Riflessioni su “L’Europa vista dai sud”

Carlo Batà

Uno sguardo differente: l’Europa vista dai sud. Quei sud del mondo che hanno sperimentato e sperimentano tuttora i “vantaggi” della libertà e della democrazia di stampo occidentale. Un’altra visuale - non distorta dall’euro(ego)centrismo inculcato a tutti noi fin dai primi anni delle scuole elementari e poi dalla televisione - che ci consente, in un benefico bagno di umiltà, di smontare i pregiudizi che ci accompagnano quando parliamo delle altre regioni del mondo. Europa responsabile già secoli addietro del genocidio di milioni di esseri umani, della deportazione degli schiavi africani incatenati come bestie da civilizzatori con la pelle bianca. Europa che oggi è invece parte integrante di un sistema di morte che ogni anno condanna a morte cinquanta milioni di persone per fame, sete o malattie curabili e obbliga a una vita di stenti e difficoltà sempre maggiori gran parte dei propri cittadini, che vedono ridursi diritti che sembravano acquisiti da parte dei governi di destra come di centrosinistra. Che al governo ci sia Aznar o Berlusconi, oppure Prodi, Blair, Schroeder o Jospin, nulla cambia, o quasi. Mentre si accusa Cuba di mantenere un sistema a partito unico, si dà dimostrazione dell’esistenza di un pensiero unico che fa di conservatori e socialdemocratici le due facce di una stessa medaglia. Quella del dominio neoliberista sul pianeta.

Il Vecchio Continente si ripresenta alla carica sul piano internazionale ed è senza dubbio sensato chiedersi se siamo di fronte a un’epoca di moderne crociate per la conquista di nuovi mercati e aree di decisiva importanza geopolitica e strategica. L’Europa non sembra volere limitare il proprio ruolo a semplice grimaldello per consentire l’assoggettamento di aree ancora non sottoposte al pieno controllo degli Stati Uniti. Ecco spiegata la violenza dell’attacco verbale del Segretario alla Difesa statunitense Donald Rumsfeld, che ha distinto con sprezzante arroganza tra “vecchia e nuova Europa”. Ecco spiegato il rifiuto di Chirac e Schroeder a partecipare, almeno nella fase militare, alla guerra in Iraq. Nel frattempo c’è giunta notizia di due fatti, che definire funesti è poco: la proposta di trasferire il centro logistico delle unità militari dell’esercito statunitense dalla Germania a una più docile Polonia e la disponibilità della Romania di istituire una base militare nordamericana sul Mar Nero.

Con la guerra in Iraq è sembrato che, almeno per il momento, Gran Bretagna, Italia e Spagna - almeno i loro governi - fossero gli unici paesi disposti ad accettare il predominio e le imposizioni statunitensi, ma la vittoria di Zapatero ha aperto nuovi scenari. L’Europa ha intenzione di diventare un competitore degli Stati Uniti? A questa domanda, come era da attendersi, sono state date due risposte differenti. Da Cuba si propende per un’Unione Europea piegata agli interessi statunitensi e soddisfatta di svolgere il ruolo di obbediente e subalterno vassallo. Il terrore di tornare a essere una colonia degli Stati Uniti - come nel periodo 1898-1953 - è troppo grande, come assoluta è la certezza che Cuba, nella ridistribuzione delle zone di influenza, spetterebbe al potente vicino del nord, come già alla fine dell’Ottocento.

Dall’Italia - e quindi dall’interno dell’Europa - invece, l’impressione è che sia in atto una ferrea lotta per il dominio o quantomeno per la spartizione del mondo, con la solita costante: la violazione dei diritti degli altri popoli. In sostanza sta nascendo un altro polo imperialista - non subordinato, bensì pronto a adottare senza remore né vergogna il capitalismo selvaggio di stampo nordamericano - che sta contrattando con gli Stati Uniti una maggiore libertà d’azione in Medio Oriente o nei Balcani (disintegrati ad arte negli anni Novanta del secolo appena concluso), in cambio di carta bianca in altre regioni. Resta da vedere come l’Unione Europea riuscirà a colmare il distacco e la mancanza di un’unica politica militare e di un esercito sovranazionale. Il termine suggerito, “competizione globale”, pare veramente appropriato e, meglio di “globalizzazione”, spiega la sfida senza esclusione di colpi che si nota sempre più incombente a un orizzonte su cui soffiano tetri venti di guerra. Guerra voluta a ogni costo dal sistema economico capitalista, che ha soggiogato ormai da tempo una politica impotente che non ha potuto fare altro se non alzare bandiera bianca e cedere su ogni fronte. Da rimarcare è la costanza di fenomeni, che hanno visto le loro prime sperimentazioni negli Stati Uniti di Ronald Reagan e nella Gran Bretagna di Margareth Thatcher: le privatizzazioni, nell’Italia governata negli anni Novanta dal centrosinistra, come nella Spagna, durante gli otto lunghi anni del governo conservatore di Aznar; il venir meno dei diritti dei lavoratori e, di conseguenza, precarietà, sottoccupazione e insicurezza; l’attacco alla scuola pubblica, dipinta come inefficiente e non in grado di preparare i nostri figli per il futuro; lo smantellamento del sistema sanitario nazionale. La demolizione dello stato sociale è stata pianificata con cura e meticolosità per cancellare anche in Italia fondamentali diritti acquisiti in decenni di lotte, che hanno visto il sacrificio di decine di lavoratori e studenti, caduti sotto i colpi della polizia da Scelba in poi. Il pensiero non può che andare a Cuba, accusata di reprimere il dissenso e, invece, unico paese al mondo in cui negli ultimi 45 anni la polizia non abbia ucciso una sola persona.

Proprio nei confronti di Cuba emergono le palesi contraddizioni nell’atteggiamento dei governanti europei: i partiti socialdemocratici, per esempio, schierati contro l’embargo nei confronti dell’isola, sono in prima linea - qui in Italia abbiamo lo scandaloso caso dei Democratici di Sinistra - nella richiesta di un radicale ricambio della classe dirigente all’Avana. Sono loro che maggiormente chiedono che Castro si faccia da parte, sono loro che invitano i cosiddetti dissidenti a convegni dai titoli fantasiosi come “L’altra Cuba”.

E così l’Unione Europea non ha trovato di meglio che adottare nel 1996, negli stessi mesi dell’approvazione della Legge Helms-Burton, la Posizione Comune, elaborata a partire dalla bozza presentata da José María Aznar, in cui si trovano passaggi raccapriccianti come per esempio: “...processo di transizione verso una democrazia pluralista...”. Il Nicaragua evidentemente non ha insegnato nulla: i bambini, scalzi e denutriti, che vivono per la strada a Managua non sono certo contenti che quando (e se) saranno adulti potranno scegliere tra più di un partito politico... Nella Posizione Comune silenzio assoluto invece sulla generosità e lo spirito di sacrificio dimostrato da Cuba: su tutti, quei 15.000 medici e operatori sanitari che curano uomini, donne e bambini abbandonati a se stessi nei paesi dove invece c’è il pluralismo politico e la libertà di stampa... Silenzio assoluto anche sui 16.000 ragazzi dei paesi del Terzo Mondo che a Cuba studiano gratuitamente, mentre nei loro paesi democratici sarebbero condannati a una vita da analfabeti, sfruttati e vessati come bestie. Chiediamo loro se Cuba è una dittatura...

Perché tanto accanimento verso Cuba, perché tanta energia profusa per imporre sanzioni nei confronti del governo dell’Avana? Perché quel vergognoso dibattito parlamentare dell’anno scorso? Cuba è accusata di violare i diritti umani, solo perché continua ostinatamente a adottare un originale modello democratico, che prevede sì un partito unico, ma che per esempio esclude la triste campagna elettorale dei sistemi occidentali, in cui trionfa chi dispone di maggiori risorse o - qui in Italia - dell’appoggio di Confindustria o di altri poteri forti.

Cuba è nel mirino, sempre più duramente, perché è l’unico paese al mondo dove le multinazionali non dettano legge, è l’unico paese dei sud del mondo a essere realmente sovrano, è l’unico paese dei sud del mondo ad aver ottenuto l’indipendenza, sia dal punto di vista formale, sia dal punto di vista sostanziale. Cuba è l’unico paese che rifiuta di piegarsi e, anzi, denuncia una situazione sempre più insostenibile. Le parole pronunciate da Fidel Castro il 1 maggio scorso sono chiare: “...ipocrisia, menzogna permanente e cinismo con cui i padroni del mondo vogliono mantenere il putrido sistema di dominazione politica ed economica imposto all’umanità”.

Anche all’interno di quella che è chiamata “sinistra radicale” (in cui ritroviamo Di Pietro e Occhetto...) si accusa Cuba di non rispettare i diritti umani, di non dare voce alle minoranze. È vero: a Cuba le minoranze non hanno voce in capitolo sulle politiche economiche, sull’allocazione dei fondi per la spesa in campo sociale, nella scuola, nella sanità, nella cultura. “Le nostre risorse naturali, anche se scarse, sono in mano al popolo”, ricorda nel suo intervento Dennys Guzmán. È negli altri paesi che le minoranze
 uomini politici corrotti e rappresentanti di FMI e Banca Mondiale - violano le regole democratiche, imponendo alla maggioranza la propria arrogante volontà. Come in Bolivia, dove nell’ottobre 2003 chi dissentiva con la politica del governo è stato ucciso per la strada, senza pietà, senza remore. Gonzalo de Quesada ben sapeva che a Miami lo aspettava la più assoluta impunità. Questi però, per i benpensanti europei, non sono dissidenti e la morte di oltre centocinquanta persone non ha portato a dibattiti parlamentari o all’interruzione dei rapporti bilaterali, come nel caso di Cuba.

A Cuba tutti hanno il diritto di essere curati, negli altri paesi dell’America Latina è un privilegio garantito a quei pochi che se lo possono permettere. A Cuba chiunque può studiare gratuitamente, in molti paesi dei sud del mondo è già tanto sapere leggere e scrivere il proprio nome. D’altronde è da Cuba che attraverso la penna di José Martí si levano, contro l’oscurantismo e l’ignoranza in cui si cerca di mantenere l’umanità, parole indimenticabili: “L’unico modo per essere colti è essere liberi / Il popolo più felice è quello i cui figli sono meglio educati / un popolo istruito sarà libero e forte”. E non è un caso che queste parole siano state ricordate da Fidel Castro ai giudici di Batista che lo giudicavano per l’assalto alla caserma Moncada nell’ottobre del 1953. Non può che far piacere sapere, cinquant’anni più tardi, che alla Fiera del Libro del febbraio scorso sono stati venduti, all’Avana e in altre trentaquattro città cubane, oltre cinque milioni di libri. Mentre qui da noi in testa alle vendite ci sono Vespa, la Fallaci, le barzellette su Totti e i comici dello Zelig... È Cuba l’unico paese che cerca di esportare medici e insegnanti, invece che soldati e mercenari, perché come ha dichiarato Fidel Castro: “La storia insegna che l’ignoranza è stata l’alleata imprescindibile e inseparabile degli sfruttatori e degli oppressori”. Mentre Stati Uniti ed Europa conducono guerre e sperimentano armi in giro per il mondo, Cuba conduce la propria “battaglia di idee”, seminando con cura per il futuro dei propri figli.

Cuba è al centro di cospirazioni e losche trame perché è stato il primo paese dell’America Latina a denunciare l’ALCA. Oggi per fortuna altri governi hanno espresso la propria perplessità. Contemporaneamente alcuni giganti demografici ed economici, come Brasile, Cina, India e Sudafrica, hanno alzato la voce, attirando l’attenzione sul potenziale dirompente che potrebbero esprimere nel giro di pochi anni. Cuba, che non ha mai smesso di credere nello sviluppo e nella perfettibilità del sistema socialista su cui è fondata, dimostra che si possono rifiutare i diktat degli istituti finanziari internazionali, i ricatti dei governi del nord del mondo che con una mano offrono aiuti e con l’altra pugnalano a morte vendendo armi, scorie nucleari e medicinali scaduti. Ed è singolare che anche all’interno dei diversi Social Forum europei e mondiali ci siano diffidenza e freddezza verso l’esperienza cubana. Perché tale atteggiamento? Forse perché Cuba dimostra che per costruire un altro mondo bisogna rifiutare il modello di sviluppo capitalista, portatore di distruzione, dolore e miseria?

Cuba è dipinta qui in Europa come un’eccezione da eliminare, come un residuo - destinato comunque a essere smaltito - di una vecchia e perdente ideologia, seppellita tra le macerie del Muro di Berlino. Con quale faccia l’Europa, complice dell’abbandono cui sono lasciati in ogni angolo del pianeta milioni di esseri umani, senza casa, senza lavoro, senza la possibilità di curarsi, mette Cuba sul banco degli imputati? Un’isola, che ha la sola colpa di non genuflettersi e di non baciare mani intrise di sangue. Guzmán ricorda: “Il più grande crimine di Cuba è quello di aver dimostrato, prima che se ne parlasse, che un altro mondo è possibile”. Per i cubani la condanna nei confronti dell’isola sembra davvero fuori luogo, cubani che ben conoscono cosa significhino democrazia e diritti umani in America Latina, anche oggi dopo la fine delle dittature appoggiate per decenni dal Pentagono: tortura, rapimenti, esecuzioni extragiudiziali, impunità per i macellai e i massacratori, oltre che miseria, ingiustizia e sofferenza. Cubani, che stanno vivendo il periodo forse più pericoloso della loro storia: ci si può quindi rifiutare di difendersi, come suggeriscono i falsi amici di Cuba, i dispensatori, non richiesti, di consigli? Magari quegli stessi che profetizzavano dopo il 1989 la rapida fine dell’esperienza cubana? Dall’Avana i segnali sono positivi, con un intero popolo disposto a salvaguardare con ogni mezzo quello che è stato faticosamente ottenuto dopo il 1959.

Per i paesi dei sud del mondo - non solo in America Latina - Cuba è un esempio di dignità e di coraggio, un punto di riferimento sottoposto a una brutale ed esecrabile aggressione imperialista che dura da oltre 45 anni. Basta vedere come si devono trincerare i leader dei paesi del G8, per esempio, e la folla che accoglie Fidel Castro quando si reca in visita ufficiale nei paesi dell’America Latina, abituati prima a gorilla e a generali, poi a corrotti e docili schiavi dell’imperialismo a stelle e strisce. Su chi non obbedisce, infatti, cade implacabile la vendetta. E così, dopo i casi eclatanti di Cile e Nicaragua, oggi si ripete la stessa storia con il Venezuela di Hugo Chávez e continuano, anzi si accentuano, le pressioni su Cuba. La storia però ha insegnato qualcosa. Abbassare la guardia significa incassare colpi mortali e le immagini del bombardamento della Moneda a Santiago del Cile sono ancora impresse nella memoria di tutti. Accettare le regole del gioco della democrazia di stampo occidentale significa perdere: chi non ricorda Violeta Chamorro festeggiare la vittoria sul Frente Sandinista a Managua? La capacità di opporsi alle logiche di repressione è però aumentata e oggi come mai il futuro dell’America Latina sembra, se non roseo, almeno meno deprimente di qualche anno fa. Un grazie va agli undici milioni di cubani che hanno sempre tenuto duro.