Indagine statistico-aziendale sulle privatizzazioni nel modello capitalistico italiano. La via al Profit State europeo

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

Per un’analisi storica ed un approccio critico alle scelte politico-economiche neoliberiste dei processi di privatizzazione

(SECONDA PARTE).

1. Il modello di sviluppo italiano e i falsi obiettivi delle privatizzazioni

 

Il modo migliore per iniziare questo lavoro è quello di ripresentare la premessa a questa analisi-inchiesta che si faceva nel precedente numero di PROTEO.

 

I due articoli che di seguito si presentano, scritti da R. Martufi e L. Vasapollo, vanno letti ed interpretati come un’unica analisi-inchiesta sui processi e modalità diverse di dismissione del patrimonio pubblico; si tratta cioè di una sorte di dossier sulle privatizzazioni che verrà arricchito nel prossimo numero della rivista PROTEO con l’analisi di reali casi studio di aziende privatizzate o in via di privatizzazione e con altre riflessioni politico-economiche.

D’altra parte si tratta di discutere sulle scelte strategiche e le linee di tendenza neoliberiste che, appoggiate e spesso più che sollecitate dai governi di sinistra dei vari paesi europei e non, puntano ad un fittizio risanamento del bilancio pubblico, avendo invece come vero fine l’accelerazione sui processi di privatizzazione di impresa e del welfare per giungere alla distruzione della stessa idea e cultura imperniata sulle relazioni economiche a connotato pubblico, a rilevanza collettiva.

L’abbattimento dello Stato Sociale, le performances di efficienza e di profitto a tutti i costi, l’affermazione dell’individualismo e del darwinismo sociale, la distruzione dei legami di classe, del solidarismo, sostituiti da una logica di mercato selvaggio e non regolamentato, la cultura d’impresa del e nel sociale, la distruzione dello Stato occupatore e regolatore che si trasforma in Profit State, cioè uno Stato garante esclusivamente degli interessi e delle compatibilità d’impresa; sono tutte queste le nuove regole del convivere civile, umano, politico ed economico che il capitale internazionale a forti connotati finanziari sta imponendo, anche se con diversi tempi e modalità.

L’analisi-inchiesta che si presenta nei due successivi articoli ha il semplice compito di voler tentare una ricostruzione storica e una riflessione scientifica corredata da dati quantitativi quanto più recenti a disposizione. Alle forze politiche, sociali e sindacali che hanno scelto la non omologazione ai principi neoliberisti e che non accettano la forma economica, politica e sociale del capitalismo selvaggio come ultima spiaggia dell’umanità, a loro il compito di trarne le considerazioni di carattere più direttamente politiche e di lanciare le conseguenti battaglie e iniziative del e nel sociale.

Il contributo di CESTES-PROTEO è quello di tentare di fornire gli arnesi scientifici, gli strumenti di riflessione per stimolare e provocare culturalmente tutti quei tentativi, le prove per un’inversione di tendenza capaci di realizzare quei processi di trasformazione reale in grado di superare radicalmente lo stato presente delle cose.

D’altra parte come racconta l’Anziano Cigno Nero Reale: “L’UNICA MANIERA PER SUPERARE UNA PROVA E’ AFFRONTARLA. QUESTO E’ INEVITABILE”.

 

Di seguito con questa “seconda parte” concluderemo un’iniziale analisi-inchiesta sulle privatizzazioni ponendo l’accento, oltre che con altre considerazioni generali di natura politico-economica, su ulteriori analisi di nuovi e recenti casi studio di aziende privatizzate o in via di privatizzazione. Ciò per sottolineare come il modello capitalistico italiano abbia ormai definitivamente abbandonato il riferimento all’economia mista per delineare un proprio profilo del Profit State europeo che, preparandosi all’assalto finale neoliberista, punta alle privatizzazioni dei settori strategici, dei servizi pubblici e all’abbattimento del Welfare State dell’universalismo dei diritti da sostituire con elargizioni caritatevoli ai più miseri da parte dello Stato-Impresa.

Il più importante ed evidente vincolo che condiziona il processo di crescita delle imprese ed il recupero di competitività dell’economia italiana sta nella struttura stessa del sistema industriale e nella scarsa diffusione dei fattori indispensabili per l’acquisizione di vantaggi competitivi. La struttura dell’industria italiana è composta da un numero di grandi imprese troppo piccolo rispetto alla reale dimensione della nostra economia, da una pluralità di piccole e medie con una dimensione mediamente inferiore a quella che lo stesso tipo di impresa ha in altri sistemi industriali.

Si giunge allora a capire che la piccola impresa è una realtà eterogenea perché risponde ad una pluralità di funzioni che ne consentono l’esistenza nel capitalismo maturo, e tale configurazione aziendale risponde a specifiche esigenze di ristrutturazione del capitale internazionale che trovano in alcune zone dell’Italia alcune peculiarità per uno sviluppo esplosivo. Esistono meccanismi di sopravvivenza della piccola impresa comuni ai diversi modelli di capitalismo, ma che trovano terreno fertile in contesti in cui il mercato del lavoro assume dinamiche particolari, come nel nostro Paese. E’ per questo che si sviluppano fenomeni economico-produttivi derivanti dall’importanza della valutazione della collocazione dell’Italia nella divisione internazionale del lavoro oltre che del capitale.

Al di là dell’aspetto dimensionale, l’elemento di maggiore debolezza strutturale del sistema industriale italiano è rappresentato dalla natura degli assetti proprietari e dalla loro difficile adattabilità alle esigenze che oggi il sistema industriale manifesta ai fini del suo rilancio.

Sempre più frequentemente nel mondo occidentale, ma da qualche anno anche nei paesi dell’Europa dell’est, i mutamenti nella tecnologia, l’introduzione di nuove tecniche di gestione aziendale, la specializzazione delle risorse umane e finanziarie richiedono continui e frequenti adeguamenti nella proprietà del capitale. Negli ultimi anni si è verificata una graduale evoluzione nei sistemi proprietari e di governo delle imprese per cercare di equilibrare e di rendere minimi i disagi che questi modelli comportano. Si assiste in sostanza ad un graduale riavvicinamento dei due modelli opposti delle Public Companies e delle imprese consociative; in quanto mentre nel modello capitalistico anglosassone ci si avvia verso un azionariato più stabile, nel modello renano-nipponico diminuisce l’incidenza degli incroci azionari e si tende ad allargare la partecipazione e la dipendenza delle imprese direttamente dal mercato finanziario.

In Italia, come si è ampiamente documentato nel n.0 di PROTEO nell’inchiesta relativa ai profili locali dello sviluppo che si riassume di seguito in alcune sue linee generali, in realtà la situazione che si è venuta a creare è quella di una sempre maggiore effettiva concentrazione gerarchica nella gestione e nella proprietà delle imprese.

A tale configurazione del modello di capitalismo italiano è funzionale anche la marginalizzazione dell’economia del Sud e la formazione periferica del C-N-E (Centro-Nord-Est); fermo rimanendo che nel N-O (Nord-Ovest) esiste una forma dell’industria con caratteri specifici che si è posta come forma dominante dello sviluppo nazionale, sia nelle varie articolazioni settoriali sia sul territorio. Tale capitalismo a concentrazione proprietaria nelle mani delle grandi famiglie, comunque dominante e centrale dell’economia italiana, corrisponde e si configura come centralista e basato sull’industria caratterizzata da maggiori dimensioni d’impresa, maggiore intensità di capitale fisso, maggior uso di tecnologie moderne e maggiore innovazione, nonché un carattere strategico della produzione in relazione agli altri comparti. Su queste basi il N-O sembra essere l’unica area a rispettare i termini imposti da questi parametri propri dell’economia del capitalismo delle grandi famiglie e che ha in qualche modo condizionato e reso funzionale ai propri interessi anche il ruolo produttivo e il peso politico delle imprese pubbliche e dell’economia pubblica in genere.

Anche il mondo delle piccole e medie imprese è giunto ad un importante punto di svolta. In aggiunta alle difficoltà associate all’estendersi ed all’inasprirsi della concorrenza, le piccole e medie imprese (PMI) italiane si trovano ad affrontare un importante e fondamentale passaggio generazionale che potrebbe risultare decisivo, non solo dal punto di vista degli assetti proprietari, ma anche per l’organizzazione e la divisione del lavoro tra le imprese.

La condizione fondamentale per il consolidamento del sistema locale è sancita allora da variabili quali l’innovazione tecnologica-organizzativa, il sistema informativo sviluppato, un alto ricorso alle risorse immateriali, ma soprattutto dalla capacità di controllo del mercato del lavoro, di deregolamentazione e precarizzazione dei rapporti di lavoro, da flessibilità delle remunerazioni, infine cioè da forme di regolazione sociale compatibili con il nuovo assetto produttivo, espellendo ed emarginando le soggettualità sociali non omologabili, conflittuali e non compatibili. E allora il modello di sviluppo locale si adatta, si trasforma in una molteplicità di localismi nel tentativo di piegare comunque la “resistenza” della forza lavoro e dei soggetti sociali.

Contrariamente ad altri sistemi di PMI, quelle italiane sono tipiche imprese dove proprietà e controllo coincidono. Questa caratteristica non rappresenta indubbiamente un vincolo in se stesso, può diventarlo nel momento in cui, di fronte ad un passaggio generazionale, il controllo familiare non trova più continuità e quindi anche la proprietà viene messa in discussione.

Quando queste difficoltà colpiscono imprese fortemente integrate all’interno di distretti industriali, come spesso capita in Italia, allora gli effetti del passaggio possono anche estendersi alle organizzazioni della produzione ed alla divisione del lavoro tra le imprese con la spaccatura dei distretti industriali e la conseguente perdita di quelle economie associate a quel particolare tipo di organizzazione produttiva.

Il modello del capitalismo italiano assume, comunque, come risorsa principale ancora soprattutto le nuove forme del distretto industriale ed è caratterizzato da: specializzazione delle strutture e della forza lavoro all’interno di reti di imprese in continua trasformazione, con multilocalizzazione delle attività in presenza di strutture dinamiche e continuamente mutevoli, ma al contempo si realizza un massiccio ricorso alla flessibilità salariale, all’intensificazione dei ritmi, all’elevata divisione del lavoro che spinge alla precarizzazione e alla diffusione della negazione dei diritti sindacali. Si giunge così alla determinazione di nuove soggettualità locali del lavoro, spesso ai margini del sistema produttivo ufficiale, che svolgono attività sottopagate, lavoro nero che pur di aver garantito un minimo reddito sono costrette ad accettare condizioni qualitative di lavoro tipiche dell’inizio del secolo.

Al di là dei vincoli strutturali, la competitività del sistema industriale italiano è seriamente minacciata dalla scarsa diffusione dei fattori indispensabili alla competitività industriale. Il primo ed il più importante tra essi è l’assenza di concorrenza sul mercato, spesso ammortizzata anche dal “sistema tangentopoli”. Oltre a contribuire ad alimentare il processo inflazionistico, la mancanza di concorrenza sul mercato non incentiva le imprese a ricercare innovazioni e qualità nei prodotti e nei servizi erogati. Questi ed altri problemi che minacciano la competitività dell’industria italiana possono essere in parte risolti solo attraverso una azione di governo dell’industria, attraverso cioè una politica industriale alla quale deve affiancarsi un’efficace politica della concorrenza unita ad un nuovo ruolo, non clientelare e assistenziale, di uno Stato interventista e occupatore. Per poter acquisire una maggiore competitività, l’industria italiana necessita non solo di un più elevato livello di efficienza nei mercati dei fattori produttivi e dei servizi, ma anche di uno sviluppo e di un regolamento-controllo statale del mercato dei diritti di proprietà e cioè in quel mercato dove è la proprietà dell’impresa ad essere oggetto di transazione.

Nel momento in cui, dopo che il termine era quasi entrato in disuso, la Commissione della Comunità Europea ha riparlato di politica industriale, in Italia non si è compresa l’importanza e la necessità di un’azione di governo dell’industria, della proposizione di un moderno e diverso modello di sviluppo basato anche su un ruolo produttivo e strategico dell’impresa pubblica.

La riflessione complessiva per la riapertura di un dibattito sui processi di trasformazione dell’economia e della società, deve partire da una prima fase di studio, di approfondimento scientifico che consiste nel classificare l’economia e le modalità di sviluppo di un territorio, di un’area economico-geografica, secondo le caratteristiche delle unità produttive in esso localizzate, giungendo conseguentemente ad identificare la forma che spazialmente assume la distribuzione e l’interdipendenza delle attività produttive. Verificando poi se emergono specializzazioni economiche capaci di generare modificazioni nel mercato del lavoro, nelle tipologie del lavoro, nel tessuto sociale, nella quantità e qualità delle risorse umane espulse o messe ai margini del nuovo assetto socio-produttivo che si va definendo.

Seguendo tale impostazione ne risulta che un’appropriata, articolata e indirizzata economia pubblica, anche a carattere locale, può far sì che quel determinato territorio assuma nuovi connotati su cui innescare uno sviluppo compatibile socialmente, a partire dalle nuove caratteristiche sociali e demografiche della popolazione residente. Per far ciò bisogna saper identificare la forma che possono assumere le imprese pubbliche e quali gruppi sociali sono in grado di contraddistinguere una diversa, complessiva ed efficiente economia pubblica a valenza sociale che in precedenza era propria della fabbrica ed in questa si identificava e si organizzava.

Non si è, invece, elaborata più alcuna proposta seria e alternativa di sviluppo e, dopo aver eliminato l’anomalia rappresentata dal Ministero delle Partecipazioni Statali, si è commesso l’errore di sdoppiare nuovamente la politica industriale tra due Ministeri: quello dell’Industria e quello del Tesoro che si è fatto carico del processo di privatizzazione.

Solo attraverso un allargamento della base delle grandi imprese ed un rafforzamento del tessuto di PMI, accompagnato da una equilibrata ed efficiente economia pubblica, l’industria italiana avrebbe potuto e potrebbe rimettersi in corsa e recuperare quei margini di competitività di cui tanto necessita. E’ importante il recupero tecnologico in settori per il nostro Paese tradizionali e lo sfruttamento della adattabilità alle esigenze ed alternative che si presentano di volta in volta, che sono possibili solo con un serio governo di indirizzo dello sviluppo che non può prescindere dal fondamentale ruolo pubblico nei servizi essenziali e nei settori strategici dell’economia.

Bisognava capire questo nesso indissolubile fra mutamenti delle linee dello sviluppo e ruolo locale e centrale dell’industria pubblica e dell’economia pubblica in genere. Invece continua il vecchio modo di intendere e di fare politica industriale: viene utilizzata l’industria tradizionale (produzione standardizzata) nelle aree periferiche a basso costo del lavoro e bassa conflittualità, innalzando i livelli di precarietà sociale; l’industria innovativa (produzioni creative) nelle aree centrali con mercato del lavoro altamente specializzato andando a determinare una sorta di aristocrazia operaia e rendendo marginali ed emarginati gli altri soggetti economici del lavoro; si pensi ai lavori del pubblico impiego, agli artigiani, ai piccoli commercianti, ai lavoratori precari, ai sottoccupati, alle sempre più folte masse di disoccupazione palese o più meno occulta, fino a giungere alle aree sempre più fitte di espulsione e completa emarginazione produttiva, reddituale e sociale.

Se la prima fase nel cosiddetto passaggio al post-fordismo è consistita nell’introduzione massiccia di tecnologia labour-saving, nella riduzione drastica degli organici, nella distruzione di ogni forma di contropotere operaio nei luoghi di lavoro, nella fase successiva si procede a destrutturare lo stesso rapporto lavorativo, alterando quello schema retto dall’unità di tempo, luogo ed azione che caratterizzava la produzione di massa. Si generalizzano contratti atipici, a termine, part-time, di formazione lavoro, i lavori socialmente utili, il lavoro grigio e nero, tutti caratterizzati dalla precarietà e da un ridimensionamento dei diritti. Nel contempo muta la stessa forma di impresa, che si fa decentrata, delocalizzata ed a esternalizzazione produttiva, rafforzando i propri nessi organizzativi, e a rete.

Continua, nel contempo, la tendenza del nostro assetto produttivo alla terziarizzazione, spesso realizzata attraverso flessibilità del lavoro e delle remunerazioni, lavoro atipico e non garantito, sottoccupazione, supersfruttamento, precarizzazione sociale in genere. Il processo di ristrutturazione e ridefinizione del modello di capitalismo italiano ha quindi bisogno di nuove logiche interpretative, di nuovi strumenti ignorati dalle analisi economiche di impostazione “industrialista”.

Tali processi di trasformazione sono molto spesso ignorati, i nuovi soggetti economici non sono protetti, molto frequentemente neppure considerati, perché è predominante la cultura delle compatibilità industriale.

E’ comunque importante interpretare l’evoluzione del modello di sviluppo anche considerando il terziario aggregato nelle sue ripartizioni territoriali e sociali, poiché ciò conferma il superamento sia della vecchia concezione del “dualismo industrialista” sia la concezione dello sviluppo economico in un modello cosiddetto a “pelle di leopardo”; anche quest’ultima ipotesi, caratterizzata da mille localismi che non hanno alcun denominatore comune, non ha più riscontro. -----

In tale contesto la definizione di modello liberista di sviluppo incentrato sul Profit State rende pienamente comprensibile anche il ruolo che l’impresa pubblica deve svolgere nell’economia complessiva del Paese, e come le specifiche e differenti funzioni attribuite all’economia pubblica a livello centrale e nelle singole aree locali, siano il tessuto connettivo capace di “legare” in un tutt’uno omogeneo il nuovo modo di essere e di presentarsi dello sviluppo capitalistico.

Ciò spiega ancor meglio i connotati anche qualitativi, oltre che quantitativi, della ristrutturazione del capitale e la ridefinizione dell’economia mista, anzi la sua sostituzione con un’univoca politica di privatizzazioni e come essa assuma sempre più un ruolo fondamentale per comprimere il conflitto di classe nelle diverse forme che va assumendo.

Le imprese del panorama industriale italiano che necessitano oggi più che mai di un riassetto e di un rilancio sono proprio quelle appartenenti alla sfera pubblica. L’impresa pubblica italiana si trova oggi ad operare in condizione di assoluta incertezza, che certamente non agevolano il già difficile recupero che in alcuni comparti sembra addirittura impossibile. A generare incertezza sono da un lato l’affievolirsi, almeno apparente, della influenza dei partiti, dall’altro l’accelerazione vertiginosa impressa al processo di privatizzazione, con tutte le sue conseguenze economiche, politiche e sociali. Il diverso modo, meno soffocante nelle apparenze, di presentarsi del controllo politico, paradossalmente spiazza il sistema delle imprese pubbliche che si trovano improvvisamente di fronte ad una ridefinizione della loro funzione obiettivo. Operare sul mercato con diversi, rispetto ai precedenti, sistemi di protezione, rappresenta per l’impresa pubblica italiana un passaggio che, con drammaticità, mette in evidenza la sua strutturale debolezza. La più evidente si riscontra nella incapacità di saper anticipare e rispondere al mercato governando i processi di trasformazione; anche l’incapacità di riposizionarsi sul mercato e di internazionalizzare le proprie attività sono un chiaro esempio di questa debolezza.

Tra l’altro la crisi del vecchio modo di essere dell’impresa pubblica ed il complessivo ruolo dell’economia pubblica entrano in crisi anche in Italia nel momento in cui entra in crisi lo stesso modello keynesiano di supporto allo sviluppo. Il successo delle politiche keynesiane sta nella loro capacità di farsi interpreti delle nuove forme di accumulazione fordista, neutralizzando contemporaneamente la carica rivoluzionaria e sovversiva contenuta nelle idee della rivoluzione bolscevica del ‘17. Il modello keynesiano è strumentale per favorire forme di progresso civile e di miglioramento delle condizioni di vita delle classi meno abbienti, senza però intaccare i margini di profittabilità delle grandi e medie imprese capitalistiche. La crisi del modello fordista comporta la crisi delle politiche keynesiane dal momento che quest’ultime rappresentano la più avanzata sintesi politica del compromesso sociale.

A questo va aggiunto che al rilancio ed alla ridefinizione del ruolo dell’impresa pubblica certamente non contribuisce, come si è già detto, la mancata chiarezza del Governo sulle linee di indirizzo complessive dell’economia che sembrano esclusivamente incentrate sul tema delle privatizzazioni.

Il processo di privatizzazioni del modello capitalistico italiano, dopo il 1995, è arrivato ad uno stadio molto complesso e difficile, anche perché in questa fase si sta procedendo alla dismissione di società ed enti che operano in regime di monopolio, interessando settori fondamentali e strategici per l’economia del Paese nel suo complesso, quali le telecomunicazioni, i trasporti, le fonti di energia.

Le privatizzazioni riguardano, quindi, interessi pubblici talmente rilevanti, garantiti finora dalla proprietà pubblica, che è necessario analizzare il fenomeno con molta attenzione da ogni punto di vista.

Dal momento che le privatizzazioni vengono considerate una fonte di finanziamento a risanamento del debito pubblico, va sottolineato che è ormai provato che non possono intendersi come una soluzione a tale problema, in quanto è scientificamente dato che una stabilizzazione del rapporto debito/PIL si può ottenere solo con un programma radicale di privatizzazioni, ossia che superi l’ordine del 15% del PIL. A riguardo si ricorda che: “Nel rapporto prodotto nel novembre 1990 dalla commissione Scognamiglio il capitale statale potenzialmente privatizzabile è stato valutato tra un minimo del 13,4% del PIL ed un massimo del 16,3% del PIL (cioè tra 175 mila miliardi di lire e 214 mila miliardi di lire). Le aziende statali sono state divise in tre gruppi:

A) Società di proprietà statale: CREDIOP, IMI, INA, ENI, ENEL.

B) Aziende pubbliche non direttamente possedute dallo Stato: Banca Nazionale del Lavoro, Istituto S.Paolo di Torino, Monte dei Paschi, Banco di Napoli, Banco di Sicilia, Banco di Sardegna, Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano, Banco di Roma, Casse di Risparmio e Monti.

C) Altre aziende industriali controllate dalle Partecipazioni Statali. Circa 150 aziende sono incluse in questo gruppo, tra le principali Finmeccanica, Stet, Finmare, SME, Finsiel, Sofin, Ilva, Iritecna, Fincantieri, Cementir, Alitalia, Rai, Spi, Iritech.

La Commissione ha raccomandato la privatizzazione del gruppo A) prospettando dei proventi nell’ordine del 5-7% del PIL.” [1]

Per avere un metro di paragone relativamente al livello del PIL nei 15 paesi dell’Unione Europea, si veda la Tab.1 e nella Tab.2 quanto del Valore Aggiunto totale sia imputabile alle diverse branche produttive (attenzione particolare merita l’ultima colonna della Tab.2 in cui è riportato il Valore Aggiunto imputabile ai servizi pubblici).

Nonostante i dati delle precedenti tabelle e le indicazioni della Commissione dovrebbero indicare nell’Italia un paese con un significativo impatto sul PIL dei settori pubblici e una conseguente cautela, qualitativa e quantitativa, nei processi di privatizzazione, risulta invece che l’illusoria chimera della riduzione del debito pubblico ha fatto si che si procedesse in modo estremamente rapido e senza porsi particolari limiti. Dati recenti confermano che gli incassi da dismissioni nel nostro Paese superano di gran lunga quelli di altri stati “veterani” delle privatizzazioni (ad es. Gran Bretagna).-----

Infatti, pur considerando l’Italia, in confronto ad altri partner europei, come un paese che si appresta a muovere i primi passi nella pericolosa e dannosa direzione del Profit State europeo che impone le privatizzazioni come direttrice fondamentale dello sviluppo, va sottolineato il fatto che dal 1993 (anno in cui ha avuto inizio il processo di privatizzazione del Credito Italiano) al 1996 (cfr. Graf.1), si sono avute dismissioni che hanno portato allo Stato una cifra pari ad oltre 65.000 miliardi di lire e sono state realizzate ulteriori decine di migliaia di miliardi fino ad oggi e la vera accelerazione è prevista a partire dal 1999.

Come si vede dal Graf.1 nel periodo considerato l’Italia si è posta alla guida del modello neoliberista europeo fondato sulla dimensione e sulla cultura del privato sempre e comunque.

Nel 1997 è proseguita l’attività di dismissione delle partecipazioni in società controllate in via diretta o indirettamente dal Ministero del Tesoro. Dal 1994 al 30 giugno 1997 i proventi da privatizzazione hanno alimentato il fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato [2] con somme derivanti da dismissioni patrimoniali per 23.500 miliardi di lire, su un totale di introiti di oltre 31.000 miliardi di lire circa; infatti solo nei primi mesi del ‘97 sono stati anche trasferiti al fondo 8.500 miliardi di lire frutto della dismissione della partecipazione del Tesoro nell’ENI, avvenuta a dicembre 1996. Oltre alle operazioni relative alle società direttamente controllate dal Tesoro (pacchetto ENI, pacchetto Banco di Napoli, pacchetto azionario Istituto Bancario San Paolo di Torino) bisogna anche considerare le operazioni realizzate dal gruppo IRI che dal luglio 1992 al 31 dicembre 1996 ha realizzato per cessioni circa 21.000 miliardi di lire di cui oltre la metà da operazioni realizzate in forma diretta dall’IRI s.p.a.. Si raggiungono 24.500 miliardi di lire se all’ammontare precedente si aggiunge il valore dei debiti finanziari trasferiti superiori ai 3.500 miliardi di lire. Vanno infine considerate le operazioni realizzate dal gruppo ENI che dal luglio’92 a fine ‘96 ammontano a circa 6.000 miliardi di lire e il valore dei debiti finanziari trasferiti è di circa 2.500 miliardi di lire con un effetto finanziario complessivo di circa 8.500 miliardi di lire.

Per quanto riguarda il 1997 si ricorda che nel primo semestre l’IRI s.p.a. e le società direttamente controllate dall’IRI hanno realizzato operazioni per un valore complessivo di circa 975 miliardi di lire (non sono compresi gli importi derivanti dal trasferimento al Ministero del Tesoro della partecipazione IRI nella STET), che includono il deconsolidamento di debiti per quasi 16 miliardi di lire verso il sistema bancario. Anche nel secondo semestre del 1997 il gruppo IRI ha effettuato operazioni che hanno realizzato movimenti di risorse per un valore di circa 40.465 miliardi di lire ( compreso il deconsolidamento di debiti verso il sistema bancario di circa 14.104 miliardi di lire).

Nel febbraio 1998, in una relazione fatta in Parlamento, il Ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi, ha elencato i principali compiti delle privatizzazioni nel nostro Paese ed in specifico :1) permettere una dismissione selettiva del patrimonio statale i cui ricavi influenzano il contenimento del debito pubblico; 2) distogliere lo Stato da quei settori nei quali non è più comprensibile un suo ruolo da imprenditore; 3) contribuire al rafforzamento dei mercati finanziari.

“Risanare sotto ogni profilo l’industria pubblica, creare un mercato dei capitali, ristabilire una linea di demarcazione tra la proprietà pubblica e privata; al tempo stesso diminuire la crescita del debito pubblico. Questi obiettivi sono stati raggiunti con un’impostazione di politica economica di cui le privatizzazioni sono componente essenziale... I miglioramenti intervenuti dipendono dall’aver assoggettato alla disciplina del Codice Civile l’industria di Stato... Tutto questo ha premiato le decisioni che il Tesoro, di volta in volta, ha preso al fine di valorizzare le società prima della loro vendita. E’ il caso dell’ENI, per il quale si è seguita la linea di concentrare l’attività industriale sulle <attività chiave> e di dismettere le attività non strategiche... Si, il Tesoro vuole valorizzare prima di vendere... In conclusione, la valorizzazione non è in contraddizione con la privatizzazione. Anzi, lo ripeto, ne è una doverosa fase preparatoria... In conclusione, un lungo e fruttuoso cammino che intendiamo continuare...”. [3]

L’ottimismo e la soddisfazione di Ciampi ci fanno riflettere. Perché è giusto valorizzare le imprese pubbliche per poi venderle? Non sarebbe meglio a fini di un’ottimizzazione in senso sociale del beneficio da servizio, valorizzarle, accrescerne la funzionalità per consentire a tutti i cittadini di goderne gli effetti? Non si tratta invece di un’ottimismo derivante dall’essere riusciti ad imporre nel nostro Paese il superamento del modello di economia mista per approdare alla cultura e alle dinamiche economiche del Profit State?

La necessità di intervenire in settori economici nei quali l’iniziativa privata era in difficoltà ha portato in Italia alla nascita delle partecipazioni statali, e ci sembra che questo sistema abbia dato in passato notevoli risultati positivi, nonostante le sue contraddizioni e i meccanismi e i legami a volte perversi fra mondo partitico e gestione economica. Basti ricordare, ad esempio, l’impulso dato allo sviluppo economico italiano negli anni dal dopoguerra agli inizi degli anni ‘70, anche se ciò ha spesso provocato squilibri settoriali e territoriali oltre a quelli economico-redistributivi.

E’ importante ricordare che gli obiettivi di un’impresa pubblica devono essere in grado di:

1. giustificare la presenza pubblica nei settori della difesa o strategici per la sopravvivenza dell’economia nazionale;

2. promuovere il sostegno delle imprese nascenti, sprovviste delle necessarie competenze tecniche ed economiche (economie di scala);

3. favorire il sostegno di imprese presenti nei settori caratterizzati da redditività di lungo periodo e da investimenti altamente rischiosi (settori fortemente disincentivanti per investimenti di natura privata);

4. permettere il perseguimento di politiche strutturali dell’occupazione;

5. favorire la costituzione - attraverso la creazione di imprese pubbliche - di esternalità per il sistema economico;

6. eliminare alcune distorsioni, derivanti dal grado di monopolio (imperfezioni informative), attraverso la presenza pubblica nel settore bancario, energetico e assicurativo.

E’ proprio la presenza di questi obiettivi che, caratterizzando fortemente la natura “pubblica” di un’impresa, ne giustifica l’esistenza. Obiettivi questi, che richiedono quindi una valutazione critica, in particolar modo proprio quando si procede alla ridefinizione del confine Stato-mercato nella realizzazione di un programma di privatizzazione. Vi è un secondo ordine di problematiche......Si tratta dell’esistenza di una serie di diritti da considerarsi alla base dei rapporti tra gli Stati e i cittadini i quali corrispondono ad attività che non possono essere rimesse per intero all’iniziativa privata. Intendiamo parlare dell’istruzione, dell’assistenza sanitaria di base, di alcuni tipi di interventi previdenziali e assistenziali e di altri settori nei quali è da considerarsi irrinunciabile un intervento pubblico prevalente a garanzia di diritti da considerare indisponibili”. [4]

 

Ci sembra giusto ricordare che l’articolo 42 della nostra Costituzione prevede due forme di proprietà: quella pubblica e quella privata ed è previsto che quest’ultima sia espropriata per motivi di pubblico interesse. Non è menzionato in alcun articolo della nostra Costituzione il fatto che sia la proprietà pubblica ad essere abolita, magari per motivi legati all’adeguamento alle politiche di globalizzazione finanziaria di un Profit State che si vuole come unico modello di sviluppo economico ed umano-culturale in Europa e nel mondo intero!

 

2. Gli altri “casi studio”

Di seguito, proseguendo la disamina cominciata nel precedente numero di PROTEO, si analizzeranno dei casi-studio ritenuti tra i più interessanti e di importanza fondamentale nella scena politica ed economica del nostro Paese. Il fine è come sempre quello di rendere più chiara e semplice la lettura di processi che stanno sconvolgendo il nostro sistema economico e politico e che avranno ripercussioni non solo sull’immediato futuro della nostra economia ma anche e soprattutto nel modo di essere, di vivere, di rapportarsi socialmente della gente comune, in un Paese che anche grazie a retroterra culturali diversi (si pensi ad esempio alle tradizioni della cultura cristiano-cattolica e di quella di uno dei più importanti movimenti comunisti e della classe dei lavoratori) ha sempre privilegiato l’assetto pubblico dell’economia rispetto agli altri paesi a capitalismo avanzato.

Si inizia questa disamina a partire da tre importanti aziende (ACEA, Centrale del Latte di Roma e Aereoporti di Roma) a carattere locale che operano soprattutto sull’area romana, ma sicuramente a rilevanza strategica non solo per l’economia locale, e comunque capaci di rappresentare una tendenza anche per altre specifiche entità territoriali dove si vuole rappresentare l’impostazione anche geograficamente diffusa del modello neoliberista del Profit State.

 

ACEA

L’Acea è un’azienda legata alla evoluzione politica, sociale ed urbanistica della città di Roma. Va ricordato che nel 1900 l’illuminazione della città era garantita da quattro sistemi diversi: il gas, l’elettricità, il petrolio e l’acetilene. Il 20 Settembre 1909, a seguito di un referendum, fu decisa la costituzione un’azienda elettrica municipalizzata ed il 20 Luglio del 1912 c’è stata la prima seduta dell’amministrazione dell’Azienda Elettrica Municipalizzata (A.E.M., attraverso la centrale Montemartini). Negli anni seguenti l’azienda si è consolidata e nel 1926 si è consorziata con la SAR; nel 1934 è stata attribuita all’azienda anche la competenza dell’approvvigionamento idrico (dopo il conflitto avuto con la Società Acqua Marcia) e nel 1937 l’AEM si è trasformata in AGEA (Azienda Governativa Elettricità ed Acque). Dopo il secondo conflitto mondiale si è avuto il cambiamento di nome da AGEA in ACEA e nel 1959 si è avuta l’autosufficienza nella produzione di energia.

La nazionalizzazione degli impianti delle società elettriche private non ha interessato l’ACEA, in quanto da questa operazione erano escluse le aziende municipalizzate. Dal 1984 l’ACEA si è occupata del teleriscaldamento e nel 1985 anche della depurazione delle acque; inoltre nel 1995 è stata affidata all’azienda la gestione degli impianti di semafori cittadini.

Va ricordato poi che l’ACEA controlla diverse società tra le quali la SMT S.p.A, la ECOMED s.r.l., la TESIMA s.p.a., la SOGEIN s.p.a. ed ha partecipazioni nelle Assicurazioni di Roma e nel Consorzio Pro Acque.

Nel 1992 l’ACEA per effetto della legge 142/90 è divenuta azienda speciale,ossia un soggetto autonomo di diritto, che come un normale imprenditore deve osservare le norme del Codice Civile ed ha l’obbligo del pareggio di bilancio.

Il 1 Gennaio 1998 l’ACEA è divenuta s.p.a.; attualmente il Comune di Roma possiede il 95% delle azioni ed il rimanente 5% è dell’AMA; è però deciso il collocamento sul mercato del 49% delle azioni.

Prima della trasformazione dell’ACEA in s.p.a la struttura organizzativa comprendeva oltre alla Direzione Generale una Divisione Energia, una Divisione Ambiente e una Divisione Servizi. Dal Gennaio 1998 nella nuova struttura organizzativa assume un ruolo predominante l’Amministratore Delegato dal quale dipendono : il Direttore Generale Operativo, la Divisione Servizi, la Direzione Finanza e Sviluppo, la Direzione Amministrazione e Controllo, la Direzione Legale -Societario e Affari Generali, la Direzione Personale e Organizzazione, l’Unità Qualità ed Internal Audit e l’Unità Marketing.

Se si analizza la consistenza numerica del personale (cfr. Riquadro 1 e Graf.2) si nota che mentre si ha un trend crescente negli anni 1988-1992 (con un solo valore negativo nel 1991), si ha un andamento decrescente dal 1993 in poi (con un valore positivo solo per l’anno 1996).

 

E’ estremamente interessante notare nel periodo di “preparazione forzata” alla privatizzazione l’andamento delle assunzioni e delle cessazioni di rapporto di lavoro (spesso in qualche modo incentivate) (Graf.3) e delle modalità tipologiche nella ripartizione per ruolo del personale dipendente (vedi Riquadro 2 e Graf.4.).

E’ importante ricordare che il 15 Giugno 1997 i cittadini romani sono stati chiamati ad esprimere il loro parere sulla privatizzazione di questa azienda. Nell’agosto del 1996, infatti in opposizione alla scelta di privatizzazione della Centrale del Latte di Roma e dell’ACEA, è stata avviata una raccolta di firme per promuovere un Referendum popolare.-----

Il 22 Ottobre 1996 la giunta ha autorizzato la messa in liquidazione dell’ACEA determinando una forte contrasto politico e sociale da parte delle opposizioni; nonostante la delibera il comitato promotore [5] del Referendum ha continuato la raccolta di firme e a Novembre 1996 erano state raccolte 70.000 firme.

Il 15 Giugno 1997 è stato confermato grazie al Decreto Legge Bassanini come data del referendum; pur essendo stato raggiunto il Quorum di votanti necessario alla validità del Referendum i risultato sono stati sfavorevoli ai sostenitori del NO, in quanto per la privatizzazione della Centrale del Latte i SI sono stati il 50,60% e i NO il 49,40%, mentre per la privatizzazione dell’Acea il SI ha ottenuto il 52,05% e il NO il 47,95%. La giunta ha proseguito con la privatizzazione delle due aziende romane nonostante vi fosse una forte opposizione economica e sociale alla trasformazione delle ormai Ex aziende speciali.

 

AZIENDA COMUNALE CENTRALE DEL LATTE

Lo stabilimento della Centrale del Latte di Roma è sorto nel 1910 con il compito di raccogliere, pastorizzare ed imbottigliare il latte. L’azienda, dopo varie fasi di gestione, dal 1953 è stata trasformata in Azienda Speciale (con delibera n. 1106 del 6 e 12 agosto 1953); da questa data fino al dicembre 1992 la Centrale del Latte ha mantenuto la natura di Azienda Municipalizzata.  [6]

Con l’approvazione dello Statuto e il conseguente conferimento di beni dal 1 Gennaio 1993 è stato disposto di iniziare delle autonome registrazioni contabili.

Nel 1994 un Comitato di esperti, nominato dalla Giunta Comunale, ha svolto un’indagine per valutare le problematiche connesse all’assetto delle Aziende Speciali; secondo il parere dei componenti tale comitato la Centrale del Latte con la sua attività di raccolta, trasformazione e commercializzazione del latte alimentare non poteva più configurarsi come “Servizio Pubblico”.

Va sottolineato a questo punto che la Centrale del Latte di Roma è la più grande Centrale del Latte d’Italia con un fatturato pari a circa 167 miliardi nel 1994, a circa 179 miliardi nel 1995 e circa 200 miliardi nel 1996 (cfr. Graf.5).

L’attività prevalente dell’azienda è nella produzione di latte fresco (50% latte fresco intero,20% latte fresco intero parzialmente scremato), e solo per il 5% di latte a lunga conservazione. Se si considera su base regionale l’azienda ha sicuramente una posizione di leadership nel segmento del latte fresco. Il Riquadro 3 riportato mostra quali sono i prodotti principali della Centrale del Latte.

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E’ interessante anche mostrare come era ripartito negli anni 1995 e 1996 il numero dei dipendenti (Cfr. Graf.6).

I dati mostrano chiaramente come l’azienda, ritenuta dal Comitato di esperti come non più svolgente un pubblico servizio, in realtà sia stata molto solida e non a caso è stata ritenuta per anni uno dei “gioielli” del Comune di Roma.

Per consentire, contrariamente ai dati che evidenziavano un buono stato di salute dell’azienda, un rapido avvio del processo di privatizzazione è stato istituito nel giugno del 1995 un Comitato di Consulenza e Garanzia con lo scopo di svolgere una funzione di supporto in relazione alla nomina dei consulenti specializzati ad assistere il Comune di Roma nella scelta e nella gestione delle procedure di privatizzazione e trasformazione, e di favorire la “trasparenza” nelle diverse fasi. Sempre nel 1995 (delibera n.154 del Luglio 1995) il Consiglio Comunale ha espresso l’intenzione di procedere alla immediata trasformazione dell’azienda in Società per Azioni e alla sua privatizzazione secondo determinati principi guida ed in specifico:

1) esame dello scenario di mercato ed industriale in cui opera l’azienda;

2) valutazione delle possibilità di proteggere adeguatamente l’occupazione e l’economia locale;

3) consentire il mantenimento della disponibilità del latte fresco per i consumatori romani.

Il ruolo di Advisor fu assegnato alla società J.P. Morgan che dopo aver effettuato le proprie valutazioni, nel Marzo 1996, ha messo in evidenza diversi aspetti critici della realtà aziendale, nonostante il marchio trovasse dei riscontri molto positivi nel mercato. A questo punto il piano industriale di risanamento prevedeva il recupero della competitività nel modo più classico: la riduzione del personale realizzabile attraverso mobilità ed esodo incentivato!

Nel Luglio 1996 è stata costituita appositamente per la dismissione una società per azioni la “Centrale del Latte Roma s.p.a.” le cui quote erano così ripartite: il 5% al Comune di Roma, il 75% alla società acquirente e il restante 20% agli allevatori dell’agro romano.

Tra Novembre e Dicembre 1996 la JP Morgan ha presentato l’azienda ad alcuni possibili acquirenti tra i quali: Parmalat, Latte Sano, Centrale del Latte di Firenze e Gruppo Cirio. Nel Gennaio 1997 il gruppo Cirio si è aggiudicato la gara con un’offerta di 100 miliardi per il pacchetto di maggioranza (la JPMorgan aveva stimato il valore dell’azienda il 85 miliardi circa).

La privatizzazione della Centrale del Latte è stata molto contestata sia all’interno del Consiglio comunale sia tra i cittadini. Si è costituito un Comitato Promotore per un referendum consultivo al fine di interpretare meglio le esigenze dei cittadini romani. Nonostante i vari disagi dovuti alla mancata consegna dei certificati elettorali e la poca pubblicità data all’intera operazione il referendum si è svolto il 6 giugno 1997e il risultato è stato, di strettissima misura favorevole alla privatizzazione.

Nel Luglio 1997 quindi è stato approvata la Delibera con la quale è stato assegnato il 75% delle azioni al gruppo Cirio.

A questo punto una considerazione economica e di principio. Essere fortemente contrari a questa privatizzazione anche del “soddisfacimento di bisogni primari” (così certamente il latte è da considerare) non significa negare i problemi che l’azienda poteva e sicuramente ha avuto, ma sicuramente si può affermare che per risolverli non era necessario procedere ad una privatizzazione totale. Sarebbe bastato programmare degli interventi mirati a migliorare l’efficienza e la produttività nel rispetto dei diritti dei lavoratori e dei consumatori, senza ricorrere al capitale privato, che sicuramente non tiene in alcun conto i bisogni e le esigenze dei consumatori, dei lavoratori e dei cittadini in generale.

Tutti ricordano il grave problema causato dalla disastrosa esplosione del reattore di Chernobyl alla fine degli anni ‘80; a quell’epoca la Centrale del Latte decise di sospendere la vendita del latte fresco per tutelare nel miglior modo possibile la salute dei consumatori. A questo punto è lecita una domanda: se un fatto simile si ripetesse oggi che l’azienda è in mano ai privati quali garanzie avremmo che questa tutela della salute di tutti i cittadini venga rispettata? Ci viene da pensare che al primo posto oggi ci sarebbe l’eventuale profitto perduto e non il possibile danno arrecato ai consumatori. La logica del “profitto ad ogni costo” sarebbe sicuramente prevalente!!

 

AEREOPORTI DI ROMA SpA

La storia degli Aereoporti di Roma inizia nel 1916 quando viene inaugurato l’aereoporto di Ciampino come base militare destinata ai dirigibili; nel gennaio 1961 fu inaugurato invece il “Leonardo da Vinci” a Fiumicino. Nel 1974 è sorta la Società Aereoporti di Roma (ADR) in seno al gruppo IRI secondo un programma di organizzazione che prevedeva l’affido della gestione ad una società con capitale sottoscritto dall’IRI direttamente o indirettamente.

Le attività di ADR sono molteplici: oltre allo sviluppo e alla manutenzione delle varie infrastrutture aereoportuali vengono espletati i servizi di assistenza a terra ai passeggeri e alle compagnie aeree, servizi di catering per le compagnie aeree, attività commerciali diverse (pubblicità, parcheggi, negozi).

Essendo il settore nel quale opera la ADR in notevole espansione, la società ha avuto una considerevole crescita nelle performances economiche in questi ultimi anni, come si può rilevare facilmente dalla lettura del Graf.7.

La ADR è il quinto sistema aereoportuale in Europa (dopo Londra, Parigi, Francoforte e Amsterdam) e il più importante d’Italia [7]. Nel 1996 ha avuto un incremento di passeggeri dell’8,9% rispetto al 1995 come si rileva dal Graf.8 (inferiore solo a quello ottenuto da Amsterdam pari al 9,7%) nel quale si evidenzia che negli ultimi 10 anni (1987-1996) il traffico dei passeggeri è aumentato di circa 10 milioni di unità.

E’ previsto che nel 2000 i passeggeri in arrivo, in transito ed in partenza dagli scali di Fiumicino e Ciampino supereranno 30 milioni di unità. -----

Anche i dati riguardanti il movimento degli aerei mostra la stessa tendenza di crescita (Cfr. Graf.9.)

E’ interessante anche mostrare (Graf.10) la struttura occupazionale, in particolare come era ripartito il numero dei dipendenti per categoria negli anni 1995-1996.

La legge che ha istituito la società Aereoporti di Roma determinava l’assoluto monopolio di gestione di tutte le attività dell’azienda.

Nel 1983 l’IRI ha trasferito all’Alitalia il 56,2% delle azioni e, quindi, fino al 1995 la ADR ha operato sotto il controllo della capogruppo IRI (il restante 43,8% era della Italstat e poi Fintecna). Dopo questa data con l’uscita dell’Alitalia il pacchetto di maggioranza è passato alla società Aereoporti di Roma Holding S.p.A (controllata attraverso la COFIRI dall’IRI) e si è aperta la strada ai privati (il 25% delle azioni è acquisito da un gruppo di banche di investimento quali l’IMI, il CREDIOP, l’UBS e la Lehman Brothers).

Il valore della società viene stimato intorno ai 640 miliardi di lire e con l’accordo di programma con il Ministero dei Trasporti del 1996 ha inizio il vero e proprio progetto di privatizzazione, che comincia a realizzarsi nel Luglio 1997 e che si concluderà a breve quando l’IRI dismetterà del tutto la propria partecipazione.

L’Offerta Pubblica di Vendita del 15 e 16 luglio 1997 ha interessato il 41% delle azioni che sono state così suddivise: il 30% sono state riservate al pubblico; il 65% sono state riservate agli investitori istituzionali e il restante 5% sono andate ai dipendenti della società (Cfr. Graf.11).

I dati sono evidenti: altro che public company e azionariato popolare dei lavoratori! Se si dismettono le aziende pubbliche sane ed efficienti per favorire i processi di globalizzazione finanziaria finalizzata ai processi speculativi a facile profitto, allora si è davvero lontani anche da un primo livello di sviluppo di una qualsiasi forma di democrazia economica.

 

ENEL

L’ENEL è stata istituita nel 1962 (L.6 Dicembre 1962, n. 1643) come ente pubblico, operante in regime di monopolio, per consentire di concludere il processo di elettrificazione dell’Italia garantendo al contempo una riduzione complessiva dei costi di produzione, di distribuzione e di commercializzazione.

Nel 1992 l’ENEL è stata trasformata in Società per Azioni con unico azionista il Ministero del Tesoro.

La legge n.359 dell’agosto 1992 ha disposto la trasformazione dell’Enel in società per azioni ed ha conferito al Ministero del Tesoro l’incarico di elaborare un programma di riordino anche in merito al collocamento della proprietà azionaria sul mercato.

A seguito della trasformazione societaria sono state istituite tre divisioni: Produzione, Trasmissione e Distribuzione (tali divisioni sono articolate in sei strutture di servizio tecnico-gestionali che si occupano di ingegneria e costruzioni, ricerca, servizi di telecomunicazioni, sistemi informatici, gestione impianti nucleari, immobiliare e servizi) [8].

Va considerato che il trasferimento al settore privato di un’impresa di così grandi dimensioni, la qualeesercita un servizio pubblico essenziale, che è stato per oltre 30 anni di proprietà pubblica, esige la determinazione di schemi in grado di conciliare le esigenze dei possibili futuri proprietari con quelle di altri soggetti.

La legge 359 suggerisce per la collocazione sul mercato il modello della public company in quanto questo schema è considerato il più adatto a consentire un avvicinamento dei piccoli risparmiatori (orientati da sempre verso i titoli di Stato) alla proprietà azionaria. E’ chiaro che il principale problema che si pone è quello di conciliare l’esigenza di un buon livello di economicità con quella di pubblico servizio. La privatizzazione, infatti, imponendo una logica che persegue esclusivamente gli obiettivi reddituali e valoriali d’impresa tende a privilegiare nettamente l’economicità a scapito dell’utilità del servizio pubblico.

Il riordino del settore elettrico si sta svolgendo secondo due processi separati che però si intrecciano intimamente: la liberalizzazione del mercato e la privatizzazione dell’ENEL .

I momenti principali fissati all’inizio dell’intera operazione vengono di seguito schematicamente rappresentati [9]:

1996 - l’Unione Europea emana la direttiva n.92 sulla liberalizzazione del mercato dell’energia elettrica che prevede il 30% del mercato libero entro il 1° gennaio 2003.

1997 -Il Consiglio di Stato rende al Governo parere favorevole in ordine ad un provvedimento che dovrebbe permettere ai produttori indipendenti di vendere a terzi le eccedenze non ritirate dall’ENEL.

- Il 18 /11/1997 è stata completata la fase di preparazione per attuare la separazione contabile e gestionale delle attività di Produzione, Trasmissione e Distribuzione.

- L’Autorità competente completa la verifica delle tariffe attuali per gli aumenti fissati.

1998 - L’Autorità competente definisce il riassetto della tariffa elettrica e definisce la tariffa che la futura società della Produzione dovrà praticare verso il sistema elettrico.

- Approvazioni da parte del Parlamento italiano della legge Comunitaria che contiene norme di delega al Governo per l’attuazione della direttiva comunitaria n.96/92/CE.

- Il Governo è delegato ad emanare i decreti delegati per l’attuazione della direttiva comunitaria.

- Costituzione di una o più società separate per la produzione.

1999 - Il mercato dovrà essere libero per almeno il 23%.

- Vengono conferiti gli impianti alla/e società di produzione .

2003 - Il mercato dovrà essere libero per almeno il 33%; ciò non implica che l’ENEL debba perdere necessariamente parte della propria quota di mercato, che è ora dell’84%, però almeno una parte di tale quota dovrà essere venduta secondo condizioni concorrenziali.

 

Va ricordato, poi, che, a fine 1997, si è avuta la costituzione di una nuova società, la Wind, formata dall’Enel con France Telecom e Deutsche Telekom, la cui operatività partirà a breve, che si prefigge di offrire una gamma completa di servizi ai clienti che vanno dalla telefonia fissa a quella mobile, ai collegamenti Internet e all’integrazione con reti satellitari; obiettivo principale di questa operazione è, tra l’altro, lo sviluppo di un competitivo terzo gestore cellulare. La nuova società è stata presentata a Roma il 1 dicembre 1997 e sarà controllata da una finanziaria italiana (interamente dell’Enel ma aperta poi ad altri soci) per il 51% e per il restante 49% da una finanziaria estera divisa tra Deutsche Telekom e France Telecom.

Per quanto concerne l’operazione di privatizzazione in senso stretto dell’ENEL, occorre subito chiarire che il settore elettrico è altamente strategico in tutte le strutture economiche e in particolare per il nostro Paese che è fortemente dipendente dall’estero per quanto attiene le materie prime e i prodotti energetici. Una eventuale dismissione potrebbe senza dubbio portare all’insorgere di problemi gravissimi e non risolvibili per l’intera economia nazionale. L’esigenza di un’azienda privatizzata è quella di creare massimi profitti per i propri azionisti e questo obiettivo mal si accorda con la strategicità del settore. In che modo in termini di semplice redditività, ad esempio, sarebbe giustificabile un intervento di potenziamento elettrico in una zona poco popolata o rurale? O ancora: come sarebbe pensabile giustificare investimenti innovativi ad alto potenziale tecnologico nelle centrali più vecchie situate in zone a basso sviluppo economico, misurato esclusivamente in termini di realizzazioni di profitti?

Le prime ristrutturazioni avvenute in vista della privatizzazione hanno confermato i dubbi esposti; basti pensare che mentre prima anche le città piccole avevano comunque sedi operative, amministrative e commerciali dell’Enel, si è ora avviato un processo di smantellamento. Un esempio: in Basilicata e in Molise la struttura locale dell’Enel in pratica non esiste più; i processi di concentrazione della presenza aziendale ha chiaramente penalizzato oltre ai lavoratori anche i cittadini. -----

Altro esempio. Come si vede dal Graf.12, nel 1996 l’ENEL impiegava 93.879 addetti; è interessante rilevare che il dato se confrontato con quello dell’anno precedente mostra un decremento di oltre 2.400 unità (circa il 2,5%).

E’ importante anche mostrare (Riquadro 4) la ripartizione del personale tra le varie fasce professionali per consentire un rapido confronto tra i due anni ed evidenziare i mutamenti nella struttura occupazionale che si sono segnalati.

Come si vede dal Riquadro 4 sono soprattutto gli operai e poi gli impiegati che subiscono la forte riduzione tra i due anni, mentre l’organico dei quadri e dirigenti è addirittura in aumento.

Si ha la spiacevole, ma prevedibile, sensazione che, al momento, si stia attuando una privatizzazione “sotterranea” dell’azienda, senza discuterne in Parlamento e soprattutto senza alcun tipo di autorizzazione del suo maggior azionista, ossia il Ministero del Tesoro! Nonostante l’espresso dissenso delle strutture sindacali di base extraconfederali, di molte associazioni territoriali di base di consumatori, di alcuni movimenti ecologisti e dalla posizione espressa dal Partito della Rifondazione Comunista sembra che si intenda andare avanti nella privatizzazione ad ogni costo.

Nei prossimi mesi il discorso sarà affrontato chiaramente quando i vertici dell’azienda dovranno chiarire definitivamente le loro intenzioni e confrontarsi con le reazioni dei lavoratori e degli utenti che sono e restano i principali interessati!

 

LE POSTE ITALIANE

L’Amministrazione delle Poste, sorta nel 1861 e dipendente dal Ministero dei Lavori Pubblici, dal 1925 è un’azienda autonoma statale con un bilancio proprio, che permette di rilevare le entrate, le spese e i risultati economici.

Tra i servizi affidati alle Poste oltre la raccolta, il trasporto e la distribuzione della corrispondenza, si hanno anche molte altre attività di evidente interesse industriale e commerciale.

La ex Amministrazione Poste e Telecomunicazioni con la legge del 29 gennaio 1994 (n.71) è stata scissa in due enti distinti, ossia il Ministero delle Poste e Telecomunicazioni che indirizza, regolamenta e vigila e l’ente pubblico economico Poste Italiane con compiti gestionali di operatore.

Le Poste Italiane rappresentano un’azienda a connotazione mista agendo sia come operatore pubblico sia come operatore privato. Il processo di liberalizzazione avviato con la legge del 1995 è stato indirizzato nelle ufficiali intenzioni alla riorganizzazione economico strutturale, al risanamento dei conti, alla trasparenza e al recupero del servizio.

Negli anni 1994 e 1995 sono stati firmati contratti collettivi di lavoro privatistico con le parti sociali sia per i dirigenti sia per i lavoratori tutti. L’aspetto più importante di tutto il processo di riorganizzazione è stato l’inizio di un piano di informatizzazione e telematizzazione dei servizi interni e di quelli offerti al pubblico.

La Direttiva del Governo approvata nel novembre 1997 ha posto l’Ente in condizione di elaborare un Piano Triennale d’Impresa con lo scopo di trasformare le Poste in s.p.a. Le azioni programmate per perseguire questo obiettivo sono state, nelle intenzioni, principalmente tre: il miglioramento della qualità del servizio, gli investimenti e lo sviluppo di nuovi servizi. Si è ritenuto, cioè, infatti che solo garantendo un miglior servizio si potrà portare l’azienda ad acquisire una maggiore fiducia dalla clientela. Anche le azioni di razionalizzazione e di sviluppo nelle linee programmatiche sono destinate alla riqualificazione tecnologica e all’aumento di redditività, attraverso un programma di investimento molto impegnativo che prevede un importo complessivo di 6635 miliardi di lire nel quinquiennio 1997-2001. [10]

Il risultato reale al momento sicuramente segnalabile è, oltre al peggioramento complessivo delle condizioni di lavoro, rilevabile nel fatto che la preparazione alla vera privatizzazione e il massiccio ricorso ad una innovazione tecnologica usata in chiave antioccupazione e aumentando incredibilmente i ritmi di lavoro ha fatto si che il personale delle Poste italiane dalla data dell’istituzione dell’Ente è diminuito di circa 34 mila unità passando dalle 222.157 unità del dicembre 1993 a 187.899 del marzo 1996, tendenza confermata anche per il 1997 e il 1998.

 

ENI 4

Ci si è occupatati già del caso studio ENI nel numero precedente di PROTEO e dell’intero approccio al processo di privatizzazione di questo Ente. Ci sembra opportuno tornare sull’argomento per parlare della quarta fase di questa dismissione che si è svolta in questi ultimi mesi.

In primo luogo è bene evidenziare che il gruppo ENI nel primo semestre 1997 ha realizzato cessioni per un incasso complessivo del valore di 108 miliardi di lire, mentre nel secondo semestre del 1997 le operazioni hanno portato ad un incasso complessivo di 983 miliardi di lire.

In specifico nel mese di Febbraio 1997 è stata effettuata la cessione dell’intero pacchetto azionario della società editrice Il Giorno s.p.a. e della Nuova Same alla Poligrafici editoriale s.p.a.; nel Giugno 1997 è stata venduta alla Solmar S.r.l. il 100% del pacchetto azionario della società operante nella produzione e commercializzazione dell’acido solforico, la Nuova Solmine; tra le altre operazioni si ricordano la cessione dell’Agip Servizi, dell’Atriplex ,ecc.

 

Per tornare alla quarta tranches di vendita (chiamata ENI4) si ricorda che il 22 giugno 1998 ad un anno dalla terza tranche di vendita, ha preso il via la fase successiva nella quale il Tesoro ha ceduto il 13,7 del capitale sociale in suo possesso (la quota di partecipazione è ora del 36,7%).

Anche in questa occasione l’IMI e il Credit Suisse First Boston hanno assunto il ruolo di global coordinator, mentre la funzione di advisor e valutatore è stata svolta dalla NM Rothschild & Sons.

Gli obiettivi dichiarati sono sempre gli stessi: da un lato la volontà di continuare sulla strada della privatizzazione (soprattutto in vista di un miglioramento d’immagine, nell’ottica neoliberista, dell’ammissione alla moneta unica europea), dall’altro l’intento di ridurre il debito pubblico destinando i proventi dell’intera operazione (al netto degli oneri) al risanamento del bilancio statale. Si prevede infatti che le cessioni al mercato daranno anche per i prossimi tre anni un consistente contributo al piano di rientro del debito con lo 0,75% del PIL ogni anno, per un totale di quasi 45.000 miliardi tra il 1999 e il 2001.

Va ricordato che l’ENI anche per il 1997 ha presentato dei risultati di bilancio ottimi, con 5.118 miliardi di utile (nel 1996 erano 4.451), un fatturato di 60.718 miliardi di lire e un aumento del dividendo del 16,7%.

La vendita dell’ulteriore quota del 13,7% è stata altamente significativa soprattutto perché il Tesoro dopo questa dismissione ha fatto scendere la propria quota di partecipazione al di sotto del 50%. Questa operazione giustamente criticata dai lavoratori, da molte associazioni di base e ambientali, da intellettuali e da esponenti politici (soprattutto da quelli del Partito della Rifondazione Comunista) è pericolosa soprattutto perché essendo il settore nel quale opera l’ENI altamente strategico è, così sottoposto sempre di più al rischio di scalate al governo e controllo aziendale, da parte delle peggiori espressioni del capitalismo nazionale ed internazionale.-----

L’aspro dibattito che ha preceduto la quarta fase di vendita delle azioni ENI ha almeno garantito un progetto di rafforzamento delle golden share che permette al Ministero del Tesoro di esprimere il proprio parere riguardo all’assunzione di partecipazioni azionarie, o di accordi tra soci che coinvolgono una quota superiore al 3% del capitale sociale. Questo in parte limita, o quanto meno rende più difficile, eventuali scalate che richiederebbero un ingente capitale e sarebbero in qualche modo difficilmente ostacolate.

L’offerta globale è stata divisa in un’offerta pubblica (per l’Italia), un collocamento privato riservato agli investitori istituzionali (riguardante oltre l’Italia, anche il resto del mondo), un collocamento privato per investitori istituzionali riservato al Canada ed infine un’offerta pubblica riservata agli USA.

Il prezzo ufficiale è stato di 11.430 lire; va ricordato che l’offerta destinata al pubblico in generale è stata di circa 600 milioni di titoli ( anche in questa tranche di vendita si è avuto il bonus share, ossia l’attribuzione ai sottoscrittori di 10 azioni gratuite ogni 100 acquistate, per chi ha mantenuto il possesso ininterrotto per 12 mesi, fino ad un massimo di 300 azioni gratuite).

Il pubblico generico ha usufruito dell’85,9% dell’offerta globale ( i piccoli risparmiatori sono passati dai 194.000 dell’ENI 1 ai circa 1.680.000 dell’ENI 4). L’offerta istituzionale è stata di 247 milioni di azioni anche se alla fine della prima settimana le richieste sono state di circa 520 milioni di titoli.

L’offerta pubblica per i dipendenti ha riguardato 50 milioni di azioni ed ha coinvolto 40.000 dipendenti per i quali le azioni gratuite sono state 11 ogni 100 per un massimo di 330 azioni gratuite; inoltre va ricordato che i dipendenti hanno potuto acquistare le azioni attraverso un anticipo del 75% del TFR (ecco il vero senso dell’azionariato da lavoro, imporre ai lavoratori un risparmio forzato come aiuto diretto alle logiche delle grandi speculazioni finanziarie) oppure per mezzo di un finanziamento facilitato.

Il collocamento ENI è a tutt’oggi il maggior ricavo aggregato ottenuto in Europa, avendo superato anche i fondi raccolti con il collocamento della British Telecom.

E’ interessante mostrare un quadro riassuntivo delle 4 fasi di dismissione dell’ENI per avere una visione completa dell’intera operazione; ci sembrano già di per sé particolarmente esplicativi i Graf. 13,14,15,16 per capire le tappe forzate di un’assurda privatizzazione annunciata di un vero “gioiello” ad alta significatività strategica per l’intera struttura economica del nostro Paese.

 

TELECOM ITALIA

Il settore delle telecomunicazioni in Italia è stato caratterizzato, fino al 1992, dalla presenza di una pluralità di gestori. La gestione delle infrastrutture e i vari servizi di telecomunicazione erano gestiti, infatti, direttamente dallo Stato in regime di monopolio o da altri soggetti economici ai quali era stata data una concessione. In specifico mentre lo Stato gestiva il servizio telefonico nazionale e internazionale con l’Europa e il bacino del Mediterraneo, i servizi svolti in regime di concessione erano affidati a vari enti tra i quali la SIP, l’Italcable, Telespazio e la SIRM.

Nel 1992 la fusione per incorporazione nella SIP della Iritel, Telespazio, SIRM e Italcable ha fatto nascere la società Telecom Italia; in seguito si sono separate le attività radiomobili (luglio 1995) e le attività satellitari (gennaio 1995) attraverso la costituzione di due società la Telecom Italia Mobile e la Nuova Telespazio.

La Telecom Italia è attualmente il quinto gruppo mondiale nel settore della telefonia fissa, con oltre 25 milioni di abbonati nel giugno 1997. Le sue attività principali sono nel settore delle telecomunicazioni, nel settore dei servizi, della progettazione, installazione, progettazione e manutenzione degli impianti e delle reti di telecomunicazioni, nei settori dell’informatica, dei servizi e applicazioni multimediali e nei servizi innovativi di rete.

La recente liberalizzazione del mercato europeo delle telecomunicazioni ha determinato all’interno dell’azienda un intenso processo di riorganizzazione con l’obiettivo di mantenere in Italia la leadership dei servizi di telecomunicazione e di incrementare la redditività dei servizi di telefonia fissa e mobile.

A questo scopo nell’agosto 1994 la ex Telecom Italia è divenuto unico gestore integrato dei servizi di telecomunicazione in Italia (tramite l’incorporazione in SIP delle società del gruppo IRI che agivano nel settore); nel gennaio 1995 è avvenuto lo scorporo dalla ex Telecom di diverse attività riguardanti le telecomunicazioni via satellite che sono state trasferite alla Nuova Telespazio; nel Luglio 1995 si è avuto il trasferimento alla società di nuova costituzione TIM dei servizi di telefonia mobile ed infine nel 1997 si è avuta la fusione della ex Telecom Italia nella STET.

L’andamento favorevole dello sviluppo delle telecomunicazioni fisse e mobili ha comportato negli ultimi anni un netto miglioramento delle performances economiche con un notevole incremento dell’utile netto complessivo e dei ricavi delle prestazioni e delle vendite (cfr. Graf.17).

 

E’ interessante anche sottolineare che gli investimenti previsti negli anni 1997-2000 sono di 50.000 miliardi di lire (dei quali 10.300 per attività internazionali, 30.200 in investimenti industriali nella rete fissa e 4.900 in quella mobile).

Va rilevato però che, a fronte dell’andamento molto favorevole in termini di redditività ciò ha comportato in questi ultimi anni, connessione frequente anzi necessaria, ormai nell’economia del neoliberismo, una flessione nel numero dei dipendenti dovuta al cosiddetto processo di “razionalizzazione delle strutture” (Cfr. Fig.1.)

Il processo di privatizzazione della Telecom ha avuto la sua massima espressione nell’ottobre 1997 quando il Tesoro ha ceduto il 39,5% della sua quota di capitale sociale incassando 22.880 mld di lire.

L’incarico di advisor è stato conferito alla Morgan Stanley & Co Ltd. congiuntamente all’Euroimmobiliare S.p.A.; quali coordinatori invece sono stati nominati dall’IRI, Mediobanca per la parte italiana e la Barclays de Zoete Wedd Ltd. Per la parte estera.

Nel settembre 1997 è stata ceduta ai cosiddetti “azionisti stabili” (che si sono impegnati a non cederle per almeno tre anni) una quota di azioni pari al 6,6% del capitale ordinario. Il regolamento della vendita è avvenuto il 6 novembre 1997; il prezzo per ogni azione è stato di 11.200 lire.

L’offerta pubblica è stata scissa in un’offerta pubblica per l’Italia, un collocamento privato (per gli investitori istituzionali riservato all’Italia, al Regno Unito e al Resto del Mondo) e un’offerta pubblica per gli Stati Uniti e il Canada.

I dipendenti Telecom hanno potuto acquistare le azioni attraverso un anticipo del 70% del TFR (ritorna anche in questo caso il falso processo di democrazia economica che impone sugli accantonamenti maturati per le liquidazioni un comodo, per il padronato e l’impresa in genere, azionariato dei lavoratori). L’incasso totale del Tesoro è così derivato (Cfr. Riquadro 5 e Graf.18) :

L’intero ricavato dell’offerta è stato destinato all’IRI per la copertura di debiti pregressi.

Dopo l’operazione restano al Tesoro azioni ordinarie per un valore dello 0,01% del capitale ordinario e lo 0,62% del capitale di risparmio di Telecom Italia. Inoltre il Tesoro possiede 145.000.000 azioni ordinarie vincolate a garanzia dell’esercizio dell’opzione di azione gratuita (fino al 4 gennaio del 1999) e 126.123.160 azioni ordinarie destinate in parti uguali alle società Unisource e AT&T subordinate all’alleanza strategica con Telecom Italia.

Va rilevato che in una recente relazione (agosto 1998) la Corte dei Conti ha criticato aspramente l’intera operazione di privatizzazione della Telecom, sia per il notevole ritardo con cui si è istituita l’Autorità garante per le Telecomunicazioni sia per “la non soddisfacente operazione di dismissione della partecipazione azionaria del Tesoro in Telecom Italia”, ed inoltre vengono messe in evidenza le “difficoltà nella definizione delle procedure di gara per lo svolgimento del servizio di telefonia mobile dcs1800” [11]. -----

BANCA DI ROMA

La Banca di Roma (nata dalla fusione tra il Banco di Santo Spirito, la Cassa di Risparmio di Roma e il Banco di Roma avviata nel 1989 e conclusa nel 1992) svolge, oltre alle normali attività creditizie, numerose altre attività tra le quali la negoziazione di titoli, la gestione dei patrimoni, le attività di leasing e varie attività di tipo assicurativo. Ma la principale rimane l’attività di intermediazione creditizia; va ricordato che la Banca di Roma conta un numero di sportelli pari a 1.573 unità (compresi quelli all’estero).

Il processo di privatizzazione ha avuto inizio nel settembre 1997 e nell’ottobre 1997 il consiglio di amministrazione dell’IRI ha deciso la vendita della quota di azioni in proprio possesso (13,9% del capitale della Banca di Roma e 35% della Cassa di Risparmio Roma Holding).

L’operazione, gestita dalla Banca di Credito Finanziaria s.p.a e da Mediobanca, è stata portata aventi attraverso l’offerta globale (con azioni di nuova emissione e azioni IRI) che comprendeva un’offerta pubblica (per il pubblico) e un collocamento destinato ad investitori istituzionali nazionali ed esteri.

Il 28 novembre 1997 si è conclusa l’operazione dell’offerta destinata al pubblico e per il collocamento istituzionale italiano ed estero; l’offerta globale è stata di 1.960 milioni di azioni con un prezzo che ha oscillato tra le 1.200 (minimo) e le 1.700 lire (massimo).

L’intera operazione ha determinato un incasso lordo per l’IRI di 1.897,9 miliardi di lire, una plusvalenza di 300 miliardi ed un aumento del capitale sociale della banca di Roma pari a 1000 miliardi nominali. Tra i principali nuovi azionisti della Banca di Roma vanno ricordati la Toro assicurazioni, la Libyan Arab Foreign Bank e la National Commercial Bank.

 

BANCA NAZIONALE DEL LAVORO

La Banca Nazionale del Lavoro, nata come istituto di credito a favore delle Cooperative, si è sviluppata nel corso degli anni ‘90 come “banca universale” che svolge numerose attività, che vanno dall’intermediazione creditizia vera e propria alla gestione e distribuzione di prodotti finanziari, leasing, factoring, assicurazioni,ecc.

Attualmente è una delle più grandi aziende di credito italiane ed è tra le prime 50 in Europa; è presente in tutte le regioni, in 333 comuni e 102 provincie e conta 687 sportelli. Il suo patrimonio oscilla intorno ai 9 mila miliardi ed le attività di bilancio superano i 150.000 miliardi (le attività del gruppo superano i 170.000 miliardi). Nell’ultimo anno le attività si sono ulteriormente allargate per l’acquisizione dell’Artigiancassa (istituto di credito specializzato a favore degli artigiani) e per la nascita della joint venture “Albacom” con la British Telecomunication per l’offerta in Italia di servizi di telecomunicazione.

Il capitale sociale (Cfr.Graf.19), prima dell’avvio del processo di privatizzazione era detenuto dal Ministero del Tesoro per l’85,5%, dall’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale per l’11,8% e da altri istituti di credito per la parte restante.

Il programma di privatizzazione è iniziato il 23 gennaio 1998, con decreto del Presidente del Consiglio su proposta dei Ministeri del Tesoro e dell’Industria.

Tra gli interventi ritenuti necessari per portare a termine l’operazione di privatizzazione va messo in risalto senza dubbio quello mirante a una riduzione del personale. I tagli occupazionali ritenuti “indispensabili” riguardano una prima fase di esodi volontari che interessano quasi 1.500 dipendenti, numero che sarà destinato a crescere considerevolmente se la prospettata fusione con il Banco di Napoli diventerà operativa negli anni 1998-2001.

Il Tesoro ha incaricato la J.P. Morgan quale advisor per la ricerca di partner strategici. La tipologia della dismissione è stata individuata nell’offerta pubblica di vendita e nella trattativa diretta con istituzioni bancarie e finanziarie per costruire un’azionariato stabile. Va messo in risalto che il Tesoro ha rinunciato alla golden share. A fine maggio 1998 è scaduto il termine massimo per la presentazione della offerte di acquisto per entrare nel nucleo stabile; tra i maggiori candidati vanno ricordati l’INA (che tendeva ad ottenere un 20-25%), il Monte dei Paschi di Siena e l’IMI.

Il 27 Maggio 1998 però solo l’INA e il Banco di Bilbao Vizcaya hanno presentato un’offerta per l’acquisto di quote della banca. Il nucleo stabile avrà un pacchetto di azioni non inferiore al 30% del capitale.

L’INA ha presentato una proposta di acquisto del 25%, proposta bocciata però dal Tesoro poiché l’INA non intendeva vincolare il prezzo di acquisto a quello della successiva OPV (in questo modo infatti si poteva rischiare che i piccoli azionisti pagassero le azioni della Banca ad un prezzo superiore a quello pagato dall’INA). La proposta del Banco di Bilbao di acquistare il 5% dell’istituto invece, è stata accettata in quanto rispondeva a tutte le clausole previste.

Il Tesoro a causa della rottura delle trattative con l’INA ha deciso di mantenere il 25% delle azioni dopo l’OPV per costituire comunque il nucleo stabile. Negli ambienti finanziari si ventila da tempo la possibilità di intervento diretto del San Paolo IMI. La banca è stata valutata dai 10 ai 12mila miliardi di lire.

Con la nomina del nuovo presidente, nella persona del dott. Luigi Abete, già massimo responsabile della Confindustria, avvenuta in Agosto u.s., l’istituto è avviato verso la privatizzazione in programma a breve (si pensa a Ottobre 1998). Nel frattempo l’assemblea degli azionisti ha disposto la conversione delle azioni da risparmio (le sole fino ad oggi quotate in Borsa) in azioni ordinarie; l’intera operazione, facoltativa (attuata tra fine agosto e metà settembre), si concluderà prima dell’avvio della OPV.

Va ricordato che l’utile netto della gestione ordinaria si aggira intorno ai 464 miliardi di lire contro i 40 dei primi sei mesi del 1997.

Al momento comunque l’unico punto fermo dell’operazione è la presenza del Banco di Bilbao Vizcaya, che ha prenotato il 10% (con la possibilità di arrivare al 20% attraverso partnership); almeno il 55% del capitale andrà sul mercato come OPV, mentre un’altra quota sarà assegnata a trattativa privata, probabilmente a Credit Suisse per il 10% (si veda Graf.20)

ALITALIA

L’operazione di privatizzazione dell’Alitalia ha avuto inizio nei primi mesi del 1998; la composizione del capitale sociale prima della dismissione era così strutturata: l’IRI deteneva l’85,1%, e il restante 14,9% era in mano di terzi privati (Cfr. Graf.21).

Nella prima fase l’IRI ha ceduto il 18% delle azioni ma è previsto che entro il 1999 la quota di partecipazione dell’IRI scenderà al di sotto del 50% con lo scopo di privatizzare completamente la compagnia aerea.

Va ricordato inoltre che l’IRI ha messo a disposizione dei dipendenti un ulteriore 14% del capitale sociale in proprio possesso; in tal modo quindi la sua partecipazione scenderà al 53% (Cfr. Fig.2); i dipendenti che sottoscriveranno le azioni Alitalia si impegnano a non rivendere i titoli per almeno tre anni.

L’IRI è intenzionato a vendere la restante quota del 53% in un’unica soluzione entro il 1999.

Va ricordato che oggi l’azienda Alitalia è valutata per un ammontare di oltre 9 mila miliardi di lire; ha chiuso l’ultimo esercizio con utili per 444 miliardi di lire e un patrimonio netto consolidato di 1.808 miliardi di lire (si ricorda che nel 1996 era di 377 miliardi).

Anche le cifre riguardanti i primi mesi del 1998 confermano questa tendenza con i 5-6 miliardi di risultato operativo contro gli 80 miliardi persi nel corrispondente periodo del 1997.

 

SOCIETA’ AUTOSTRADE

L’IRI nel 1950 ha costituito la Società Autostrade con lo scopo di promuovere la costruzione e l’ampliamento della rete autostradale nazionale. Nel 1982 la società ha assunto il controllo di altre 5 società concessionarie di trafori e autostrade; nel 1987 le sue azioni sono state ammesse alla quotazione in Borsa e nel 1995 ha acquisito il 90% della Autostrade International e il 100% della Autostrade Finance.

Attualmente la rete autostradale gestita è pari al 56% del totale nazionale (3.121 Km); a livello internazionale detiene il 5,4% delle autostrade europee e il 17% delle autostrade a pedaggio.

Come si può osservare dalla Fig.3 il fatturato è di circa 2.988 miliardi di lire con utili netti pari a 261 miliardi; conta un numero molto elevato di dipendenti (circa 7.432, con 109 dirigenti).

Il programma di privatizzazione ha avuto inizio nel 1996 e nel 1997 vengono nominati quali advisor l’IMI e la Schroeder.

Per facilitare il processo di privatizzazione il 16 gennaio 1998 il Ministro dei Lavori Pubblici ha prolungato la durata della concessione che sancisce la convenzione tra ANAS e Società Autostrade dal 2018 al 2038 ed è stato deciso il nuovo piano degli investimenti e dei pedaggi.-----

E’ previsto che nell’attuare la dismissione il Governo delibererà la creazione di un nocciolo duro di soci che deterranno il 25% del capitale.

L’IRI ha previsto che l’operazione avverrà in una sola fase nella quale dismetterà il 100% della partecipazione in capitale azionario e il 73% di quello privilegiato (quotato in Borsa).

Va ricordato che il 10 Agosto 1998 si è riunita in sede ordinaria e straordinaria l’assemblea della società al fine di approvare la conversione delle azioni privilegiate in ordinarie; in questa occasione il presidente della società Giancarlo Valori ha assicurato che la “tanto attesa privatizzazione(!!)” sarà attuata in tempi brevi e con il rispetto delle regole nazionali ed europee.

 

 

3. Conclusioni. I veri obiettivi delle privatizzazioni

 

Nel secondo semestre del 1997 il Ministero del Tesoro ha gestito le operazioni di dismissione riguardanti la vendita del pacchetto azionario detenuto nella SEAT s.p.a. e quello della Telecom Italia s.p.a. e gli incassi netti sono affluiti al Fondo per l’ammortamento dei Titoli di Stato; il gruppo IRI, invece ha realizzato dal luglio 1992 al 31 dicembre 1997 cessioni per un valore di circa 48.209 miliardi di lire (il 76,1% relativo ad operazioni realizzate direttamente dall’IRI s.p.a.); se a questo importo si aggiungono i debiti finanziari trasferiti (pari a circa 17.695 miliardi di lire) si giunge ad un complessivo valore di circa 65.904 miliardi di lire. (52.792 miliardi di lire dell’IRI s.p.a.).

Il gruppo ENI, infine, dal luglio 1992 al 31 dicembre 1997, ha realizzato cessioni per un valore complessivo di circa 9.348 miliardi di lire (di cui 2.427 miliardi di lire rappresentano il valore dei debiti finanziari trasferiti).

Il 7 Agosto 1998 in un articolo su IL SOLE 24 ORE, dal titolo “Una scelta di successo, ora si deve continuare” del Ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi, presentando la “Relazione sulle privatizzazioni” relativa al secondo semestre 1997, si sostiene che il Tesoro ha gestito in via diretta la vendita del pacchetto azionario detenuto nella Telecom e nella Seat; complessivamente ciò ha portato nelle casse dell’IRI 24.500 miliardi di lire, e sempre l’IRI ha effettuato dismissioni per 1.840 miliardi di lire mentre il gruppo ENI per 980 miliardi. La quarta tranches dell’ENI ha fruttato oltre 13.000 miliardi di lire e sempre nei primi mesi del 1998 l’IRI ha incassato almeno altri 3.000 miliardi dalle privatizzazioni. Da quanto sostiene il ministro Ciampi in neppure cinque anni (ottobre 1993 ad oggi) le dismissioni complessive effettuate dal Ministero del Tesoro, dall’ENI e dall’IRI superano la astronomica cifra, se confrontata con tutti gli altri paesi a capitalismo avanzato, di 150.000 miliardi di lire.

Sempre nello stesso articolo si deducono immediatamente quali sono i reali motivi di tale processo di privatizzazione a tappe forzate; infatti diventa un vanto che l’OCSE e tutte le istituzioni finanziarie internazionali, tanto prodighe ad affermare nel mondo un unico modello con al centro le scelte e la cultura neoliberista del Profit State, riconoscano all’Italia il ruolo di paese guida nelle privatizzazioni perseguite con costanza e determinazione negli ultimi quattro, cinque anni. Sembra che tutte le suddette considerazioni siano derivate da principi economici molto semplici. Il sistema finanziario di conseguenza dovrebbe essere specchio fedele delle condizioni del sistema economico, e nella Borsa si dovrebbero leggere le valutazioni del trend economico fornendo una visione sintetica, una foto del sistema-Paese, stringendo in un tutt’uno l’economia reale e l’economia finanziaria. Non vi è infatti avvenimento che direttamente o indirettamente influisca sui singoli operatori, sulle varie attività economiche, e più in generale sulla vita politico-economica del Paese, che non si ripercuota in Borsa attraverso una variazione dei prezzi. Si può trattare di avvenimenti di ordine naturale, politico-economico, commerciale, industriale, tecnico, fiscale, finanziario, monetario; spesso possono agire anche fattori di natura psicologica che colpiscono l’investitore ed accentuano i processi speculativi.

Se quanto detto finora risponde agli schemi teorici e alle impostazioni dottrinali più comuni, ci si dovrebbe attendere: a)uno stretto legame tra andamento del ciclo economico e andamento dell’economia finanziaria; b) un mercato borsistico fortemente condizionato dai fenomeni politico-sociali che attraversano il Paese, soprattutto se di natura epocale come nel caso italiano.

Sostiene infatti il ministro Ciampi nell’articolo su citato:

“Quando, nel giugno ‘92 il governo Amato trasformò gli enti pubblici economici in società per azioni, attribuendone la proprietà al Tesoro, pochi immaginavano che il nostro Paese, con le sue tradizioni di impresa pubblica, sarebbe stato capace di ridisegnare la frontiera fra il pubblico e il privato, di assicurare ai meccanismi di mercato piena operatività, di ricondurre lo Stato nel ruolo che gli è proprio di regolatore e di restituire al mercato quello di generatore e valutatore delle attività imprenditoriali”.

Ecco dichiarati i veri obiettivi delle privatizzazioni italiane: abbattere definitivamente la cosiddetta “terza via” incentrata su un’economia mista; distruggere anche culturalmente la concezione di uno Stato interventista e occupatore per restituirgli un ruolo di regolatore, cioè di chi impone alla società le regole dell’impresa e del Profit State; riaffermare la centralità del mercato, unica divinità capace di regolare l’intera attività economica intorno alle regole di efficienza di un’imprenditorialità aggressiva e selvaggia.

Se si effettua infatti una disamina approfondita del problema nel suo complesso ci si accorge che la divaricazione tra andamento dell’economia reale ed avvenimenti politico-sociali da una parte, ed andamento dell’economia finanziaria dall’altra non è dovuta semplicemente ed esclusivamente ad una scommessa sulle possibilità di ripresa e di risanamento sia economico sia politico-sociale del Paese, né sulle possibilità di rilancio e di modernizzazione del mercato borsistico dovute alla piena attuazione del suo processo di riforma in corso. Va infatti anche evidenziato che gli investimenti finanziari seguono una logica speculativa, attuando dei percorsi all’interno di dinamiche che spesso esulano dal quadro economico-politico, rincorrendo semplicemente una loro logica interna. Spiegazioni univoche sui mercati dei capitali sono quasi impossibili poiché non esiste una motivazione scientifica sull’andamento dei titoli; tutto è demandato ad una cieca fiducia nelle leggi di mercato senza meccanismi di controllo in grado di salvaguardare anche l’interesse generale, sociale, collettivo. E’ ovvio che il risparmio insegua le migliori condizioni di redditività, facendo spesso prevalere soltanto interessi speculativi, e rincorrendo così la speranza di alti profitti anche se ciò dovesse comportare alti costi sociali, realizzando, come in questo periodo, ad esempio il connubio tra profitti finanziari e alta disoccupazione.

Infatti continua nell’articolo il ministro Ciampi: “.... una impostazione di politica economica in cui le privatizzazioni sono componente essenziale...... i miglioramenti intervenuti dipendono dall’aver assoggettato alla disciplina del Codice Civile (cioè alla logica e alla disciplina privatistica, n.d.r.) l’industria di Stato; dalla professionalità di coloro che hanno condotto le imprese oggetto del programma di privatizzazione; dalla spinta verso l’efficienza e dalla vigilanza sui comportamenti che l’esposizione al mercato ha imposto.....privatizzare l’industria pubblica è sta decisione di grande momento storico: la sua attuazione ha contribuito a cambiare il Paese, il suo modo di essere, la sua mentalità”.

E di seguito ecco emergere quel principio che in tutto il mondo sta distruggendo la cultura e quel modello di sviluppo basato sull’investimento produttivo che crea occupazione, cioè il definitivo passaggio alla finanziarizzazione dell’economia. Infatti ecco che il precedente articolo si conclude con le raccomandazioni care all’ideologia della globalizzazione finanziaria: “.....Dalla fine del ‘93 il rapporto tra capitalizzazione delle società italiane quotate e il Prodotto Interno Lordo è passato dal 15% al 41%, riducendo fortemente il divario con le maggiori piazze finanziarie continentali... Tra i fattori del successo: dal lato dell’offerta, l’aumento di azioni affluite sul mercato con le privatizzazioni (la capitalizzazione di imprese oggetto di processi di privatizzazione costituisce oltre il 50% della capitalizzazione totale del mercato) e, dal lato della domanda, l’aumento delle risorse finanziarie rese disponibili dal risanamento della finanza pubblica... infine un’opera legislativa di ammodernamento della normativa finanziaria che, iniziata con il Testo Unico sulle banche nel 1992, è approdata al Testo Unico delle Disposizioni in materia di mercati finanziari, vigente dal 1 Luglio e continuerà con la riforma del diritto societario.... In conclusione, un lungo e fruttuoso cammino che intendiamo continuare. Ne fa parte l’iniziativa per Milano piazza finanziaria europea.... l’economia italiana con la ricchezza delle sue diversità, con i suoi distretti industriali, con la crescente diffusione dell’impresa in tutto il territorio nazionale”.

Nel nostro Paese ciò può essere reso possibile grazie ad almeno due decenni di finanza “allegra”, a cronache di dissesti annunciati, a falsi bilanci societari costruiti in funzione di nascondere forme illegali di finanziamento al sistema dei partiti attraverso intervcenti con fondi neri per influenzare la domanda e l’offerta pubblica; un capitalismo finanziario “selvaggio”, senza scrupoli, “senza legge”, spesso anzi “fuorilegge”; il tutto apparentemente giustificato dalle capacità di autoregolamentazione del mercato.

Altro che governo sensibile ai bisogni della gente comune! Non una parola sulle ricadute negative in termini sociali, occupazionali, di strategie economiche complessive che i processi di privatizzazione in Italia e nel mondo hanno determinato e continuano a determinare!

Tutto il ragionamento si riconduce ad una logica legata e subalterna a quella bolla finanziaria che non determina crescita reale ma solo una crescita apparente e fittizia basata sulla speculazione a facili profitti che permette, attraverso i supporti telematici, lo spostamento in pochi secondi di migliaia di miliardi di valute di ogni genere, al solo fine di destabilizzare i paesi, di controllarne l’economia e la politica, di soffocare ogni spinta verso processi di reale democrazia economica, riconducendo tutto, invece, a quel pensiero unico neoliberista di un Profit State globale.

Ma la politica economica neo-liberista incentrata sui processi di privatizzazione ha realizzato un quadro macroeconomico che, ad esempio, nel nostro Paese evidenzia per il 1997 e il 1998 tendenze recessive in molte aree, in particolare in quelle meridionali, contrazione e precarizzazione dell’occupazione, diminuzione dei salari reali, diminuzione dell’inflazione dovuta soprattutto al forte calo della domanda, aumento significativo delle fasce di povertà e di emarginazione, tassi di disoccupazione ufficiale e “invisibile” altissimi e l’emergere di sempre maggiori e drammatiche nuove condizioni di disagio economico-sociale diffuso. Così si sta costruendo l’Unione Europea della compatibilità alle performances d’impresa, il Profit State europeo che non tiene conto della salvaguardia di neppure un parametro di compatibilità sociale ed ambientale, di neppure un reale bisogno del cittadino lavoratore, per non parlare degli strati sociali più deboli.

Si osservino, ad esempio attentamente i dati delle Tabb. 3, 4, 5 6 e 7 e i Graff. 21, 22, e 23 (pag.seg.) a conferma di quanto scritto in precedenza.

Ne risulta che demandare tutto alle leggi di mercato è pura illusione in particolare in un momento in cui la salvaguardia dei profitti unitari si coniuga con una riduzione dei costi unitari di produzione, pur in presenza di recessione, e ciò grazie al taglio dei salari reali, ad una sensibile diminuzione dell’occupazione con conseguente forte contrazione dei consumi. La redditività degli investimenti nel sistema finanziario non può essere fine a se stessa, non può esulare dal mantenimento degli equilibri sociali.

La divaricazione fra crescita della ricchezza finanziaria e contrazione della ricchezza reale, tra economia reale ed economia finanziaria è stata ed è favorita nel nostro Paese non solo dalla speculazione internazionale, dalla mancanza di controllo, ma soprattutto da scelte di politica economica che, incentrandosi su una logica privatistica e sulla centralità culturale del Profit State, non producono e distribuiscono lavoro, reddito e ricchezza, ma distruggono risorse. Si osservino con attenzione, ad esempio, l’andamento delle variabili della Fig.4.

 

E’ evidente che i dati, i risultati derivano da scelte di politica economica che incentrandosi sulla privatizzazione dell’economia e anche della cultura del sociale diventano un più generale progetto basato su una completa ricomposizione dei conflitti e delle tensioni sociali, attraverso una ristrutturazione delle relazioni economiche ed industriali basate sulle logiche di un capitalismo selvaggio globale.

Le contraddizioni tra regole di mercato e garanzia di una qualità della vita dignitosa dei cittadini-lavoratori non sono risolvibili a partire dagli automatismi interni allo stesso mercato e imposte dalle politiche neo-liberiste.

La logica non può essere quella di un capitalismo “selvaggio” “senza legge” che insegue la mera realizzazione del profitto senza scrupoli, senza regole, creando così seri scompensi sociali in termini di aumento della disoccupazione e di abbassamento della qualità della vita in genere. Il processo di riconversione, di ristrutturazione, di innovazione tecnologica non può basarsi sul calo dell’occupazione, il limone dei redditi da lavoro dipendente non può continuare ad essere spremuto, le migliori politiche imprenditoriali non possono essere quelle basate su maggiori profitti derivanti da più alti tagli occupazionali. Il risparmio deve essere incanalato verso investimenti produttivi in senso ampio, capaci di creare ricchezza, lavoro e di attuare un miglioramento complessivo delle condizioni di vita e della protezione sociale.

Il messaggio politico e sociale che viene quotidianamente trasmesso, anche se con modalità a volte diverse, è sempre basato sulla considerazione dogmatica della validità dei criteri di efficienza dell’impostazione privatistica-imprenditoriale del Profit State, realizzando così ogni forma di flessibilità sociale, del lavoro e salariale, finalizzata all’abbattimento di ogni comportamento che si riveli rigido, conflittuale, non omologabile alle compatibilità del profitto, alle leggi di un mercato sempre meno regolato e sempre più selvaggio.

Con questa impostazione lo Stato si distanzia definitivamente dal suo ruolo di garante e regolatore dei conflitti, poiché assume la cultura d’impresa, la cultura della globalizzazione finanziaria a facile profitto e a bassissima compatibilità ecologica e sociale, come determinante, come principio e unità concreta di iniziativa, come organizzazione e gestione immediata della convivenza sociale. La centralità d’impresa del Profit State diventa per tutte le istituzioni fattore di determinazione politica, sociale ed economica, che riafferma attraverso processi di ristrutturazione economica e istituzionale complessiva a carattere epocale un attacco alle condizioni di vita dei lavoratori tutti e dei ceti deboli della società. Questo diventa così un tentativo di determinazione della rottura dell’unità di classe, per influenzare e affermare processi di mutamento della società seguendo una logica desolidarizzante con il tentativo dichiarato di affermare un patto sociale complessivo attraverso un consociativismo capace di annientare l’antagonismo e la conflittualità sociale.

E’ così ancora una volta dimostrata la capacità penetrativa del pensiero unico che propone come emergenti e vincenti le schiere di nuovi conservatori, di nuovi colonizzatori che tentano di esportare in tutto il mondo le regole della finanziarizzazione del Profit State.

In questo momento di mutamenti epocali bisogna avere il coraggio di uscire anche per le questioni economico-finanziarie fuori dai vecchi schemi teorici che si stanno rivelando superati, quando non addirittura capaci di giustificare meccanismi perversi e destabilizzanti. Si tratta di un nodo difficile da sciogliere utilizzando i tradizionali modelli di intervento; il mercato non può disciplinare se stesso, necessita della mediazione politica, di un intervento da parte dello Stato che realizzi la trasparenza, l’efficienza e la competitività del mercato, salvaguardando però l’interesse sociale generale, garantendo condizioni di parità ai partecipanti e indirizzando le risorse finanziarie a chi è in grado di coniugare redditività e giustizia sociale e distributiva, creando ricchezza e lavoro.

Le contraddizioni tra regole di mercato e garanzia degli equilibri sociali non sono risolvibili a partire da automatismi interni allo stesso sistema economico-finanziario. Senza cadere nell’assurda logica del “si stava meglio quando si stava peggio”, con finti mercati concorrenziali, guidati da un indissolubile intreccio tra sistema politico, mondo degli affari e della finanza con protezioni e favori reciproci coprendo quotidiani fenomeni di “criminalità finanziaria”, bisogna però ristabilire il ruolo di mediazione della politica con un sistema di mercato sottoposto al controllo dell’autorità pubblica, ma indipendente dalle logiche partitiche e del potere economico; con un potere politico separato dal potere economico ed uno Stato garante delle esigenze collettive e degli equilibri sociali, con controlli reali e trasparenza.

 

L’obiettivo dichiarato di questa analisi-inchiesta era quello di tentare di fornire gli arnesi scientifici, gli strumenti di riflessione per interpretare e superare questo modello di sviluppo del Profit State completamente iniquo e desolarizzante. Speriamo di aver fornito utili elementi alla riflessione nel percorso di trasformazione radicale dello stato presente delle cose. Noi ne siamo usciti culturalmente arricchiti, speriamo lo stesso i lettori che, come dice Antonio Machado, camminando fanno con noi il cammino.

Ci piace, infatti concludere riportando l’inizio e la fine del bel libro di Luis Sepulveda “Patagonia Express”:

Bene eccoci qua, dico sottovoce, e un gabbiano si volta a guardarmi un istante. < Un uomo matto>, penserà il gabbiano, perché in realtà sono solo, davanti al mare....

Iniziai a camminare nel parco, poi per le strade deserte, e all’improvviso mi accorsi che l’eco dei miei passi si moltiplicava. Non ero solo. Non sarei stato solo mai più. Coloane mi aveva passato i suoi fantasmi, i suoi personaggi, gli indio e gli emigranti di tutte le latitudini che abitano la Patagonia e la Terra del Fuoco, i suoi marinai e i suoi vagabondi del mare. Adesso sono tutti con me e mi permettono di dire a voce alta che vivere è un magnifico esercizio”.

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Riferimenti Bibliografici ESSENZIALI

 

 

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Amorelli G., Le privatizzazioni nella prospettiva del Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea, CEDAM, Padova, 1992.

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Roncaglia A., Lineamenti di Economia Politica, Laterza, Bari, 1992

Silva F., I nodi da sciogliere nel processo di privatizzazione, Economia e Politica Industriale, n.78,1993.

Vasapollo L., Il sistema finanziario. Mercati e prodotti, Ed. Lavoro, Roma 1993.


[1] Cfr. C.A. Favero, “Privatizzazione e stabilizzazione del debito pubblico in Italia”, in “Politica ed Economia”, Il Mulino, Bologna, 1992, pag.195-196.

[2] Tale fondo è stato istituito ai sensi dell’art.2 della legge 27 ottobre 1993, n.432. Le somme accreditate in tale fondo possono essere impiegate per riacquistare titoli di Stato sul mercato o per rimborsare titoli in scadenza e per poter riconoscere all’IRI il corrispettivo per l’acquisizione da parte del Tesoro delle azioni detenute nella STET.

[3] Cfr C.A.Ciampi , Ministro del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica, nel IL Sole 24 ORE, del 7 Agosto 1998 pagg.1 e 2.

[4] Cfr. “Le politiche di privatizzazione” a cura del Centro per la Riforma dello Stato, Marzo 1995,p.4-5.

[5] Si ricorda che il comitato ACEA-Centrale del Latte contro la privatizzazione era composto da : Federazione Rappresentanze Sindacali di Base, Coordinamento Nazionale Cobas, Snila Centrale del Latte,Confederazione Nazionale Lavoratori, Partito della Rifondazione Comunista,(Federazione romana), Federazione di base Aree metropolitane, Comitato dei Verdi per il Referendum, Codacons, Area Metropolitana Romana, Adusbef, Associazione Progetto Diritti, Verdi Ambiente Sanità, Unione Popolare, Interquartiere XIII Circoscrizione, ASIA (Associazione Inquilini Assegnatari).

[6] La delibera n.325 del dicembre 1992 ha istituito quattro aziende speciali :ACEA, ATAC,ACCL, AMNU; in questa occasione il Comune ha approvato lo Statuto delle Aziende ed ha concesso una maggiore autonomia finanziaria alle stesse.

[7] Nel 1996 ADR ha gestito circa 24 milioni di passeggeri, oltre 100 compagnie aeree di tutto il mondo, 260.000 aerei, 267.000 tonnellate di merci.

[8] La divisione Produzione gestisce gli impianti di produzione ed energia elettrica presenti sul territorio per consentire il massimo decentramento possibile e la migliore vicinanza dell’azienda alla clientela. La divisione Trasmissione assicura l’efficienza del sistema e l’interconnessione con i paesi stranieri attraverso una razionalizzazione delle strutture operative e gestionali. La divisione Distribuzione gestisce le attività commerciali relative alla vendita di energia.

[9] Cfr. Illustrazione Enel n. 3 del 1997.

[10] Il programma degli investimenti è finalizzato:alla realizzazione della nuova infrastruttura informatica di telecomunicazione e di automazione dei servizi finanziari (2004 miliardi); alla riqualificazione tecnologica della rete postale (1733 miliardi), al recupero del patrimonio immobiliare con riguardo particolare all’ammodernamento delle agenzie postali (2898 miliardi).

[11] Cfr. Messaggero, 19 Agosto 1998, p.17.