in entrata per alcuni importanti paesi, evidenziando significativi mutamenti nella composizione geografica.

 

E’ interessante mostrare quale sia la composizione settoriale degli investimenti mondiali distinti per investimenti in entrata e investimenti in uscita (cfr. Graff.28, 29) per evidenziare il ruolo sempre più d’attrazione giocato dai comparti del terziario.

Gli investimenti diretti dei paesi industrializzati si è rivolta in larga parte verso nazioni appartenenti alla stessa area (si passa dal 67% negli anni ’70 al 73,6 negli anni ‘90); la posizione degli USA come paese investitore (si passa da circa il 50% a circa il 37%) si è molto ridotta a favore dei paesi europei (che passano dal 29% nel 1970-75 al 38,2% nel 1990-95) e del Giappone (dallo 0,7% al 9,7%). Circa il 40% degli investimenti diretti complessivi sono rappresentate da acquisizioni di tipo industriale mentre sono aumentati molto gli investimenti nel settore dei servizi (nel 1995 rappresentavano circa il 50%).

In particolare per i paesi europei (Cfr.Tab.21) anche nel 1997 si può osservare un forte scambio di flussi di IDE intereuropei.

Anche dall’analisi dei valori in stock (vedi Tab.22) gli attori principali si confermano i Paesi Bassi, il Belgio, Francia , Germania ed il Regno Unito.

Si può in conclusione sostenere che il fenomeno negli ultimi anni ha raggiunto un’ottima dimensione e la sua evoluzione è ancora in espansione anche se gli attori principali sono sempre gli stessi: i Paesi Bassi, il Regno Unito, la Francia e la Germania; la maggior parte dei movimenti è dovuta a gli investimenti di tipo equity (partecipazione azionaria al capitale sociale) seguiti da quelli non equity ed infine troviamo gli utili reinvestiti. Se si analizza da dove provengono e dove sono diretti principalmente gli investimenti diretti europei si nota negli ultimi anni che una quota sempre particolarmente rilevante, sia per gli IDE in entrata sia per quelli in uscita, riguarda gli scambi intereuropei e quelli con gli USA.

L’analisi settoriale sui dati in stock riferiti al 1996, evidenzia, tra i settori più dinamici il manifatturiero, in cui l’Europa investe all’estero circa un terzo del totale europeo di IDE e riceve dall’estero oltre un quarto del totale; il settore dell’agricoltura, invece, risulta quasi assente, evidenziando delle percentuali in termini di attività e di passività sempre bassissime. Negli ultimi anni il settore dei servizi sta assumendo molto importanza nell’ambito dell’internazionalizzazione produttiva; infatti nel 1996, la quota degli investimenti diretti in questo settore raggiunge le percentuali più alte rispetto agli altri settori; tra questi sempre più importanza assumono gli IDE in attività finanziarie.

A causa della crisi che nel 1998 ha colpito i paesi asiatici questi ultimi hanno dovuto effettuare delle correzioni di circa 90 miliardi di dollari degli squilibri dei conti all’estero, ai quali è corrisposto un incremento del disavanzo corrente degli USA di 80 miliardi di dollari e un decremento di quasi 20 miliardi di dollari dell’attivo dei paesi dell’UE, mentre è aumentato ancora l’avanzo del Giappone anche per un forte ribasso della domanda interna. Sempre analizzando la "Relazione del Governatore della Banca d’Italia all’Assemblea Generale dei Partecipanti" del 31 maggio 1999, si evince che oltre alle precedenti variazioni dei saldi del conto corrente, nel 1998 è fortemente cambiata la composizione geografica dei flussi internazionali dei capitali privati. Da evidenziare infatti il brusco rallentamento dei finanziamenti netti (circa 60 miliardi di dollari nel 1998) indirizzati ai paesi emergenti, mentre l’andamento dei corsi azionari nei mercati finanziari dei paesi a capitalismo avanzato sono stati ovunque in aumento ed i tassi di interesse a lungo termine sono ulteriormente diminuiti rispetto al 1997 attestandosi ad un livello più basso del 4% medio complessivo. La crescita sostenuta dei mercati azionari ed obbligazionari, l’andamento al ribasso dei tassi sul mercato monetario hanno fatto sì che si è potuta liberare una forte liquidità internazionale la quale però è stata indirizzata soltanto verso la crescita dei paesi a capitalismo avanzato creando ulteriori difficoltà ai paesi emergenti ed ai paesi in via di sviluppo in genere.

E’ in questo contesto che si spiega anche, e soprattutto, economicamente la guerra della NATO contro la Jugoslavia, una guerra dal profondo significato geoeconomico e geopolitico come scontro fra i due poli imperialisti USA e UE.

La guerra in Jugoslavia, con le sue premesse e i suoi esiti, attraverso l’affermazione dell’egemonia militare americana segna la fine del sogno della diversità europea rispetto agli USA. L’Europa non può diventare un polo di sviluppo a connotati economici e sociali che si riferiscono al modello renano-nipponico. Lo svolgersi, anche diplomatico, e gli esiti della guerra impongono il modello unico neoliberista, con un capitalismo sempre più accanito, selvaggio e guerrafondaio sia nelle relazioni politiche, economiche verso i paesi più poveri, sia verso quelli a medio livello di sviluppo, sia nelle politiche economiche interne dei diversi paesi europei. Ciò però significa nel contempo l’acutizzarsi dello scontro egemonico fra i due grandi poli imperialisti. Trionfa, almeno momentaneamente, il modello imperialista americano che ora è maggiormente in grado di unificare il tipo di politica imperialista al modello di capitalismo anglosassone, ma ciò non significa certo rottura della politica multipolare imperialista realizzata con atti continui di guerra economica che assumeranno sempre più la forma di guerra guerreggiata per l’affermazione delle gerarchie.

 

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[1] Annuario 1997, ISTAT

[2] Nei grafici è evidenziato il Risultato rettificato a nuovo; si ricorda che con questo termine si intende il risultato d’esercizio depurato di rivalutazioni, svalutazioni, stanziamenti e prelievi, riportato a nuovo dopo le attribuzioni deliberate dalle assemblee dei soci (Mediobanca).

[3] Si ricorda infatti che il valore aggiunto rappresenta il quantum che va a remunerare il fattore produttivo lavoro e il fattore produttivo capitale e che il margine operativo lordo è ottenuto dalla sottrazione dal valore aggiunto del costo del lavoro. Pertanto la sostanziale stabilità del Margine Operativo Lordo denota che non ci sono state tendenze redistributive a favore del fattore lavoro

[4] Banca d’Italia Assemblea Generale dei partecipanti, tenuta a Roma il 30/05/1998. Pag. 85

[5] “La definizione ufficiale di piccola e media impresa è quella stabilita dalla Commissione Europea nel 1993 e corrisponde ad un’impresa con meno di 250 addetti. Note in un primo momento come imprese satellite per la fornitura di componenti alle grandi imprese o come evoluzione di attività artigianali, le piccole e medie imprese, nel corso del tempo, si sono imposte come entità produttive autonome, capaci di dialogare non solo con il mercato interno ma anche con quello estero.”, L’Italia che produce, SIPI, Roma, op.cit. 1996.

[6] Si ricorda che “Il manuale di bilancia dei pagamenti del FMI definisce “diretto” l’investimento fatto per acquisire una “voce effettiva” (o interesse durevole) in un’impresa (direct investment enterprise) che opera in un paese diverso da quello in cui risiede l’investitore. Gli investimenti diretti assumono tre forme principali:

o acquisizione di partecipazioni azionarie o di altro tipo al capitale d’impresa esterna (equity);

o reinvestimento degli utili non distribuiti da parte dell’impresa estera;

o conferimento di altri capitali non-equity (prestiti intersocietari).

Il FMI include nel novero delle direct investment enterprise solo quelle società per le quali l’investitore acquisisce almeno il 10% delle azioni ordinarie o del potere di voto, ammettendo però la possibilità di utilizzare criteri complementari, atti a identificare la presenza o meno di un interesse durevole tra l’investitore e la controparte estera. Le direct investment enterprises sono ulteriormente suddivise in associates (società consolidate di cui l’investitore possiede fino al 49%), subsidiaries (società controllate, 50% o più) e branches (filiali, 100%)”. Banca d’Italia, Assemblea Generale Ordinaria dei Partecipanti, tenuta a Roma il 30/05/1998. Pag.101, 102.

[7] S. Mariotti, R. Caminotti, Italia Multinazionale, FrancoAngeli, Milano, 1996. Pag.40.

[8] C. Saccani, I supporti alle imprese di fronte al cambiamento, Impresa & Stato N.31 Rivista della camera di commercio milanese, pag.3.

[9] G. Biscrini, Principi e tecnniche di internalizzazione, Nuova serie: n. 1/96, pag. 97.

[10] La joint venture può essere contrattuale e societaria; nel primo caso le imprese interessata, che mantengono una propria a utonomia economica egiuridica, firmano un contratto di collaborazione con limitazione di tempi e di spazi; nel caso della joint venture societaria invece si costituisce una nuova società di capitali con resonsabilità limitata. Si possono avere allora joint venture con acquisizione di partecipanti internazionali, con creazione di un’impresa in un paese terzo, con crezione di una società mista con partner locale pubblico o con creazione di una join venture aperta a partner e azionisti privati.

[11] G. Biscarini, Principi e tecniche di internazionalizzazione, Nuova serie: N°1/96 I quaderni della formazione. ICE, pag. 6 e 7.

[12] G. Biscarini, Principi e tecniche di internazionalizzazione, op.cit., pag.105, 106.

[13] G. Panati, G. M. Golinelli, Tecnica Economica Industriale e Commerciale, Volume I. Nis. Roma 1995. Pag. 296.

[14] “In termini economici la concentrazione viene definita come un processo di diffusione del controllo di tutta o di una quota rilevante dell’attività di un settore o di un intero comparto di attività da parte di un numero ristretto di imprese.”, R. Guarini, F. Tassinari, Statistica Economica, Il Mulino, Bologna 1993. Pag.279.

[i] Concentrazione tecnica che “indica il grado di disparità dimensionale esistente tra gli impianti di un determinato settore, quindi esprime la misura in cui gli impianti di maggiori dimensioni prevalgono, in termini di peso occupazionale, sulla massa di unità produttiva di ampiezza ridotta; come concentrazione economica rappresenta “il nesso che lega il numero di imprese e il numero di unità locali; il rapporto tra queste variabili, può essere assunto come misura approssimata del grado di dipendenza economica delle unità di produzione dai relativi centri decisionali”, concentrazione finanziaria “viene riferita alle imprese che producono beni similari o collegate da partecipazioni azionarie. Sotto questo aspetto la concentrazione esprime il grado di potere economico presente nel sistema, al di la delle convenzionali suddivisioni in classi di attività che interessano il contesto strutturale” ed infine come concentrazione territoriale che “esprime il grado di diffusione delle diverse attività sul territorio, quale risulta dall’interrelazione dei fattori che caratterizzano l’area dal punto di vista geofisico, infrastrutturale e più in generale economico".

[15] Il Coefficiente di concentrazione territoriale, simile nella costruzione all’indice di localizzazione o specializzazione territoriale serve per confrontare la distribuzione relativa degli addetti alle unità locali in un determinato ramo o classe di attività economica con la distribuzione relativa del totale degli addetti alle unità locali in una determinata regione.

[16] Commercio Internazionale, n.3/97, pag.15.

[17] "La grande crisi annunciata dal crollo di Wall Street del 1929 chiuse la seconda ondata di fusioni”, P. Dicken, P. Lloyd, Nuove prospettive su spazio e localizzazione, FrancoAngeli, Milano, 1993. Pag. 110.