NO SMOKING. Critica dell’incenerimento dei rifiuti (prima parte)

Antonio Bove

Antonio Spadaro

Consuma o muori. Questo è il dettato della cultura.
E finisce tutto nella pattumiera.
Noi creiamo quantità stupefacenti di spazzatura,
poi reagiamo a questa creazione,
non solo tecnologicamente ma anche con il cuore e con la mente.
Lasciamo che ci plasmi. Lasciamo che controlli il nostro pensiero.
Prima creiamo la spazzatura e dopo
costruiamo un sistema per riuscire a fronteggiarla.
Don De Lillo, Underworld, 1997

1. La città dei rifiuti

In una Berlino di macerie, fra le forme del disastro che alterano la fisionomia della città, Edmund percorre la sua passeggiata nel mondo trasformato dalla guerra. Le immagini gelate di “Germania anno zero”, presentato da Rossellini al Festival di Locarno nel 1948, sono la volontà di comprendere il disastro con lo sguardo e capire, oltre ogni misura del dolore, che c’è stata una trasformazione. Niente assomiglia a prima.

In quella passeggiata, prima del tragico volo che spegnerà lo sguardo di quell’angelo malato, un elemento centrale è dato dalla presenza delle macerie. Calcinacci, pezzi di ferro, barattoli, proiettili, carcasse di automobili e di radio. La geografia di “quello che rimane”, delle cose svuotate del loro utilizzo primario che diventano residui. Una città affollata di scheletri di cose, di eccedenze.

La ricostruzione avviata prontamente grazie all’iniezione di capitali in un’area importante come il centro Europa, ha edificato su quelle macerie città nuove, produttive, veloci. Città che producono e consumano. E lasciano scorie.

Alla fine di questa parabola del progresso che parte dalla città delle macerie si ritrova un’immagine nuova, la città dei rifiuti. Nel suo tragico affresco postmoderno, Underworld, Don De Lillo costruisce l’immagine di città che crescono sulla spazzatura, si espandono accumulando immondizia e spingendola ai margini, sotto terra, in ogni spazio disponibile, “producendo ratti e paranoia”. È l’allucinazione dei nostri anni, la passeggiata dell’Edmund che ha attraversato la modernità e dalle macerie della guerra passa ai residui della produzione.

Negli ultimi anni, la “questione rifiuti” ha occupato la riflessione di moltissimi settori della politica e dell’intellettualità pressoché in tutto il Pianeta, restando confinata, in un primo tempo, alle scrivanie dei tecnici o degli ambientalisti che gridavano la preoccupazione per un tema che diventava sempre più urgente con il passare del tempo. L’esplosione della questione, generata dall’immensa quantità di rifiuti che ha finito per costituire un problema non più rinviabile, ha generato, in particolare nel nostro Paese, una catena di conflitti dal significato profondo. La stagione di lotte ambientaliste che abbiamo vissuto in questi ultimi anni, nata e cresciuta sull’onda lunga del movimento Noglobal, ha segnato infatti la ricomposizione di una cultura politica profondamente avversa alla delega “in bianco” data alle istituzioni e una forte spinta all’autogoverno. Una decisa volontà di partecipazione ai processi democratici che pertanto contiene in nuce la necessità di mutarne i meccanismi, di trasformarli in qualcosa d’altro. È in quest’ottica che questa stagione di mobilitazioni, da Scanzano alle lotte contro il Ponte a quelle contro gli inceneritori, presenta i caratteri di processo costituente di una visione alternativa della politica.

La questione rifiuti, in particolare, riveste un’importanza cruciale poiché rappresenta il punto di partenza per una critica radicale del sistema di produzione/consumo capitalista. La risposta dura dello Stato, del resto, è direttamente correlata alla “pericolosità” di una ribellione che rischia di toccare i nervi scoperti della democrazia capitalista. Opporsi alla trasformazione della propria terra in discarica, analizzare i perché di un processo di devastazione ambientale giunto a livelli insostenibili e collegarlo direttamente al sistema produttivo vuol dire mettere a nudo aspetti centrali delle contraddizioni interne al sistema capitalista. Questo ha smosso il gigante, toccandone i punti deboli ne ha suscitato la reazione violenta e scomposta che è sempre sintomo di debolezza.

E se una riflessione nuova sul Mezzogiorno d’Italia partisse da questo spirito ribelle?

2. Munnezza. La situazione dei rifiuti in Italia e nella UE

A fronte della retorica delle normative UE, che puntavano ad instaurare il mercato dello smaltimento sostenibile attraverso il ricorso alla diminuzione della quantità di rifiuti complessivamente prodotta, alla raccolta differenziata, al riciclaggio, al riuso, non è riscontrabile altrettanta coerenza e linearità nella prassi.

Per quanto riguarda le quantità di rifiuti prodotte in Italia (quasi 30 milioni di tonnellate) si può osservare un incremento dal 1995 al 2002 di 3988 tonnellate in più. Questa continua e repentina produzione di rifiuti ha causato problemi aggiuntivi legati all’individuazione di nuove aree di stoccaggio e smaltimento, alla rigidità delle normative europee introdotte attraverso il DL 13/1/2003n°36 e il DL 5/2/97 n°38 che limitano fortemente il ricorso alla discarica.

Rispetto all’obiettivo della riduzione dei rifiuti è però da riscontrare l’assoluta mancanza di normative volte a regolamentare il packaging e il consumo di beni di breve durata.

Vista attraverso la lente europea, nonostante le molteplici differenze empiricamente riscontrabili, nella produzione dei rifiuti, l’Europa raggiunge quota 198,560 milioni di tonnellate con una media procapite di 527 kg/abitante. La media italiana è di 516 kg annui, rientrando nella media europea. Ciò ovviamente non è un merito.

Centrale, ai fini della individuazione delle tipologie di smaltimento dei rifiuti, è sicuramente l’analisi merceologica.

Tra le diverse tipologie d’analisi, preferiamo anzitutto operare una prima distinzione tra dati riguardanti le fonti di produzione dei rifiuti e analisi ad esse connesse.

Sapremo quindi, prendendo ad esempio le 198 milioni di tonnellate di rifiuti europei, che il 22% proviene da costruzioni e demolizioni, che il 26% proviene dall’industria manifatturiera, che il 29% ha origine dall’attività estrattiva, il 14% dai rifiuti solidi urbani, il 4% dalla produzione di energia, e il 5% da altre fonti.

Ciò allarga la visione della produzione dal solo problema di smaltimento degli RSU all’intero compartimento della produzione industriale consumistica.

A seconda della pericolosità del rifiuto avremo rifiuti pericolosi, tossici, nocivi ecc.

Uno dei tanti problemi legati a questa distinzione è quello dell’adeguamento degli impianti di smaltimento alla pericolosità del rifiuto. Al sud soprattutto è però possibile riscontrare un’assoluta incuranza rispetto alla pericolosità e capita spesso di trovarsi di fronte ad esempi di discariche per Rifiuti Solidi Urbani (RSU) che, anche a causa della gestione privata dello smaltimento, contengono altre tipologie senza alcuna norma di sicurezza. Ad Ariano Irpino ad esempio, secondo un rapporto di legambiente sono presenti più di 1800 tonnellate di amianto proveniente dagli impianti dell’ex-Italsider di Bagnoli.

Infine riguardo alla tipologia merceologica degli RSU e alle metodologie di smaltimento possiamo dire che in un ipotetico contenitore dell’immondizia troveremmo il 30% di scarti alimentari (da cui si ricava il compost ossia concime per piante), 23,15% di cartone (riciclabile o riutilizzabile) e all’incirca un 15% di plastica. In poche parole quasi il 70% dell’immondizia che buttiamo può essere riutilizzata almeno una volta.

Sulla base dei dati forniti dal Rapporto Rifiuti 2003 dell’Osservatorio Nazionale sui Rifiuti possiamo suddividere le tipologie di smaltimento tra discarica, inceneritore e altro (R.D. ecc.)

In Europa la discarica è ancora la tipologia di smaltimento più “quotata” nonostante l’approvazione dei regolamenti in materia che la volevano oramai obsoleta. La Grecia ad esempio manda in discarica il 91 % di ciò che butta, la Spagna il 71%, la Francia il 41%, la Germania il 35,5% l’Italia il 67,1% e la Danimarca (che poi non è così piccola) il 10,8. In totale l’Europa butta in discarica 108 milioni di tonnellate di rifiuti, brucia 19 milioni di tonnellate negli inceneritori, mentre 54 mil. di tonn. vengono smaltite in “altro modo”.

Delle 30 milioni di tonnellate tricolori 20 finiscono in discarica, mentre 2,6 tonn. finiscono negli inceneritori.

Differenze sostanziali sono invece riscontrabili nel campo della raccolta differenziata, dove l’Italia si continua a muovere nel solco della tradizionale dicotomia Nord-CentroSud (Tabella 1).

3. Le politiche di gestione

Le politiche di gestione dello smaltimento sono ispirate da alcuni saldi principi.

1. privatizzazione della gestione del servizio. Come già sottolineato in precedenza, l’interesse privato si muove sugli assi cartesiani di costi e ricavi. Ciò ovviamente presuppone che, avendo vinto un appalto sullo smaltimento, il privato possa individuare siti di discarica diversi da quelli indicati, per risparmiare su una delle procedure ad egli affidata.

2. ricorso allo stato di eccezione e sospensione delle regole di gestione democratiche. La situazione di emergenza nello smaltimento dei rifiuti, è divenuta norma al centro sud, dove praticamente tutte le regioni sono commissariate attraverso due formule di assegnazione dei poteri, che possono nominare il commissario prefettizio con particolari poteri speciali, sia nei presidenti delle regioni che in un prefetto del governo. Per quanto concerne i poteri affidati al commissario, possiamo annoverare la discrezionalità dello stesso di sciogliere consigli comunali (come è avvenuto ad Acerra), di espropriare terreni privati per opere legate all’emergenza, di affidare a terzi la scelta dei siti da destinare ad impiantistica e/o discarica, di sciogliere, di concerto con prefetto e questore, assembramenti di protesta, ecc.

3. Assoluta inadeguatezza di mezzi e strutture per avviare una reale raccolta differenziata al sud. Secondo un calcolo effettuato dalla Provincia di Napoli solo il 12% delle spese complessive riguardanti questo settore è destinato alla raccolta differenziata. -----

Per quanto riguarda la Campania, all’inizio dello stato di emergenza rifiuti (1994), il potere è andato al prefetto di Napoli. Successivamente nel 1996 è passato al Presidente della Regione.

Da allora (1996) è stato stabilito un piano regionale con due obiettivi primari:

- 35% di raccolta differenziata RSU;

- 65% di CDR.

A tal fine sono stati inizialmente investiti 132 miliardi di lire per:

- impianti;

- attrezzature;

- assunzione di 2000 lavoratori nell’ambito.

Successivamente sono stati stanziati:

- 18 miliardi per 18 impianti di compostaggio;

- 12 miliardi per 12 impianti di compostaggio domestico;

 12 miliardi per 5 impianti mobili per il trattamento e recupero dei rifiuti “inerti”.

Oggi ci sono solo 2 impianti di selezione, 2 di compostaggio, 2 di trasferenza.

La raccolta differenziata è in media del 2% al 2002, con differenti rendimenti a seconda delle province: i consorzi di SA1 e SA2 a Salerno, AV1 e AV2 ad Avellino e NA3 a Napoli, nel Nolano, sono i migliori nella raccolta differenziata.

La città di Napoli oggi differenzia solo il 10,5% dei RSU prodotti.

I piani “straordinari” hanno solo aggravato la situazione, con costi esorbitanti per la comunità.

In otto anni di gestione commissariale sono stati spesi 800 milioni di euro, ovvero 200 miliardi di vecchie lire all’anno.

Per spedire i rifiuti all’estero dal gennaio 2001 al gennaio 2003 sono stati spesi 240 milioni di euro. Ovvero 600 milioni a treno. L’Italia, tra l’altro, è costretta ad acquistare energia dalla Germania.

4. Convergenza di interessi politico-economici sull’incenerimento. In Italia sono attivi 47 inceneritori e ne sono previsti altri 57 di cui 13 al sud. Si tratta di un’enorme affare economico il cui referente principale è la grande impresa, Fiat in testa. Se pensiamo al costo di costruzione di un inceneritore e al suo mantenimento ci rendiamo conto di quanto sia una scelta assolutamente assistenzialista nei confronti delle grandi imprese, e deleteria nei confronti delle popolazioni locali

La creazione e gestione di mega-impianti a forte impatto ambientale è risultata essere una scelta perdente sotto tutti i punti di vista. Tranne per chi li costruisce e li gestisce.

Da questa serie di considerazioni possiamo cominciare a trarre alcune prime sommarie conclusioni.

Quello che viene definito ciclo integrato dei rifiuti (fig.1) funziona nella realtà come un processo unilineare (fig 2).

L’immondizia una volta raccolta, sia in forma differenziata che non, viene avviata alle discariche (“strumento obsoleto” decreto Ronchi ndr) o ai CDR dove senza alcun processo di selezione viene confezionata in ecoballe che bruciano sia negli inceneritori che nei cementifici (CDR combustibile da rifiuto).

La base del ciclo integrato dei rifiuti dovrebbe essere, invece, la raccolta differenziata, la riduzione dei consumi, il riutilizzo. La totale assenza di strutture necessarie a svolgere questa fase preliminare fa della raccolta differenziata solo uno strumento di propaganda, uno specchietto per allodole a cui il cittadino deve credere, ma che come molte cose che crediamo intensamente essere vere, in realtà non esiste.

4. Problematiche dell’incenerimento

4.1 Salute

Numerose sono le problematiche legate al processo di incenerimento dei rifiuti, dall’ambito della salute dei cittadini e dei lavoratori degli impianti, all’impatto ambientale che la costruzione di tali strutture comporta e, in ultimo, ai costi di gestione che sono sempre altissimi.

La discussione attorno a questi problemi è fin dall’inizio incentrata, da parte della stampa ufficiale, sulla difesa, con argomenti differenti, della costruzione degli impianti di incenerimento. Per sostenere questa posizione, tuttavia, numerosi elementi vengono portati al dibattito, spesso paradossali.

I principali impatti sull’ambiente e sulla salute sono connessi alle emissioni dal camino dell’impianto e alla produzione e successiva gestione di rifiuti solidi (ceneri leggere e pesanti, scorie) che derivano dai processi di combustione. In relazione a questo problema, le aziende costruttrici di inceneritori affermano rassicuranti che i moderni impianti sono dotati di mezzi sofisticati di abbattimento delle sostanze tossiche che tramite un processo di ottimizzazione renderebbero queste scorie non dannose.

In realtà, quello che non viene detto è che la grande eterogeneità dei rifiuti avviati ai processi di combustione permette un’ottimizzazione solo parziale delle scorie. Va aggiunto, poi, che questi “sistemi di abbattimento” determinano una trasformazione delle scorie tossiche dalla fase aeriforme a quella solida o liquida, per cui anche l’ottimizzazione delle scorie volatili finisce per creare una quantità di residui solidi ad alta tossicità che sarà necessario smaltire in seguito.

Ulteriore problema, poi, spesso taciuto, è rappresentato dalla qualità del combustibile che viene inviato all’inceneritore. La quota di combustibile/rifiuto selezionato dagli impianti di CDR è bassa e di cattiva qualità (come testimonia la chiusura, da parte della Magistratura di alcuni CDR, ad esempio in Campania), questo significa che il “termovalorizzatore” si trova a bruciare rifiuti caratterizzati da grande eterogeneità, il che provoca all’interno della caldaia condizioni chimico-fisiche tali da originare reazioni innumerevoli e incontrollabili, i cui effetti sono prevedibili solo in parte.

Questa imprevedibilità delle reazioni che avvengono all’interno della caldaia è un aspetto che viene aggravato da una sostanziale impossibilità a valutare in maniera adeguata e precisa le emissioni di un impianto di incenerimento. La valutazione, infatti, può essere effettuata sulle fasi di funzionamento “normale”, cioè quando l’impianto funziona “a regime”. Fasi interessanti da considerare, invece, sarebbero quelle cosiddette “transitorie”, le fasi cioè di avvio e di spegnimento dell’impianto, durante le quali le emissioni si modificano considerevolmente.

Si passa, per fare solo alcuni esempi, da una temperatura di 978°C nelle fasi “a regime” a 800 - 870°C nelle fasi di avvio/spegnimento; da una concentrazione di Ossido di Carbonio di 230 mg/mc a una di 340 - 1000; o da una concentrazione di 42 nanogr/mc delle condizioni di funzionamento “normale” a una di 1.860 in fase “transitoria” per quanto riguarda i precursori cloroorganici delle sostanze a maggiore nocività. Tali variazioni, significative per quanto concerne la tossicità per le popolazioni residenti in aree limitrofe, non vengono considerate nella valutazione complessiva poiché la valutazione dell’impianto viene eseguita su valori medi che nascondono le situazioni limite durante le quali si verifica un’emissione più elevata di sostanze tossiche. L’esposizione delle popolazioni a rischio, perciò, varia nel tempo e le persone vengono esposte a picchi di concentrazione di tossici che hanno effetti significativi sulla salute ma non vengono registrate dalle valutazioni di impatto ambientale e sulla salute.

Ma questi sono solo alcuni dei tanti paradossi che caratterizzano tutta la vicenda inceneritori. Certamente, fra di essi, quello che riguarda l’impatto sulla salute è il più clamoroso. Poche sono, infatti, le considerazioni in merito sulla stampa ufficiale, numerose le “voci” e pochissimi i dibattiti nei quali si affronti la questione dal punto di vista scientifico.

In realtà sappiamo con certezza che qualsiasi tipo di impianto di incenerimento rifiuti, anche quelli di ultimissima generazione, ha un impatto pesante sul piano ambientale e sanitario in ragione dell’enorme quantità di sostanze tossiche rilasciate nell’ambiente in forma gassosa, solida e liquida. Le più pericolose tra queste sostanze sono rappresentate dai cosiddetti POP (Persistent Organic Pollutants) come diossine e furani (in larga misura prodotti della combustione ad alte temperature di sostanze plastiche e in particolare di PVC), ma anche dai metalli pesanti (mercurio, cadmio ecc.), dal particolato atmosferico fine, dai gas acidi e dai gas serra.

Queste molecole tendono ad accumularsi nell’ambiente ed in particolare nei tessuti e negli organi degli organismi superiori attraverso il processo di “biomagnificazione”. Attraverso la catena alimentare, cioè, le sostanze tossiche si accumulano in enorme quantità negli animali più grandi che si cibano di quelli più piccoli. La loro persistenza nell’ambiente è legata al fatto che non sono bio-degradabili: resistono cioè ai processi bio-chimici messi in atto dagli ecosistemi naturali per decomporli e diffondono per centinaia di chilometri attraverso un’infinità di vie naturali e artificiali (aria, acqua, organismi ecc.). La pericolosità di queste sostanze e la loro provenienza diretta dagli impianti di incenerimento dei rifiuti sono elementi accertati, tanto che la Convenzione di Stoccolma, nel 1972, ha indicato gli inceneritori di rifiuti come una delle fonti maggiori di produzione di POP.-----

Per quanto riguarda i metalli pesanti, invece, in uno studio recente sono state calcolate le emissioni totali da inceneritore e la percentuale che ricoprono rispetto al totale.

Le emissioni degli inceneritori sono generalmente significative, rappresentando nel caso del Piombo il 20,7% del totale, del Mercurio il 32%, del Cadmio il 9%, dell’Arsenico il 3%, contribuendo, quindi, in maniera significativa alla produzione totale di metalli pesanti cancerogeni, rappresentando una vera e propria “bomba ecologica”. Il sistema più sicuro per ridurre queste emissioni è costituito dal non bruciare composti che le contengano. Questo pensiero semplice fa riferimento chiaramente a modifiche profonde del sistema di produzione delle merci che tengano conto del potenziale tossico dei materiali utilizzati. Gran parte dei metalli prima citati provengono, ad esempio, dai coloranti per materie plastiche. È chiaro come una riduzione del contenuto dei metalli negli imballaggi e un sistema di riutilizzo degli stessi, possa rivestire un ruolo importantissimo nella riduzione del danno.

Gli inquinanti vengono prodotti, come detto, in forma liquida, solida, gassosa. A parte, quindi, la dispersione per via aerea, bisogna considerare fra gli “effetti collaterali” anche l’inquinamento delle falde acquifere nonché il “problema ceneri”.

Le sostanze emesse in forma solida, infatti, si dividono in ceneri di fondo (si trovano alla base della caldaia durante la combustione) e ceneri volanti, non trattenute dai sistemi di filtraggio. Le ceneri sono, inoltre, prodotti che necessitano di un sito di stoccaggio, per cui anche quando l’inceneritore funziona a pieno regime, sarà necessario costruire discariche per queste scorie. Quando, perciò, viene detto che gli impianti di incenerimento potrebbero risolvere il problema delle discariche, dobbiamo sapere che si tratta di promesse false in quanto la produzione di ceneri e scorie necessiterà di ulteriori discariche in cui stoccare questi prodotti della combustione.

I sostenitori dell’incenerimento affermano che le tecnologie più moderne sono in grado di tenere sotto controllo queste sostanze. Ma anche questa è una verità parziale: la produzione dei POP e delle altre sostanze tossiche da parte degli impianti di incenerimento rifiuti non può essere evitata; se ne può semplicemente trasformare una quota in “ceneri” (il cui smaltimento rimane alquanto difficile); mentre appunto la parte gassosa continuerà ad inquinare l’atmosfera (con l’aggravante che il particolato assume dimensioni minori e penetra più facilmente negli alveoli polmonari e in circolo).

Questo trasversale partito dei sostenitori del termovalorizzatore, inoltre, forte delle situazioni emergenziali (spesso provocate ad arte e comunque dovute a decenni di incuria e di mancata attuazione di precise leggi e normative esistenti) sono soliti sostenere che l’incenerimento riduce di oltre 2/3 il volume dei rifiuti. Anche questo non è vero: vale, infatti, solo per il rapporto tra rifiuti solidi e ceneri, e non tiene nel debito conto l’immensa massa delle emissioni gassose.

Insomma: sostenere che l’incenerimento elimina i rifuti è una menzogna: si tratta piuttosto di un metodo accelerato di produzione di un’infinità di molecole tossiche (le reazioni termochimiche che si svolgono all’interno degli impianti ne producono a centinaia, una minima quota delle quali è monitorabile e monitorata) generalmente molto più pericolose per l’ambiente e per la salute umana e più difficili da trattare rispetto ai rifiuti stessi.

In molti paesi tutto questo è ormai chiaro e si cerca di normare in modo sempre più restrittivo la materia, così da ridurre l’impatto catastrofico di questa prassi assurda. E molti impianti sono stati chiusi negli ultimi anni per l’impossibilità di mantenere le emissioni entro i limiti permessi. Nel nostro Paese sembra non essere un problema il rischio a cui si sottopongono migliaia di cittadini.

Le categorie più a rischio sono ovviamente quelle più direttamente esposte alle sostanze tossiche emesse: in primis gli addetti agli impianti, ma anche gli abitanti nelle zone limitrofe. Queste popolazioni sono fortemente esposte a inquinanti che, in gran parte, entrano nella catena alimentare e nell’aria che si respira. Questa situazione determina sicuramente una maggiore probabilità di incidenza di numerose patologie a carico dell’apparato respiratorio e cardiocircolatorio, ma anche disturbi endocrini, patologie immunomediate (allergie ecc.), anomalie congenite e connatali, varie specie di cancro.

Per quanto riguarda i lavoratori degli impianti, inoltre, la gamma delle patologie che è possibile riscontrare è molto vasta. A quelle respiratorie - che vanno dalle bronchiti al cancro - vanno aggiunti tumori del sistema linfatico (linfoma non Hodgkin), malattie cardiache, tumori dei tessuti molli (sarcoma).

Gli effetti sulla salute del processo di incenerimento, dunque, coinvolgono diversi apparati dell’organismo umano, avendo un potenziale nocivo che può esprimersi in chi è a diretto contatto con l’impianto ma anche a distanza.

Ricordiamo, infatti, ancora una volta che quando parliamo di incenerimento parliamo di un sistema integrato di cui fanno parte sicuramente il circuito discariche - impianti per il CDR - inceneritori ma anche il sistema produttivo. Dato che è impossibile, oggi, avere luoghi isolati, è chiaro che i territori toccati da questo circuito saranno fortemente relazionati ad altri territori, ad esempio per ragioni commerciali. La nocività degli impianti, perciò, non resta circoscritta all’area in cui l’inceneritore viene costruito ma si espande. Ecco perché il problema è un problema di tutti.

Moltissimi studi epidemiologici documentano il notevole incremento della patologia respiratoria cronica (broncospasmo, tracheobronchiti croniche, tumori) in lavoratori e residenti nei pressi di impianti di incenerimento. Una notevole incidenza di adenocarcinomi laringei è stata dimostrata in alcuni studi italiani ed inglesi dei primi anni ’90 condotti nei pressi di inceneritori di rifiuti speciali (solventi) e di raffinerie. In uno studio epidemiologico svolto in Italia nel 1996 si documentò una elevatissima mortalità per cancro polmonare (x 6-7) in una popolazione urbana residente nei pressi di un inceneritore.

In ampi studi epidemiologici condotti in Inghilterra su circa 14 milioni di persone negli anni 1996-2000, è stato documentato un incremento significativo di neoplasie epatiche (con una mortalità del 30-37% superiore alla media nei residenti a distanze inferiori ai 7 km dagli impianti).

In uno studio francese del 2000 sono stati documentati clusters significativi di sarcomi dei tessuti molli (+ 44%) e di linfomi non-Hodgkin.

L’aumentato rischio di patologia neoplastica in bambini residenti nei pressi di inceneritori o di grandi impianti industriali è stato documentato in vari studi di medio-lungo periodo svoltisi nel Regno Unito tra il 1974 e il 2000.

Gli effetti genotossici degli impianti di incenerimento furono anche dimostrati negli anni ’60 dall’aumento significativo di malformazioni congenite (spina bifida, ipospadia, palatoschisi ecc.) tanto nei figli dei lavoratori addetti agli impianti, quanto in bambini nati nelle vicinanze di inceneritori e industrie chimiche. Studi più recenti in Belgio e in Scozia hanno documentato un aumento delle gravidanze multiple, dei parti gemellari e delle nascite di sesso femminile in popolazioni residenti nei pressi degli impianti (specie se i genitori di sesso maschile erano stati in contatto con emissioni di diossine ed altri endocrine-disruptors).

Molti studi dimostrano la notevole incidenza di patologie da esposizione a diossine (documentata da un aumento dei cataboliti urinari): cloracne (la prima patologia da esposizione a diossina nota come tale, almeno a partire dagli anni ’60: tra i lavoratori esposti ai pesticidi); diminuita funzionalità immunitaria (calo notevole dei B e dei T-linfociti, almeno in parte endocrino-mediata) epatica e renale; diabete (famoso il caso dei reduci del Vietnam esposti all’agente Orange); allergie; tumori a carico di vari organi e tessuti.

Le diossine sono le sostanze cancerogene ed immunolesive più potenti mai testate. A produrle sono alcune fabbriche chimiche (processi di sbiancamento della carta, produzione di pesticidi ecc) e praticamente tutti gli impianti di incenerimento (in special modo per la combustione del PVC e dei residui ospedalieri). Un’altra fonte di contaminazione è stata negli ultimi anni quella alimentare: la carne di animali nutriti con mangimi contenenti oli combusti; latte e carne di animali nutriti con fieno proveniente da campi contaminati (perché vicini a impianti industriali ed inceneritori). Comunque è ormai assodato che circa il 95% delle emissioni di diossina proviene da impianti di incenerimento di residui solidi urbani e di rifiuti speciali (in gran parte ospedalieri).

La diossina si accumula lentamente nei nostri tessuti, si lega in modo selettivo ad alcuni recettori intracellulari e penetra nel nucleo delle nostre cellule: così può danneggiare il DNA e determinare l’insorgenza di neoplasie e malformazioni.

Nonostante l’EPA avesse da decenni incluso la diossina tra le sostanze probabilmente cancerogene, l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) ha classificato diossine e furani tra gli agenti sicuramente cancerogeni soltanto nel 1997. Cioè ben 31 anni dopo Seveso!

Secondo quanto abbiamo appena osservato, il principale impatto sulla salute è legato alle emissioni dal camino dell’inceneritore e alla gestione dei rifiuti solidi derivanti dalla combustione.

È vero che è possibile operare un abbattimento delle sostanze tossiche contenute nelle emissioni gassose, ma è anche vero che questi sistemi operano non un’eliminazione delle scorie ma un trasferimento dallo stato gassoso a quello solido o liquido, il che sposta il problema ma non lo risolve. Saranno necessarie, infatti, nuove discariche controllate per la gestione di questi residui.

Il problema dell’incenerimento è legato soprattutto all’eterogeneità del combustibile utilizzato (solo in parte proveniente dalla selezione operata dagli impianti per CDR). La grande variabilità dei composti presenti in una caldaia provoca condizioni tali per cui si verificano reazioni chimiche incontrollabili e imprevedibili.

4.2. Costi

Ma davvero l’incenerimento dei rifiuti è la risposta più diffusa nei “Paesi avanzati”, come sostengono numerosi opinionisti e politici nostrani? Se consideriamo gli Stati Uniti d’America, scopriamo una realtà interessante quanto poco discussa.

Dalla fine degli anni Trenta ai Settanta, gli USA hanno fatto un utilizzo sempre maggiore degli impianti di incenerimento dei rifiuti. Con il passare degli anni, in seguito al crescere progressivo delle conoscenze scientifiche e della capacità di mobilitazione dei movimenti ambientalisti, è stato necessario dotare gli inceneritori di impianti di abbattimento degli inquinanti sempre più efficienti e, per questo, più costosi. A partire da questo dato, si è registrata progressivamente, negli Stati Uniti, una drastica riduzione degli impianti, che dai 289 della metà degli anni Sessanta sono diventati 114 solo dieci anni dopo.

Tale trend si conferma negli anni successivi. Dall’inizio degli anni Ottanta al 1990, infatti, furono cancellati 248 progetti di costruzione di inceneritori e all’inizio degli anni Novanta era possibile contare, negli USA, solamente 140 inceneritori in funzione, con una capacità di incenerimento di circa 92.000 tonnellate al giorno.

Le previsioni sull’incenerimento, inoltre, che secondo fonti governative avrebbe dovuto essere del 26% entro il 2000 fu ritoccata, a seguito di tale decremento nell’utilizzo degli inceneritori, al 21%. In realtà, le percentuali reali risultarono ancora più basse, la percentuale di rifiuti inceneriti nel 1997, infatti, fu del 16%, mentre il 35% circa dei rifiuti statunitensi veniva indirizzato verso il riciclaggio. Questa tendenza viene poi confermata dai nuovi obiettivi fissati, di raggiungere il 50% del riciclaggio entro il 2000, segno inequivocabile che un’epoca, quella dell’incenerimento come “soluzione finale” era finita.

Il Wall Street Journal, nell’edizione dell’11 Agosto 1993, forniva una serie di spiegazioni interessanti riguardo la progressiva marginalizzazione del ruolo dell’incenerimento negli USA. Argomento principale, cui i cittadini americani sono particolarmente sensibili, quello dei costi. L’uso degli inceneritori, infatti, sarebbe secondo le stime del tabloid americano un vero e proprio disastro, il che spiegherebbe il dietrofront delle amministrazioni pubbliche.

Sempre secondo il “Journal”, gli organismi pubblici che hanno incoraggiato la costruzione degli inceneritori hanno posto poca attenzione agli aspetti economici della questione, costringendo i contribuenti a pagare migliaia di dollari in più all’anno per il trattamento dei rifiuti. Il costo medio del trattamento dei rifiuti tramite incenerimento, infatti, è di circa 56 dollari a tonnellata, il doppio del costo medio del trattamento in discarica. La gestione di questi impianti, insomma, è stato un disastro economico, sapientemente gestito a proprio vantaggio dalle compagnie private che gestivano gli stabilimenti.

Agli inizi degli anni Ottanta, gli USA furono oggetto di una forte campagna di informazione sulla mancanza di spazi per la costruzione di nuove discariche il che, a fronte del progressivo aumento della produzione di rifiuti, voleva dire trovare una soluzione rapida e che ovviasse a questa carenza di spazi. Tale soluzione fu intravista nella costruzione di impianti di incenerimento, come unica via.

Quell’emergenza fu fronteggiata in maniera intelligente dalle compagnie di gestione degli impianti, che proponevano alle amministrazioni locali contratti in cui si costringevano i governi locali per tutto il periodo di attività degli impianti (circa 20 anni) a garantire quantità fisse di rifiuti da trattare negli inceneritori oppure a pagare esose penali. Il tutto, ovviamente, a scapito del riciclaggio e delle politiche finalizzate alla riduzione della produzione di rifiuti.

Tale emergenza, perciò, risultò essere una vera e propria “manovra” realizzata ad arte dai produttori di inceneritori per facilitarne la diffusione.

Nel nostro Paese, a distanza di anni, viene riproposta una strategia simile per imporre gli inceneritori come soluzione alla “questione rifiuti”. Tramite l’utilizzo dei media, infatti, trasformando il nome “inceneritori” in quello più rassicurante di “termovalorizzatori”, questi impianti vengono fatti passare per la panacea di tutti i mali, essendo in grado di risolvere tutti i problemi del ciclo dei rifiuti, dall’impatto ambientale delle discariche agli interessi mafiosi fino alla riqualificazione del territorio e ai problemi occupazionali.

Anche nel nostro Paese, in realtà, gli inceneritori rappresentano un disastro economico i cui costi di gestione non potranno essere coperti dalla vendita dell’elettricità prodotta.

L’impianto proposto per Genova, da 800 tonnellate al giorno, ricaverebbe con la vendita dell’elettricità 16 miliardi di vecchie lire, per un costo complessivo di 23 miliardi necessari alla gestione ordinaria dell’impianto. Il problema delle ceneri, inoltre, non è ancora risolto visto che il tanto sponsorizzato inceneritore di Brescia è costretto a inviare a pagamento le ceneri che produce alle miniere di salgemma tedesche, unico luogo sicuro per abbatterne la tossicità.

Anche in Italia, inoltre, come negli USA, il pareggio economico degli inceneritori dovrebbe essere raggiunto facendo pagare al contribuente 900 lire a chilowattora l’elettricità prodotta con i rifiuti, a fronte delle 300 lire pagate per l’elettricità prodotta con carbone e petrolio. I conti parlano chiaro, si tratterebbe di una tassa aggiunta sui rifiuti con la quale il contribuente italiano manterrebbe l’inceneritore.