Le classi nel mondo moderno. La complessità del conflitto (Seconda parte)

Alessandro Mazzone

Supponiamo per prima cosa di avere: da una parte il lavoro vivo, valore d’uso della forza lavoro, acquistata come ogni altra merce (e, per clausola di astrazione, al suo valore pieno, che varia naturalmente secondo le condizioni storico-sociali della sua riproduzione, compreso dunque il costo della sua formazione e il mantenimento della prole, senza di che il lavoro vivo cesserebbe presto di esistere). Dall’altra parte, i mezzi di produzione, separati dal lavoratore, che perciò non ha altro da alienare che la sua forza lavoro. Questa separazione - risultato, nel mondo moderno, di un lungo e doloroso processo di espropriazione dei produttori diretti, contadini e artigiani - è il primo elemento concettuale che permette di costruire la nozione di “classi” [1]. Infatti, abbiamo con ciò dall’altra parte i detentori dei mezzi di produzione [di qui innanzi: MP]: i quali dunque disporranno di un potere di comando sulla forza-lavoro [di qui innanzi: fl], poiché essa potrà operare, essere effettivamente lavoro vivo, soltanto se e in quanto essi la vogliano utilizzare.

Ma possiamo noi, con questo solo elemento, dire: ecco le “classi”, da una parte i lavoratori, dall’altra i detentori dei MP? No. La clausola di astrazione, introdotta da Marx in 1,5,2, importa per ora soltanto la continuità nel tempo del RP attraverso le diverse condizioni date, e solo dal lato dei lavoratori. Essa vuol dire che essi potranno sussistere, formarsi e riprodursi - ecco tutto. Ma ancora non sappiamo né come il RP funzioni, né come esso si produca [2], né come il suo contenuto si modifichi nello sviluppo del processo di produzione - che peraltro, come sappiamo, è in definitiva processo di produzione e riproduzione di uomini, mediante il lavoro nella natura. Abbiamo dunque finora soltanto, per così dire, una linea divisoria ideale, che separa due spazi. E dai due lati di questa ideale linea divisoria non abbiamo ancora (come molti, invece, hanno creduto) “capitale” e “lavoro” nel loro divenire, modificarsi, svilupparsi secondo leggi interne, ma soltanto il dato ogni volta immediatamente presente, e che non possiamo ricondurre al processo complessivo in cui le classi effettivamente si formano e operano. Non lo possiamo, perché non abbiamo gli elementi per collegare il “dato” al “processo”. Non abbiamo, in altre parole, una forma di movimento.

La forma di movimento è quella del capitale stesso. Esso non è soltanto rapporto di capitale tra capitalisti e salariati, ma processo del capitale.

Innanzitutto: in questo processo sono MP tanto gli oggetti e mezzi di lavoro in genere (non solo attrezzi e macchine, ma edifici, mezzi di trasporto e comunicazione, terreni coltivabili, mari in cui pescare, ecc., la Terra in generale come locus standi e ambito del lavoro umano - cfr. 1,5,1) [3] - quanto anche i lavoratori stessi, che dobbiamo supporre disponibili ai capitalisti, acquisibili mediante denaro (salario). La forza-lavoro è acquisibile sul mercato. Quanta e quale ne occorra dipenderà in ogni istante dai MP, che hanno forma di capitale, e dal grado di produttività del lavoro, ossia di massa di MP che una certa quantità di lavoro può mettere in moto, e venirne dunque assorbita in un tempo dato. In questo senso, Marx scrive che, supposta produzione tutta capitalistica, il moto del capitale è la variabile indipendente, mentre la riproduzione della forza-lavoro, cioè dei lavoratori stessi, è la variabile dipendente.

Non corriamo a dire: “si vede: disoccupazione, lavoro a tempo...”. Dobbiamo andare più a fondo, costruire un modello di movimento e “vedere” concettualmente come la cosa avvenga. Possiamo però cominciare con qualcosa che è intuitivo, per noi che viviamo nel mondo capitalistico.

Ogni capitale deve percorrere un ciclo (1,21, inizio). Esso deve presentarsi dapprima sul mercato delle merci, come denaro (“capitale-denaro”) sborsato o impegnato che si scambia contro MP e f-l; poi uscire dalla sfera della circolazione e passare in produzione, dove i MP acquistati assorbono una massa proporzionale di lavoro vivo (e qui è “capitale produttivo”); poi tornare nella circolazione e realizzare il prodotto-merce (“capitale-merce”), il quale conterrà un incremento di valore realizzabile anch’esso in denaro. (La “formula generale del capitale” è perciò D-M-D’ - denaro, merce, denaro incrementato - cfr. 1,4,2). Senza l’incremento del D, il ciclo non avrebbe senso, il capitale non esisterebbe. Ogni capitale deve ciclare, e cicla costantemente, nelle tre forme (2, 1). Un capitale che non cicli è inconcepibile. Compiendo costantemente questo ciclo, il capitale si valorizza: il valore dei MP viene trasferito nei prodotti-merci pro-tanto [4], e ad essi si aggiunge un neovalore - poiché si aggiunge il nuovo lavoro vivo compiuto per trasformare MP (impianti, macchinari, materie prime ecc.) nel nuovo prodotto-merce. È ovvio che il neovalore dovrà essere superiore al valore pieno della f-l impiegata, altrimenti tutta l’operazione tornerebbe a riprodurre il valore-capitale iniziale puro e semplice [5]: esso si divide perciò in valore ricostituito e plusvalore, cui corrispondono “lavoro necessario” e “pluslavoro”; e la parte del capitale-denaro erogata per l’acquisto di forza-lavoro è detta capitale variabile, perché è lasola che, nel processo, e perché il processo abbia senso e continui, si deve e può incrementare.

Ricordato questo, poniamo ora per ipotesi che tutta la produzione sia capitalistica. (Questa ipotesi si fa per studiare il fenomeno nella sua forma pura, e infatti quel che vale per ogni capitale deve valere per tutti. [6]) Ora possiamo chiedere: quale è il processo del capitale?

Nessuna società può sussistere senza riprodursi: cioè, la produzione deve essere considerata nella sua continuità, come riproduzione. Nella nostra ipotesi, che tutta la produzione sia in forma capitalistica, avremo per ogni ciclo (p. es., un anno), un fondo di produzione: esso sarà costituito da quella massa di MP che, in determinate condizioni tecniche, organizzative e di produttività che il lavoro abbia acquisito, una determinata massa di f-l può mettere in moto, e venirne assorbita. Il fondo di produzione è una massa di cose: viene prodotto costantemente, e ha forma di capitale (capitale-merci da realizzare, p. es. macchine; oppure capitale-denaro da re-investire [7]; oppure, direttamente capitale produttivo esistente). E, inoltre, ci sarà anche un fondo di lavoro, ossia quella massa di beni destinati a tener in vita, ecc., ossia a riprodurre i lavoratori che devono sempre di nuovo erogare lavoro vivo. Questi beni, nella nostra ipotesi, avranno anch’essi forma di merci, anzi di capitale-merce dei capitalisti che tali cose producono; e saranno acquistati con denaro, ovviamente (massa dei salari). Ma è la massa di forza-lavoro, cioè la quantità di tempo di lavoro (e/o intensità traducibile in tempo, come sempre) quella massa che di volta in volta viene richiesta dal capitale nella sua riproduzione: - ossia, di volta in volta, si richiederà una massa di forza-lavoro adeguata e corrispondente ai MP da utilizzare per continuare il ciclo di valorizzazione del capitale. “La forza-lavoro è la forma... nella quale il capitale variabile esiste nel processo di produzione” (1,22,2).

Il fondo di lavoro, così, è cosa ben diversa dalla grandezza statistica detta “massa salariale”, sulla quale influiscono condizioni storiche, usanze di consumo e, soprattutto, rapporti di forza tra le classi. Invece, il fondo di lavoro, misurato com’è dal moto del capitale nella sua incessante valorizzazione, e necessario di volta in volta alla riproduzione costante del capitale sociale (ossia di tutti i capitali, p. es. di un Paese), dipende essenzialmente dal rapporto tra i MP in forma di capitali esistenti in istante dato, e la quantità di lavoro vivo necessaria per metterli in moto. (La qualità del lavoro vivo richiesto è determinata dallo sviluppo tecnico e dall’organizzazione del lavoro, che variano costantemente. “L’industria moderna non considera e non tratta mai come definitiva la forma di un processo di produzione” - 1,13,9. Corsivo mio)

Ad ogni ciclo D-M-D’ il capitale si accumula: tutto o parte del plusvalore viene incorporato nel capitale. Questo fenomeno è la base della concentrazione del capitale. Ossia, una massa sempre crescente di MP avrà la forma di capitale “Dal capitale si fa plusvalore, e dal plusvalore, capitale” (1,23, inizio). Se tutte le condizioni restassero uguali, l’incremento del capitale significherebbe incremento del numero dei lavoratori da utilizzare, “aumento del proletariato” (1,23,1). Ma - e anche questo è intuitivo per noi che viviamo nel c.d. capitalismo avanzato - le condizioni non restano uguali, e precisamente a cominciare dal rapporto tra la massa dei MP e la massa di f-l richiesta. Nel “modo di produzione capitalistico vero e proprio” vige per ciascun capitale la tendenza a ridurre relativamente la massa della forza-lavoro (misurata sempre in tempo e/o intensità riducibile a tempo) in rapporto ai MP messi in moto, cioè a ridurre relativamente il capitale variabile in rapporto al capitale costante.

Dunque si avrà contemporaneamente, se teniamo ora conto, primo, della effettiva diversità di durata del ciclo capitale-denaro / capitale produttivo / capitale-merce (e realizzo della merce in denaro) tra diversi rami della produzione, in regioni diverse ecc., e secondo, del diverso ritmo di innovazione nelle diverse branche e anche in imprese di una stessa branca, una attrazione di lavoratori disponibili sul mercato (“offerta di lavoro” nel linguaggio ufficiale), e una repulsione di lavoratori dal processo produttivo. In tempi di crisi, la repulsione prevarrà sempre (1,23,2, cfr. 3, 13 e 15). Essa prevarrà nelle branche di attività in cui il profitto realizzabile diminuisce relativamente ad altre, e che i capitali tenderanno ad abbandonare (cfr. 3,9); in quelle che diventano obsolete, come anche in quelle che oggi sono dette “mature”, cioè dove l’innovazione tende essenzialmente a perfezionare la manifattura del prodotto (“innovazione di processo”), senza incremento, ma anzi con decremento di f-l impiegata per unità di prodotto.

La centralizzazione del capitale “non è limitata, a differenza dalla concentrazione, dall’aumento assoluto della ricchezza sociale” (cioè, sempre nell’ipotesi di produzione totalmente capitalistica, dalla massa di prodotti d’ogni genere che hanno forma di capitale, e si accumulano via via nei capitali individuali) (1,23,2). (Terzo punto almeno in parte intuitivo oggi - le “acquisizioni” “fusioni”, inghiottimenti di capitali piccoli per opera dei grandi sono perfino nella stampa quotidiana). Ma essa “completa l’opera dell’accumulazione” (ivi) - cioè contribuisce alla repulsione di lavoratori dal processo.

Su queste basi, Marx distingue tre tipi di “sovrappopolazione” lavoratrice, sempre di nuovo, e in misura variabile, prodotta dal moto stesso del capitale. La sovrappopolazione fluttuante (lavoratori alternativamente “attratti” e “respinti”); quella stagnante (oggi diremmo: disoccupazione di lungo periodo); e latente, ossia quella massa di popolazione salariata potenziale (p. es., femminile, rurale) che l’avanzare stesso della produzione capitalistica mette in condizioni tali, da poter passare al lavoro salariato quando lo sviluppo lo richieda (1,23,4). Le illustrazioni che Marx offre (per es., in 1,23,5) sono naturalmente datate. Ma va ricordato che, se siamo ancor sempre al livello di astrazione del “processo di produzione del capitale”, si tratta però di leggi di movimento studiate e svolte “nella forma pura”, proprie dell’accumulazione capitalistica come tale. Perciò sarebbe assurdo volerle trasferire meccanicamente ai fenomeni senza gli “anelli intermedi” dell’analisi.

La “attrazione” di nuovi lavoratori nel processo del capitale (c.d. “offerta di lavoro”, che dovrebbe dirsi piuttosto “domanda” di reale lavoro, lavoro vivo, che il capitale fa), tende a diminuire relativamente nel tempo, in rapporto alla massa crescente di capitali operanti (cioè comprensivi sia di capitale costante che di variabile). Le due tendenze immanenti a ogni capitale - aumentare il capitale operante, costante + variabile, e diminuire il rapporto del variabile sul costante - operano poi nell’intreccio dei molti capitali, nella creazione di capitali nuovi in branche innovative, ecc. (cfr. 1,23,2).

Dato il livello di astrazione in cui sono sviluppate queste leggi di tendenza, è giusto anche chiedere su quale piano se ne possa vedere il funzionamento. La risposta non pare dubbia. Per quanto riguarda la forma di movimento e quindi la tendenza globale, di lungo periodo, si dovrà guardare al piano mondiale, attraverso il corso dei decenni. La tendenza secolare può essere enunciata così: produrre una massa crescente di ricchezza, di decrescente valore unitario, con - proporzionalmente alla crescita - sempre meno lavoratori. Ma quanto più ristretti saranno gli ambiti spaziali e temporali dell’analisi, tanto più si dovranno introdurre “anelli intermedi” per tener conto delle circostanze... che modificano l’operazione della legge generale” (1,23,4).

Bisogna tener conto del fatto che il processo reale, complessivo, non può esser “dedotto” dalle legalità del Modo di produzione. Se così fosse, il modello concettuale “MPC” non sarebbe affatto un modello, ma un “campione” di una serie di identici - il che non si dà in biologia, e tanto meno in storia umana. Nel processo complessivo compaiono, in contesti diversi, e si fanno valere, le determinazioni “pure”, le forma di moto della produzione capitalistica.

Soltanto quando siamo arrivati fin qui abbiamo la forma di movimento in cui la divisione in classi non semplicemente “c’è”, ma anzi: si produce e riproduce, e - come vedremo - si sviluppa (al livello di astrazione, per ora, del semplice “processo di produzione del capitale”). È importante, sia detto di passaggio, tener presente che questa espressione “processo di produzione del capitale”, che dà il titolo al Capitale I, al primo libro dell’opera intera, è un genitivo soggettivo, una specificazione del soggetto: e il soggetto che si produce, e di cui vediamo, in Capitale I, come si produce, è il capitale stesso. Entro il processo del capitale le “classi” producono e riproducono se stesse, e questo loro riprodursi è parte integrante del moto del capitale, della sua riproduzione e accumulazione. Non è una semplice opposizione, di qua “il capitale”, di là “il lavoro”: il primo non può esistere e valorizzarsi (accumularsi), senza il secondo; ma anche il secondo, il lavoro vivo, non può esistere ed attuarsi, in questo specifico rapporto di produzione, senza capitale che lo assorba. È un rapporto doppio, di funzionalità indispensabile e di conflitto immanente.

Ed è, ancora, un processo, la cui dinamica interna va verso la trasformazione di tutti i rapporti in rapporti mercantili e capitalistici, all’estensione di questi rapporti a ogni sfera, regione, ambito di vita e riproduzione degli uomini; questa stessa dinamica del processo di capitale va anche all’incremento incondizionato della produttività del lavoro umano associato - col limite del capitale stesso, però, in quanto la tendenza obiettiva all’aumento di produttività del lavoro sociale è subordinata allo “scopo limitato” della valorizzazione del capitale ogni volta esistente (3,15,2). Ancora: tramite le relazioni di scambio tra capitali il lavoro umano associato tende ad essere collegato e interrelato universalmente: e questo darà la base alla mondializzazione, di nuovo unione e conflitto di integrazione produttiva tra settori e regioni anche lontanissime nel globo (visibile oggi immediatamente in ogni supermercato) e segmentazione, innanzitutto del c.d. mercato del lavoro, dove la “libera circolazione” non esiste certo, e la mobilità è regolata in funzione del capitale esistente, locale e centralmente o finanziariamente integrato.-----

È insomma, solo a questa “altezza” della costruzione concettuale che abbiamo, ossia “vediamo” nel loro concetto, le classi come classi; o in altre parole, abbiamo uno strumento concettuale per cominciare a vedere il movimento di classe del corpo sociale complessivo. (Certo, ancora con molte clausole di astrazione, che in parte possono essere sciolte nello sviluppo concettuale ulteriore, in parte invece rimandano all’indagine storico-sociale, e dunque ai dati empirici, che si tratterà di raccogliere, sistematizzare, confrontare con ipotesi ad hoc.) Ed è chiaro, poi, che per intanto si tratta solo delle due classi-base della produzione capitalistica; solo di esse si è parlato fin qui, e solo di esse abbiamo costruito il concetto.

Le classi come classi sono, d’altra parte, qualcosa senza di cui il MPC non è nemmeno pensabile. Perché esso esista, ci devono essere detentori di MP e venditori di forza-lavoro. Ma con questa semplicissima riflessione può forse venir meglio in luce anche il motivo per cui era necessario fare il percorso concettuale (non “della rappresentazione” appunto, ma del puro concetto, e che può esser faticoso per chi non ne ha l’abitudine).

In primo luogo. Il concetto di classe l’abbiamo costruito qui, sulle orme della teoria di Marx, senza aver affatto bisogno di specificare, in nessun momento, che cosa venisse prodotto - se grano, macchine, programmi per computer o cure mediche [in una clinica privata, s’intende]. Basta che si tratti di prodotti-merci, e di merci vendibili, e l’accumulazione ha luogo, ossia “si fa da capitale, plusvalore, e da plusvalore di nuovo capitale” - [cfr. 1,23, inizio]. Non c’è dubbio che le forme, le modalità dell’accumulazione variino nel tempo: e certo esse sono mutate profondamente negli ultimi 30 anni, e continuano a mutare. Di fronte a questo fenomeno, però, restiamo intellettualmente disarmati, se ci teniamo alla rappresentazione, o all’immediato percepire - “ecco, questi sono operai”, “ecco, questi sono capitalisti”. Sulla base del banale sociologismo della classificazione per professioni, tipi di attività, reddito, è stato anche troppo facile far passare parole d’ordine come “fine della centralità della classe operaia”, o addirittura “fine del lavoro” ecc.: gli ingenui vedevano diminuire di numero gli operai di fabbrica, e solo per questo cadevano nella trappola. In una parola: il concetto adeguato di “classe” dipende da quello di Modo di produzione (capitalistico).

2. Ma il processo complessivo non si riduce alla forma di moto pura. Esso è la storia della “produzione capitalistica” e il suo sviluppo effettivo. La forma di moto contiene una dinamica che si può ben chiamare storica: è la dinamica immanente del MPC, attraverso ormai quasi un mezzo millennio, e che definisce un’epoca nella storia del lavoro umano, fino alla antropizzazione del pianeta, delle sue risorse, delle sue forme di vita molteplici, tramite il lavoro umano; e fino alla messa in pericolo, anche, della sua stessa sopravvivenza.

E tuttavia, questo non basta ancora per il nostro concetto di “classi”. Tanto meno può bastare, in quanto è nel processo complessivo che le classi effettivamente operano. E allora? Bisogna fermarsi e dire: la teoria arriva fin qui, vedano gli storici il processo complessivo?

No. Possiamo domandarci, per cominciare, perché il processo complessivo non si riduce e non può ridursi alla pura forma di movimento, pur con tutta la sua formidabile dinamicità interna, le sue leggi di tendenza, la sua contraddizione fondamentale [8] e via dicendo. Non è poco davvero, e già questo “modello”, questa forma-di-movimento della produzione e riproduzione di uomini entro un rapporto di produzione determinato ha offerto e seguita ad offrire (per chi non preferisca altre impostazioni teoriche - non diciamo altre mode) - una bella panoplia di strumenti per indagare la realtà.

Ma vediamo. La forma di moto non esaurisce il processo, in primo luogo perché la produzione capitalistica non nasce nel vuoto, ma implica una doppia sussunzione.

Primo. Si ricorderà (v. parte prima), che nel MPC vengono sussunte e modificate le funzioni del valore (come forma di movimento, rapporto tra producenti e denaro nelle sue varie funzioni-base, fino al denaro mondiale) (1,3,4). Le funzioni-base del denaro sono anteriori alla produzione capitalistica, e in questo senso “la circolazione delle merci è il punto di partenza del capitale” (1,4,inizio). Ma questa circolazione si può sviluppare pienamente solo quando la forza-lavoro è merce. Da una parte, è vero, non posso avere capitale e produzione capitalistica senza universalità potenziale del legame sociale tra producenti autonomi, e questa universalità potenziale è il denaro - che si trova di fronte l’universo delle merci, è la loro unità-in-movimento. Ma d’altra parte, ciò si realizza e generalizza solo purché tra le merci ci sia la forza-lavoro umana.

Secondo, però. “Produzione capitalistica” vuol dire di per sé, e proprio grazie alla straordinaria forza del MPC, all’ incremento immanente e indefinito della produttività del lavoro sociale che esso comporta, non solo sgretolamento di figure del produrre precedenti (piccola proprietà contadina, artigianato), o distruzione di modi di produzione storici (feudali, p. es.), bensì anche inglobamento di queste figure del produrre e Modi di produzione interi, entro il processo complessivo, capitalistico per il suo moto e carattere fondamentale. Esempio del secondo caso fu la produzione schiavistica nelle colonie (fino alla Guerra civile americana ed oltre). Quanto alla distruzione della piccola proprietà contadina, essa è stata, in Europa occidentale, cioè nella culla del capitalismo, insieme condizione e conseguenza dello sviluppo del capitale (Marx studia ed espone questi processi essenzialmente per la fase pre-imperialistica.)

S’intende da sé che le diverse pre-condizioni storiche in cui il MPC viene a instaurarsi importano diverse modalità di distruzione, o integrazione subalterna, delle precedenti forme di produzione. Così, per esempio, sussistono fino ad oggi, anche in Italia, “nicchie” di piccola produzione semi-indipendente; o anche si rinnovano, ma appunto in quelle “nicchie” che il processo complessivo crea (subfornitori ecc.), e che non potrebbero esistere senza il movimento “avanzato” del MPC.

In genere: le nuove figure del processo aprono sempre nuove possibilità di integrazione in lui di quello che è “altro” (precedente nel tempo o anche “esterno” nello spazio), sia esso pre-capitalistico, sia meno avanzato capitalisticamente, e perciò in qualche forma subordinabile (vedi i vari “Mezzogiorni”, cui pare aggiungersi, oggi, una parte dei Paesi recentemente entrati nell’UE).

Nella fase imperialistica questo rapporto, che resta retto fondamentalmente dalla concentrazione e centralizzazione del capitale, è alla base dei massicci fenomeni di sfruttamento coloniale, di rapina delle risorse “naturali” e “umane” nelle periferie imperiali, poi della c.d. integrazione-espropriazione di interi sub-sistemi (ne è buon esempio, pare, l’Argentina contemporanea).

D’altra parte. Il processo complessivo, man mano che avanza secondo la dinamica intrinseca del Modo di produzione, unifica - non già nel senso banale di una estensione uniforme di condizioni simili, ma al contrario, nel senso che il processo è lui stesso l’unità effettuale di tutte le determinazioni, tanto di quelle che produce e riproduce il MPC “puro”, che di quelle pregresse e sussunte in lui. “Unificare”, perciò, non vuol qui dire uniformare, ma anzi acuire le disuguaglianze, anche perpetuare i rapporti di sfruttamento arcaici subordinandoli al moto complessivo del capitale, tramite i mercati (delle merci, della forza lavoro, del credito ecc.  [9]) - e tutto ciò, nella misura in cui è funzionale a quella specifica fase dell’unificazione capitalistica-imperialistica. Si può quindi dire: il “concreto” è, in ogni istante, la configurazione in cui tutti i rapporti si muovono (a cominciare appunto da quello fondamentale, il rapporto capitale/lavoro vivo). Motore essenziale resta la dinamica peculiare del Modo di produzione capitalistico.

(Queste riflessioni teoriche sul concetto di MPC, e sul concetto di classe che da lui deriva, possono dare lo spunto a una breve considerazione sulla condizione presente della classe operaia - segmentata e divisa come non lo era stata per generazioni. Che la riorganizzazione del Movimento operaio internazionale debba avvenire su nuove basi, e a partire da condizioni date in regioni, Paesi, comparti diversi, è cosa che si può dare per scontata. Si tratta solo di vedere in genere come il “lato soggettivo” possa innestarsi sulle condizioni via via date, e prese come “lato oggettivo”? Non pare. Le condizioni sociopolitiche della coscienza di classe, e perciò dell’azione collettiva, sono sempre “originali”, ogni volta peculiari. Anche la possibilità di costituire un grande movimento unitario (la FSM nel 1945!) fu, obiettivamente, una “possibilità reale” (il che significa, letteralmente, “nelle cose”): cioè, una di quelle possibilità che si aprono e chiudono nel processo complessivo, del quale le parti in gioco furono esse stesse attrici e momenti.

Cogliere la possibilità reale la dove è, farla camminare con le gambe e le teste di molti uomini - questo e non altro è - oggi come allora! - il “fattore soggettivo”. Si tratta dunque di un compito sempre aperto, in tempi di vacche grasse e in tempi di vacche magre. E perciò, se la storia del movimento dei lavoratori insegna e rafforza, la nostalgia è soltanto dannosa - come lo sono, d’altronde, anche le illusioni sui fuochi di paglia.

3. In tutto l’edificio teorico di Capitale I Marx presuppone, come si è ricordato, che la forza-lavoro sia pagata al suo valore pieno, che comprende la formazione e del lavoratore e la riproduzione della sua schiatta, nelle condizioni storico-sociali di un certo tempo e Paese. Quando questo presupposto è lasciato cadere, p. es. per esaminare la lotta per la “giornata lavorativa” (Capitale I, 8), ne è fatta menzione esplicita [10].

Precisando che il concetto di “lavoratore produttivo” muta una volta che ho il processo della produzione capitalistica “ vera e propria”, cioè l’incremento del plusvalore e l’accumulazione del capitale grazie all’incremento sistematico e infinito della produttività del lavoro associato (e alla concorrenza dei molti capitali, che questo incremento, via stimolo del superprofitto, rende operante, anche se è per ora un mero presupposto). Marx osserva che “lavoratore produttivo” è ormai tutto il “lavoratore combinato” che opera nell’impresa capitalistica, dal dirigente operativo al tecnico al manovale; ma, aggiunge, il concetto di “lavoratore produttivo” dall’altro lato si restringe. Adesso è “lavoratore produttivo” solo colui che produce valore e plusvalore per il capitale, ed essere “lavoratore produttivo” non è una fortuna, perciò, ma “una disgrazia” [1,14, inizio]. Questo secondo aspetto riguarda la classe come tale. In quanto membro della classe lavoratrice nel MPC, entro il moto del capitale, tu individuo, con queste tue capacità, abilità ecc., puoi essere “lavoratore produttivo”: ma lo sarai, solo se e in quanto il capitale, per sue esigenze di valorizzazione, ti metta in opera, o invece ti respinga.

Tenendo conto di questo, seguiamo il solito criterio del cominciare con clausole di astrazione, per arrivare poi a concretizzazioni successive. Posso ipotizzare che tutta la produzione sia capitalistica: e ho che tutta la classe lavoratrice vive, essenzialmente, di quel che può acquistare col salario. (Ancora una volta: non rileva qui la forma del salario, se a tempo o a cottimo ecc., se dichiarato o camuffato o “nero” e via dicendo. Anzi non rileva neppure, per ora, il carattere di parvenza del salario stesso.) Ma - come si è detto - non è esatto dire che la classe lavoratrice “vive di salario”. Non si mangia, veste, abita, studia “il salario”! Dunque la riproduzione della vita dei lavoratori avviene in un ciclo che non è quello della produzione in senso stretto. Possiamo chiamarlo ciclo vitale (cfr. 1, 21). Ma quale ne è l’estensione?

Conserviamo la clausola d’astrazione “tutta la produzione è capitalistica”. In tal caso, tutte le attività vitali entro la classe lavoratrice - fisiologiche, procreative, educative, sanitarie, ricreative, sportive - saranno bensì esterne alla produzione in senso stretto, ma il loro ciclo, sia nell’individuo che nel corso delle generazioni, si rapporterà alla produzione e dunque al moto del capitale che la domina, in quanto quelle attività nel loro insieme tenderanno in ultima analisi a produrre lavoratori concreti - ossia, caso per caso, proprio quel lavoratore lì, con quelle capacità abilità ecc. Il quale poi, individualmente, avrà la “sfortuna” di essere “lavoratore produttivo”, di poter mettere in opera le sue capacità abilità ecc., solo se e in quanto servano alla valorizzazione di un qualsiasi capitale in presenza (“del capitale” in genere, come si dice) [11].

Ma ci saranno altre specie di attività “esterne” alla produzione vera e propria.

Primo. Attività non-cicliche, non riconducibili alla riproduzione dei lavoratori e della loro progenie. Dunque attività di singoli, o di gruppi, in un processo per sua natura infinito: la ricerca scientifica ne è l’esempio più proprio. (Marx parla qui di “lavoro universale”, diverso dal lavoro collettivo e combinato, perché come questo è cooperazione, ma cooperazione attraverso il tempo, anche con ricercatori e scienziati del passato, sulle basi del cui lavoro si continua.)Qui il rapporto col capitale è diverso, ed esibisce uno dei lati progressivi del MPC: questo Modo di produzione presenta continuamente problemi solubili solo grazie alle scienze della natura (meccanica, fisica, chimica, poi elettricità, elettronica, informatica...): ma grazie all’impulso alla valorizzazione mediante incremento della produttività del lavoro, ogni singolo capitale tenderà a incorporare risultati scientifici nel suo processo produttivo, e con queste innovazioni “vincere” sul mercato
 finché gli altri non si allineano, almeno. Poi il gioco ricomincia [12].

In terzo luogo, abbiamo attività di formazione umana in genere. Queste sono sempre creazione e continuazione, attivazione di istituzioni [13] - familiari, sociali, culturali, politiche - le quali tutte importano o presuppongono una schematizzazione giuridica, o scritta o di costume. Queste istituzioni - vere forme di movimento della vita umana, preesistenti ad ogni singolo individuo, ma attuate e modificate sempre e solo da individui - hanno un rapporto vario, e variato nel tempo col moto del capitale. Quando il rapporto economico, come nel caso del contratto e specificamente del contratto di lavoro (scritto, esplicito, o non), è il contenuto del rapporto giuridico, si tratta però, dal lato della forma, di un rapporto tra individui x e y, cioè di indeterminati molti che possono fare da x, e altri indeterminati molti che possono fare da y. In altre parole, l’ istituto giuridico - qui, del contratto - è la forma di organizzazione di questa sostituzione indefinita di argomenti della relazione entro due ambiti di “soggetti”, definiti proprio dalla relazione tra loro.

Ma in generale, gli individui nascono, entrano nella vita e nella società, in un universo di istituzioni già esistenti, giuridicamente sancite o no, e solo operando nelle forme di questo universo possono crescere, vivere, ed eventualmente modificare il costume, la mentalità, gli istituti giuridici, i rapporti di forza politico-sociali. Tutte le volte che la forma di movimento “MPC” come tale non determina di per sé l’andamento del processo, diventa necessario tener conto di questi rapporti di forza. Caso tipico è quello della giornata lavorativa, che - dato il RP fondamentale - ha un limite minimo: ossia quella durata (o intensità, convertibile in durata maggiore) del tempo di lavoro, che sarebbe sufficiente solo a riprodurre il valore della forza-lavoro. In tal caso-limite, infatti, la forma di moto di base, la “formula generale del capitale”, D-M-D’, non si attuerebbe, il capitale non si valorizzerebbe affatto, e cesserebbe di essere capitale. Invece, la giornata lavorativa - nella produzione capitalistica - non ha un limite massimo (salvo le teoriche 24 ore di una giornata esclusivamente occupata dal lavoro). Lo spazio tra il limite minimo (nell’opera di Marx fatto uguale di solito, convenzionalmente, al 50% della giornata di lavoro fino allora prevalente, cioè 6 ore lavorative), e le 12, 14, 18 ore di lavoro giornaliero, è variabile secondo le condizioni di partenza, e poi, man mano che il MPC si instaura, secondo i rapporti di forza tra le classi. Il divieto di organizzazione dei lavoratori, che aveva origine nella legislazione espropriatrice dei secoli XV e XVI, viene revocato finalmente nel 1828, cioè dopo che quattro-cinque generazioni di operai erano state letteralmente “consumate” nella rivoluzione industriale (l’aspettativa di vita media dei membri della classe operaia nei distretti industriali inglesi era intorno ai 20 anni).-----

Riassumendo. Dobbiamo distinguere due significati diversi dell’espressione “Riproduzione sociale complessiva” [d’ora in poi: RSC]. Un significato ristretto, che riguarda non solo il processo di produzione del capitale, ma anche la sua circolazione, come capitali individuali e come insieme di tutti i capitali nei vari settori, con le ideali figure di equilibrio tra questi in una produzione tutta capitalistica (gli “schemi di riproduzione” nell’ultima parte di Capitale II). Questa è “riproduzione sociale complessiva” in senso economico stretto.

Invece la RSC in senso largo comprende tutte le attività di un corpo collettivo umano, che produce e riproduce sé stesso nella natura, con attività tanto biotiche che, fondamentalmente, di lavoro (con le sue forme derivate, come il “lavoro universale”) - attività che conducono in ultima analisi alla produzione e riproduzione di uomini mediante “beni” e/o “servizi” [14]. Solo nel Modo di produzione moderno, capitalistico, questi “beni” e “servizi” tenderanno ad avere forma di merci, e merci prodotte capitalisticamente.

Se guardiamo alla RSC “stretta” (economica) dal lato soggettivo, vediamo subito che l’insieme delle attività “esterne”, ricompresse nella RSC in senso largo, non è affatto indifferente alla riproduzione “economica” o “stretta”. Il lato soggettivo è infatti quello del lavoro vivo, essenzialmente, e perciò della vita delle classi lavoratrici! [15] Il rapporto tra come esse vivono e come lavorano ha interessato filantropi e riformatori: il calcolo del “vivendo meglio, lavoreranno di più e meglio” vale in certi casi, come si sa. In altri e più frequenti, che si ammazzino di fatica e dormano in topaie è invece indifferente.

Ma come abbiamo visto, in tutto ciò che riguarda quella “vita delle classi lavoratrici” (salario, condizioni di lavoro; ma poi diritti; condizioni di abitazione, di trasporti, urbanistiche, igienico-sanitarie, scolastiche, culturali, ecc. ecc. ecc.) è determinante, pur entro la forma generale di movimento del Modo di produzione, il rapporto di forza tra le classi. Perciò anche la astrazione marxiana del “valore pieno della f-l” va letta per quel che è: un passaggio necessario per sviluppare la teoria, non una indicazione banalmente quantitativa, come se si trattasse del più o meno consistente “paniere” dei beni-salario!

A questa considerazione subalterna sfugge, infatti, non solo la qualità della vita e le prospettive umane di realizzazione e di formazione che essa apre o esclude [16], ma anche e soprattutto lo scopo obiettivo cui tende la RSC “larga” in ogni singolo caso, e che in condizioni capitalistiche non può non essere, insieme, funzionale e conflittuale, cioè oggetto e contenuto della lotta di egemonia tra le classi fondamentali [17]. Abbiamo visto che tutte le attività sboccano, direttamente e indirettamente, nella formazione di nuovi individui-di-classe, quindi di nuovi salariati (in qualunque forma). Ma che specie di salariato avremo, infine? Qualificato efficiente abile, servizievole servile furbo, obliquo disonesto - onesto chiaro, rispettoso di sé e perciò degli altri, generoso solidale fraterno... A quale di queste determinazioni, che tutte esistono, ma operano nel singolo e tramite lui nella collettività, tenderà il processo di produzione di uomini, è iscritto soltanto nel processo complessivo, nelle sue modalità soggette alla dinamica del capitale (RSC “stretta”), ma non meccanicamente (esempio della “giornata lavorativa”), e oggetto della lotta di classe (“egemonia”), che opera nella RSC “larga” e in quella “stretta”.

4. Si è visto a quale scopo dobbiamo distinguere tra RSC “stretta” e RSC “larga”. Ma questa distinzione si intende meglio rifacendosi all’architettura complessiva dell’opera principale di Marx, Il Capitale. (Opera che Marx riuscì a elaborare, non a completare né a pubblicare nei suoi tre libri come è noto). Contenuto di questa opera è in primo luogo il MPC nella sua dinamica interna, epocale: non le configurazioni dei “vari capitalismi” storici. Questo è il piano di astrazione di tutta l’indagine.

In Capitale I, inoltre, hai solo il processo di produzione del capitale, la sua forma di moto interna, fino alla dinamica intrinseca dell’accumulazione e concentrazione. Non dunque la circolazione dei capitali, non la concorrenza - che si avrà, ma solo schematicamente, nel terzo libro, quando il movimento dei molti capitali in concorrenza tra loro sarà necessario per sviluppare la teoria del profitto, del suo saggio, del capitale portatore di interesse, della rendita ecc.

In Capitale I, il capitale è un genere, studiato come tale (come i fisiologi studiano “gli organi” e “l’organismo” ben sapendo che non ve ne saranno mai due identici, con lo stesso sviluppo, la stessa storia). È per questo che le illustrazioni che Marx fornisce della “influenza che l’aumento del capitale esercita sulla classe operaia” vanno prese con le dovute cautele, nella misura in cui includono elementi specifici, per esempio del capitalismo industriale inglese dell’epoca. Ma anche i grandi fenomeni storici di cui siamo ancora testimoni, e che sono collegati a quella “influenza dell’aumento del capitale sulla classe operaia”, andranno visti distinguendo la forma generale di movimento dalla configurazione, oggi imperialistica e internazionale, in cui esse operano.

La mobilità della forza lavoro è un risultato storico. Non esiste nel mondo feudale se non nei “pori” mercantili della società. La sua instaurazione nell’Europa occidentale fu economica, e soprattutto violenta (1,24). Fenomeni comparabili nel nostro tempo si hanno in quanto popolazioni contadine autoconsumatrici vengono private dei loro mezzi di produzione: o cacciandole economicamente dalla terra (“rivoluzione verde” in India e Pakistan negli anni 60 e 70), o con la violenza (Congo, Brasile, ecc.).

Riassumendo. La teoria marxiana delle classi non è descrizione sociologica di differenze di professione, di reddito, di gusti, di costumi. Essa è uno strumento di analisi delle società capitalistiche. Nel concetto di classe si riflettono “le forme di divisione sociale del lavoro” complessivamente considerate, compreso dunque il lavoro di direzione e le forme del comando sul lavoro altrui nella produzione e a monte e a valle di essa (vedi la cosiddetta “offerta di lavoro”). Ma ancora e soprattutto questa teoria delle classi è una “categoria di analisi propria della società borghese ... [di questa] forma sociale specifica caratterizzata dal mercato della forza lavoro e dal soggetto individuale come persona giuridica” [18].

Nel reale processo complessivo la configurazione delle classi è soggetta a continuo movimento. Manifesta è, ai nostri giorni, “la crisi del rapporto tra proprietà giuridica e funzioni di comando” [19] e manifesti, ma poco analizzati ancora sono i fenomeni della “funzionalità e relativa autonomia degli apparati pubblici” [20], in una condizione in cui il 40% e più del PIL passa attraverso di essi. (Per questo aspetto siamo ben lontani dai tempi in cui Marx scriveva. Resta aperto il problema del carattere produttivo o improduttivo dei lavoratori che operano in questi apparati).

Il doppio livello di astrazione della teoria del MPC e dell’analisi delle configurazioni capitalistiche passate e presenti spiega perché si sia distinto qui tra riproduzione sociale complessiva in senso stretto e in senso largo. Ma questo stesso doppio livello di astrazione indica che la “cassetta degli attrezzi” della teoria delle classi iniziata da Marx è tutt’altro che fuori tempo. Il MPC come forma di movimento caratterizza l’epoca capitalistica tutt’intera, comprese le nuove configurazioni del capitalismo-imperialismo, e fino a quella presente. Esse si complicano e sviluppano, restando il “motore” fondamentale in azione. Come sempre, perché gli “attrezzi” concettuali esistano davvero, e non decadano a segni sulla carta, occorre che ci sia chi li usa e li sviluppa.


[1] Cfr. K. MARX, Critica al programma di Gotha. Roma, Ed. Riuniti, 1990, p. 8.

[2] La “cosiddetta accumulazione originaria” (1,24) va intesa come una preparazione delle condizioni dell’automovimento del capitale e non è un suo momento interno.

[3] I riferimenti al Capitale sono dati da tre cifre arabe, che indicano rispettivamente il Libro, il capitolo e, quando c’è, il § all’interno del capitolo. La sigla RP sta sempre per “rapporto(i) di produzione”.

[4] P. es., se una macchina può lavorare 100.000 pezzi, poniamo di laminati, prima di essere usurata o superata, 1/100.000 del suo valore viene trasferito ad ogni pezzo, e deve essere contabilizzato (ammortizzato) in questo modo.

[5] Succede, nella realtà empirica. Ma allora l’impresa fallisce, o chiude. Noi vogliamo dei capitali che funzionino nel nostro modello, non dei capitali che escano dalla scena!

[6] Del resto, l’ipotesi è molto meno lontana dalla realtà oggi, che quando Marx scriveva. Naturalmente, sarebbe vano cercarla realizzata al 100%.

[7] anche da spendere in consumo improduttivo dei capitalisti. Si dovrà fare una detrazione. Ma qui possiamo prescinderne.

[8] V, parte prima, in “Proteo” 2/04, a p. 108.

[9] Oggi anche tramite istituzioni, come il FMI, la Banca mondiale, la OMC.

[10] Cfr. Parte prima, n. 21.

[11] Eh sì, la “cultura d’impresa”, l’apprendere non scienze e umanità, per carità, ma “competenze” per il mercato del lavoro. No, questo non c’è in Marx. Ma il lettore di oggi ne avrà sentito parlare a sazietà. Vuol dire: adeguare alle immediate esigenze del capitale, come esse si presentano al momento, gli uomini nella loro stessa formazione come uomini, e senza tener conto della loro vita futura - che sarà pur sempre, in media, un buon mezzo secolo, o più, dopo aver “incocciato” una provvisoria nicchia nel necessariamente e rapidamente mutevole “mercato del lavoro”.

[12] Non teniamo conto, qui, ovviamente, né della moderna concorrenza oligopolistica, né dei vincoli di monopolio alla ricerca, né del rapporto tra ricerca fondamentale e ricerca applicata, R&D.

[13] Per farsene un’idea, si pensi alla lingua che parliamo. (Anche il linguaggio è una istituzione). La lingua italiana, colla sua fonetica, grammatica, lessico ecc., preesiste a me che la parlo. Ma senza affatto parlanti (e scriventi) la lingua non sarebbe.

[14] Si noti l’astrattismo di questa denominazione corrente, “beni” e “servizi”, i quali come tali possono riferirsi a qualunque tipo di collettività umana, dai gruppi di ominidi in poi.

[15] Naturalmente, c’è anche il lato soggettivo dall’altra parte, quella dei detentori di MP (capitale). Lo trascuriamo qui, sebbene certo non sia affatto indifferente avere una classe dominante colta o incolta, attiva e austera o volgarmente godereccia, ecc.

[16] Anche questa qualità va intesa “alla lunga”, attraverso le generazioni, e perciò al di là del “dato” immediato. È un dato che oltre 1 milione di romani è costretto a sciupare circa 2 ore quotidiane nel traffico stradale, per lo più per recarsi al lavoro. Ma la storia d’Italia mostra che costruire la città in questo modo irragionevole è stata una opzione di classe, economica e politica, ripetuta in vari modi dal 1870 in poi.

[17] Rimando qui al contributo su questo tema in “Proteo” 2-3, 2003.

[18] Cfr. Gian Mario CAZZANIGA, Funzione e conflitto. Forme e classi nella teoria marxiana dello sviluppo. Napoli, Liguori, 1981 p. 260.

[19] Ivi, p. 261.

[20] Ibidem.