La presunta varietà delle idee economiche

ANDREA MICOCCI

1. Introduzione

Se si considerano le relazioni economiche dei nostri giorni partendo dalla realtà così come è, si ottiene un panorama dalla semplicità disarmante. A descriverlo basterebbero questi tre versi di Giuseppe Gioacchino Belli, scritti in pieno ottocento (da “Li Papati”): “Er ricco sciala, er ciorcinato stenta: Strilli ggiustizia, e gnisuno risponne E ppoveretto lui che sse lamenta.” Come al tempo dei papi, le leggi e le istituzioni bloccano il sistema, e lo rendono complesso e difficile a rompersi. Ma anche qui le cose sembrerebbero semplici. Come diceva Oscar Wilde nel 1896 nella “Ballad of Reading Gaol” “[...] every Law That men have made for Man, Since first Man took his brother’s life, And the sad world began, But straws the wheat and saves the chaff With a most evil fan”. In questa semplicità, e con la divisione del lavoro tra le varie scienze sociali, l’economia potrebbe offrire descrizioni e soluzioni semplici. Invece, l’economia stessa è una cosa complicatissima. Già classificarne le varie branche è impresa improba. Il Journal of Economic Literature (organo dell’American Economic Association) lo ha fatto, producendo uno schema che nel 20021 divideva la materia in 19 gruppi principali, con 105 sub-gruppi e nientemeno che 712 sub-sub-gruppi (molti dei quali sono composti di numerose voci). Questo è tanto più sorprendente quando si pensa che al giorno d’oggi la stragrande maggioranza degli economisti si riferisce in senso metodologico e politico al gruppo cosiddetto mainstream, o dominante o ortodosso, e che molte se non tutte le teorie eterodosse non sono che variazioni critiche di temi ortodossi. In più, specie nel nostro pavido e moderato paese, molti sedicenti “marxisti” non sono altro che keynesiani dichiarati, in bilico su quell’ambigua, sottile linea che dovrebbe separare etero- ed ortodossia mainstream. Di solito si danno tre parziali spiegazioni per questa situazione. La prima, che comprende nel suo raggio d’azione anche il marxismo, è che l’economia (o economia politica, vedremo le differenze) è stata partorita dai dibattiti filosofici dei secoli XVIII e XIX. Come in tutte le scuse, vi è una parte di verità: Smith e Marx erano nati come filosofi. Ma la storia della relazione tra filosofia ed economia si chiuse lì, ed oggi la massa degli economisti ostenta la propria ignoranza di qualsiasi cosa non sia l’economia del loro piccolo campo. Vi è poi, naturalmente, una sparuta minoranza che al contrario ostenta la propria identica ignoranza della filosofia nel modo opposto: menzionando questioni filosofiche e nomi di filosofi (vedremo più in là), nella certezza di non poter essere colti in fallo dai colleghi. Si pensi all’inutile battaglia, tuttora in corso con abbondanza di enfasi, contro il positivismo. O si pensi alla leggerezza con la quale i cosiddetti “marxisti ortodossi” o “tradizionali” dicono “dialettica”. La seconda spiegazione, valida sopratutto per il mainstream (etero ed ortodosso) usa la scusa della “scientificità” richiesta dall’importanza della materia (i marxisti alla moda qui inseguono). I sostenitori di quest’altra vuota visione si appellano alle ultime mode nelle altre scienze (senza capirle, come per la filosofia, o non potrebbero perseguire i loro fini), aggravando la loro posizione con la presunta necessità del dover dare analisi della realtà concreta ai fini normativi e/o positivi di enunciare politiche economiche, o trovare i colpevoli di qualche disastro2. Schiere di economisti si dedicano a spaccare questo o quel capello teorico o empirico in quattro, mentre gli altri attendono mascherando le risate3. Una terza e più tecnica spiegazione inutile è proposta da quegli economisti che usano la matematica per impressionare colleghe e colleghi più giovani. Samuelson lo fa da 50 anni. Il metodo matematico per questa gente deve continuamente cambiare nel senso del Gattopardo (intendo dire “evolversi e raffinarsi”, scusate) vista la fastidiosa complicazione della realtà rispetto ai sistemi analitici usabili: di qui le differenze ed i contenziosi. Vedremo anche questo nel corso del presente scritto. Il fatto è che il mercato non funziona come selettore nemmeno nelle relazioni tra gli economisti stessi. Le idiozie non spariscono, ma rientrano continuamente nel giro. È proprio l’evidente inefficienza che rende le idee economiche vendibili sul mercato della professione, dato che permette a tutti i partecipanti di fare il loro intervento. Più inutili gli interventi, più la giostra va avanti4. Vi è poi una faccenda ben più seria. Se la verità è semplice le inferenze possibili sono chiare, nette e sopratutto forti. Ciò implica importanti conseguenze politiche, cioè pratiche per tutti noi: si finirebbe a parlare di rivoluzione, liberismo, comunismo sul serio, e magari a dover agire. Si dovrebbe insomma lasciare quel mondo di rancorosa impotenza in cui la maggior parte degli uomini di tutte le classi sociali si è dibattuto, fingendosi a favore o contro questa o quella cosa, sin dai tempi della rivoluzione industriale. Vedremo in quanto segue le principali differenze tra le diverse idee economiche più diffuse ai nostri tempi, partendo (per poter spiegare gli assi portanti delle differenze stesse, che in parte ci sarebbero) dall’Economia Politica Classica. Vedremo mano a mano quanto inutili siano gli aspetti eruditi, e quanto giovevole l’ignoranza. Dobbiamo infatti arrivare a spiegare la dominanza ai nostri giorni di un punto di vista economico che assomma l’ignoranza di tutto quanto non sia economia all’ignoranza altrettanto crassa di tutto quanto sia economia: il neoliberismo. I nomi e concetti importanti che menzioneremo avranno fatto, come sempre in economia, una inutile passeggiata attraverso le pagine di questa rivista. L’impotenza dell’economia non deve però vederci associati ad essa. Per questo, come ho già fatto in questa introduzione, cercherò di quando in quando di riportarci tutti alla realtà citando dalla letteratura. Chi sa che non sia rivoluzionario.

2. Economia politica classica

Nel 1824, nel “Dialogo di Tristano e di un Amico”, Leopardi fa dire a Tristano con disperata ironia: [...] Ma viva la statistica! Vivano le scienze economiche, morali e politiche, le enciclopedie portatili, i manuali, le tante belle creazioni del nostro secolo! E viva sempre il secolo decimonono! Forse povero di cose, ma ricchissimo e larghissimo di parole: che sempre fu segno ottimo, come sapete. E consoliamoci, che per altri settantasei anni, questo secolo sarà il solo che parli, e dica le sue ragioni” (1993, p.232). Si era infatti nel pieno di dibattiti “moderni”, simili ai nostri, sulle questioni economiche e su come ragionarci sopra. Adam Smith aveva pubblicato nel 1776 il suo “Wealth of Nations”, cui era seguita un’ampia discussione. David Ricardo, il secondo grande nome di cui dobbiamo parlare, si riferiva proprio a Smith ogni volta che si trovava in difficoltà. I “Principi di Economia Politica” di Ricardo risalgono (prima edizione) al 1817. Nel 1848 John Stuart Mill, figlio del filosofo utilitarista James, amico personale di Bentham stesso, pubblica i suoi fondamentali “Principles of Political Economy”. Nel 1844 Marx, con i suoi Manoscritti Economico-filosofici, inizia lo studio sistematico dell’economia politica5. Possiamo, per comodità, riferirci a questi quattro nomi per definire la cosiddetta “economia politica Classica”. Ora siamo pronti a fare un mare di torti a ciascuno di questi autori selezionando le linee salienti dei loro rispettivi approcci alla materia. Cominciamo con il dare un quadro degli ascendenti filosofici di questi quattro mostri sacri. Smith veniva dalla tradizione scozzese, che aveva avuto un forte momento Illuminista. Ma Smith aveva anche bene in mente il lavoro di Hobbes, Hume e Locke, nonché di Newton. Vale la pena aprire una parentesi su quest’ultimo. Newton, per spiegare e descrivere quello che oggi chiamiamo meccanica classica, aveva raffinato l’ “analisi matematica”. Proprio questa ultima materia torna in economia con i Neoclassici, i padri dell’odierna “economia”. Ciò avvenne perché i Neoclassici come vedremo si sono potuti costruire una genealogia che con il metodo della fisica si appellava a Smith basandosi su Ricardo, che era poco dotato filosoficamente ma incline a fornire schematizzazioni simili a quelle dell’economia moderna, e su John Stuart Mill. È infatti Mill, secondo la mitologia Neoclassica, a fornire il destro per la metodologia moderna, detta “marginalistica”. Tale approccio si basa su di una schematizzazione matematizzante (essenzialmente le derivate) e vagamente utilitaristica: le origini di entrambi questi peccati sono proditoriamente attribuiti a Mill, proprio come quando si dice che Marx è responsabile per lo stalinismo. L’utilitarismo era, in brevi ed inadeguate parole, una filosofia basata sul calcolo dei piaceri e delle pene. La ricerca del piacere e dell’utilità individuale coincideva, nei sogni di Bentham, con il benessere della società. Ciò poteva anche, pur con molta buona volontà, essere portato a coincidere con l’idea di “mano invisibile” e di libero mercato lanciata da Smith (stiamo accettando, per semplicità di esposizione, un’altra mitologia). Marx veniva invece dalla filosofia continentale, ed in particolare era di scuola Hegeliana (di sinistra), e debitore a Feuerbach proprio per la critica della dialettica Hegeliana. Il sistema di Hegel era, per usare le parole di Marx, un “misticismo razionale” che mirava attraverso l’evolversi dialettico (cioè di mutua costruzione e ripetizione, in cui tutto diventa “altro” senza perdere “sé stesso”) alla realizzazione dell’Idea: la stabilizzazione finale dell’universo, vicino alla divinità. I più acuti avranno già notato le similarità possibili tra la dialettica ed il mercato. Ma non anticipiamo. Vi è dunque, almeno in questa fase, una qualche relazione tra economia e filosofia, anche se forse Smith tremerebbe di vergogna a sentire questa cosa. Ciò che succede infatti è che l’economia politica nasce per distacco dalla filosofia, per situarsi autonomamente definendosi rispetto ad uno specifico insieme “politico” di problemi. Né Smith, né Mill, né ovviamente Ricardo, menzionano filosofia nei loro volumi di economia politica. L’intento iniziale di Smith era di bloccare gli errori di Fisiocratici e Mercantilisti, che avevano proposto una visione dell’attività economica “erronea”. Fisiocratici e Mercantilisti infatti cercavano di concepire l’attività economica delle entità politiche. Essi miravano nel primo caso a creare un “Tableau Economique”, uno schema del modo di interagire dei vari settori dell’economia (ripreso da Marx con i dipartimenti I e II), mentre nel secondo intendevano dimostrare l’importanza del commercio estero per la “ricchezza delle nazioni”6. Non è un caso che il libro di Smith si riferisse alla ricchezza delle nazioni. Ma qui (vedi Micocci, 2004) cominciano le difficoltà ed incongruenze, alcune delle quali infastidivano Leopardi, e più modestamente chi scrive. Smith fa una cosa che ha tuttora un effetto nefasto sullo sviluppo della teoria economica: da un lato concepisce il mercato libero ed il libero scambio, ma dall’altro parla appunto di “nazioni”, costringendo il potere dirompente del mercato entro la camicia di forza nazionale: trasformando lo scambio libero in commercio tra nazioni. Smith commette un altro errore tipico, bovinamente ripetuto implicitamente ed esplicitamente da allora. Con il suo famoso esempio dello scambio cervo-castoro in ideali situazioni primitive egli fornisce una genealogia immaginaria, metafisica alle relazioni economiche. Smith voleva semplicemente dire che solo il suo tempo, con l’industrializzazione (come noi l’abbiamo chiamata sulle orme di Marx), ha portato a compimento la divisione del lavoro7. La tecnologia e la fabbrica, unita alla divisione in classi, costituiscono l’essenza della modernità e l’ambiente ideale per il libero scambio vero, completo e perfetto. Dunque noi non dobbiamo la nostra birra e la nostra carne alla benevolenza del birraio e del macellaio (altro suo famoso esempio), ma alla loro ricerca del proprio tornaconto personale. È in questo quadro che le forze della domanda e dell’offerta operano per creare quell’immaginaria armonia di interessi soddisfatti che oggi si suole chiamare mercato. Le attività produttive, spinte dall’innovazione tecnologica e dirette dalla domanda, potrebbero crescere per sempre. Naturalmente ciò pose dei problemi di definizione delle variabili di base: basti menzionare che Smith non riesce a convincere tutti di come si formino prezzi, profitti e rendite. Per Smith, come per Ricardo e poi Marx, il lavoro è la fonte del valore: intuitivamente ciò appare giusto, ma siamo ancora in attesa di una dimostrazione8. Smith afferma inoltre l’utilità dei commerci con il paese ricco vicino, pur rendendosi conto della tendenza dei paesi ricchi a fare guerra e conquista piuttosto che commercio (Micocci, 2004). Ciò fu ripreso da Ricardo con l’idea dei costi comparati, che ha dato inizio alla branca dell’economia detta “internazionale”, un pilastro del neoliberismo. Stiamo assistendo alla tacita e pasticciata riunione di tutte le idee dette sopra (manca solo la dialettica), che ha compimento, dice la leggenda, con Mill, anche se questi credeva nella fine del capitalismo, della proprietà privata, ed aveva dubbi socialisti. In questo quadro comunque non si capisce da dove esca il surplus da reinvestire per crescere. Marx si pose proprio questo essenziale problema. Diversamente dai suoi colleghi Classici, egli però intese guardare direttamente alla realtà, che in termini umani si chiama storia. È infatti lì che andrebbe cercata l’origine dei fenomeni presenti. Gli altri economisti politici Classici infatti, Marx ci dice, facevano il fondamentale errore di idealizzare il presente a categoria a-storica, trasferendolo al passato (come per la sopra menzionata ragione di scambio tra castori e cervi di Smith), proprio come Hegel con la sua politica. Alcune categorie del presente diventano categorie assolute attribuibili senza problemi a tutte le epoche ed a tutte le latitudini: ancora oggi l’economia non è che l’osservazione di alcuni fatti presenti, adattata alle istituzioni presenti ma trascesa in una materia che si pensa riferita a tendenze universali dell’uomo. È in questo ambito, e proprio a causa di tale errore logico (Micocci, 2002), che Marx nota che il capitalismo è dialettico. Il mercato, gli scambi, lo Stato (che intervenga o no), le classi sociali e tutto il resto interagiscono dialetticamente: sono bloccate e condannate ad interagire dal sapersi riferire solo alle proprie categorie (logicamente errate, come sopra detto). Dunque tutto funziona perché esclude la realtà in generale, isolando la società borghese in un sistema auto-referenziale. Tale sistema, per Marx, ottiene il proprio surplus da reinvestire nella crescita dal fatto che, come dicono gli altri Classici, il lavoro crea valore. Quest’ultimo viene sottratto dal possessore di capitali al possessore di lavoro: lo sfruttamento. La società borghese in altri termini concepisce l’uomo solo in quanto portatore di una potenzialità di valore creabile, che è vendibile sul mercato in nome di categorie che sono solo ed esclusivamente borghesi, ma che sono state trascese ad “universali”. Tale processo porterà inevitabilmente ad uno scontro tra le classi sfruttate e quelle che sfruttano: la lotta di classe. Ma sarà questa la fine del capitalismo? Marx è vago e di diverse opinioni su questo tema, anche perché alle prese con una questione che i Classici intuiscono ma non sanno spiegare né risolvere: il capitalismo è prono alle crisi, addirittura funziona ciclicamente a causa di queste ultime. Ciò che è certo in Marx è che il capitalismo (la società borghese) scomparirà come qualsiasi cosa in natura e nella storia, cioè non per ragioni esclusivamente economiche. Questo, si badi bene, non è un concetto dialettico. Il capitalismo però è dialettico: contiene le forze del cambiamento continuo e del non cambiamento, ma non della distruzione/scomparsa. Questa dipende da relazioni non dialettiche, da quella che Leopardi vedeva come liberazione dall’amarezza del mondo, e che il rivoluzionario dovrebbe cercare. Per fare ciò si deve uscire dal pasticcio (dialettico o utilitarista, o della metafora della mano invisibile, e dell’utopia rivoluzionaria liberale) dell’economia politica. Ma ciò, malgrado Marx morisse lasciando il suo sistema incompleto, non si è fatto. È successo invece che tra le mani di Engels, Kautsky, Bernstein, Plekhanov e Lenin il marxismo ha tentato di sviluppare una economia politica di natura dialettica. È così divenuto un formidabile strumento analitico, capace di spiegare le dinamiche interne del capitalismo. Ma ha perso la forza rivoluzionaria, in quanto il marxismo dialettico manca, come sopra visto, della capacità di concepire la rivoluzione come scomparsa delle categorie capitaliste. Ecco perché, tra l’altro, si è spacciato per socialismo l’Unione Sovietica, una evidente e malinconica parodia dialettica della società borghese. Quello che però importa a noi qui è che a questo punto l’economia politica Classica si è divisa. Da un lato la leggendaria genealogia Smith-Ricardo-Mill ha preso una strada di tipo metodologico preciso, politicamente conservatore. Dall’altro il cosiddetto “marxismo tradizionale o ortodosso” o meglio che si richiama a un marxismo di comodo, cioè che non si esplicita come critica dell’economia politica si è confinato da solo nel ruolo di grillo parlante del capitalismo: di colui che vede nella coscienza, e sa spiegarne le ipocrisie, pur senza poter cambiare la natura dell’individuo che ha di fronte. Sono nate l’economia borghese e quella socialista marxista. Stiamo per assistere alla nascita dell’ “economia” dalle ceneri dell’economia politica, materia nata proprio dall’eliminazione della filosofia.

3. Economia e basta

Abbiamo visto apparire l’economia politica dalla sparizione della filosofia, ed una parodia della filosofia Hegeliana rimpiazzare Marx. Abbiamo anche visto dividersi le strade dell’economia politica Classica: da una parte un mondo senza storia, una ipostatizzazione del presente trasceso ad universale. Dell’altra parte, quella marxista ortodossa, o tradizionale, parleremo in sezione 6. Qui dobbiamo descrivere la nascita dell’economia Neoclassica, o economia tout court. Il vecchio Soames Forsyte, dubitando di certi affari internazionali ratificati precedentemente dal consiglio d’amministrazione in cui è appena entrato, siede a pensare cosa lo abbia reso un capitalista di successo: “All the old wisdom that in the nineteenth century had consolidated British wealth, all the Forsyte philosophy of attending to one own’s business, and taking no risks, the close-fibred natural individualism which refused to commit the country to chasing this wild goose or that [...]” (1953, p.75). Per bocca del suo personaggio immaginario Galsworthy riassume perfettamente cosa sia stato in pratica lo sviluppo capitalista: egoismo, interesse, rifiuto del rischio e della creatività, chiusura nei confronti delle cose straniere a meno che non si tratti di conquista militare e colonialismo. Tutto il contrario di quello che speravano i Classici e che è implicito nell’utopia liberale (se si esclude l’interesse per il tornaconto personale e nazionale, che qui diviene egoismo puro, non a caso tramutato in individualismo). Eppure Adam Smith e David Ricardo avevano chiaramente, anche se non rigorosamente, espresso la necessità del commercio con l’estero, dell’internazionalizzazione dell’economia, del rischio imprenditoriale. Possibile che più ci avviciniamo ai nostri giorni più ci allontaniamo da quanto si dovrebbe sentire e vedere? Vediamo cosa succede. Alla fine del secolo XIX, con un dibattito che si protrae però fino agli inizi del secolo XX, Jevons, Edgeworth, Menger, Walras, e Marshall più o meno simultaneamente ma indipendentemente enunciano9 i principi di base dell’economia “Neoclassica”. Tra di essi, Jevons è il più esplicito nell’asserire le origini utilitaristiche della sua visione: non solo l’economia deve essere un calcolo di pene e di piaceri (utilità) ma deve avere una “forma” scientifica. Su questo ultimo punto tutti gli altri autori sono d’accordo. La forma scientifica che la materia deve prendere è quella ingegneristico-matematica10. Al centro della disciplina non è più la realtà (il consolidamento del capitalismo è dato per scontato), ma un nocciolo teorico “astratto” (anche se l’uso di quest’ultimo termine è quanto mai inappropriato). Viene creato un Homo Oeconomicus, che scambia istintivamente e basa le sue attività di scambio sulla “massimizzazione” dell’utilità. A questo scopo l’analisi matematica viene perfetta. Il metodo marginalistico altro non è che una derivata, il punto nel quale un ulteriore porzione di utilità, profitto, ecc., per quanto piccola ed immaginaria, è di troppo. L’Homo Oeconomicus, ad esempio, smette di produrre quando il costo di quest’ultima, immaginaria porzione è uguale al prezzo. Più oltre perderebbe, più indietro non massimizzerebbe11. Il tipo di matematica da usare fu trovato dagli economisti bello e pronto. Era infatti il modo di esprimersi della “scienza” naturale più importante di allora, la fisica. Di qui l’impressione che i fondatori dell’economia Neoclassica fossero dei positivisti. Non è che non lo fossero, visto che avevano assorbito il metodo scientifico (positivista) delle scienze naturali. Il fatto è che il problema non si poneva in pratica, né si pone oggi. Malgrado ciò, molte carriere accademiche si sono costruite (si prenda Mirowski) tuonando sul positivismo. È importante notare che la matematica dell’economia Neoclassica è basata sull’idea di funzioni continue, cioè relazioni prive di interruzioni e sparizioni. Siamo, come prima, nel più dialettico ambiente possibile. Quello che i Neoclassici hanno fatto è stato consentire alla teoria, rendendola “astratta” (metafisica in senso post-Aristotelico, in verità) di rompere quei pochi legami con la realtà che avrebbero potuto seminare i germi di una discontinuità, di una rottura, di un ritorno della storia. Da qui in poi, il problema sarà inventare modi per costringere i dati empirici a dire quello che la matematica elementare del metodo vuole fargli dire, perché solo può dire. Abbiamo una vera teoria, possiamo inventarci le barzellette sulla professione. Cosa è dunque l’economia? Un insieme di “assunzioni” teoriche, dalle quali si possono inferire logicamente i comportamenti. Il mercato non è più quel posto ove vorresti vendere i tuoi prodotti o comprare a prezzo conveniente. Esso è il posto dove operano un numero infinito di compratori e venditori individualmente incapaci di influenzare i prezzi, in grado di venire ed andare e con perfetta conoscenza di quello che succede ovunque nel mercato stesso (sto semplificando, ma non troppo). La domanda e l’offerta non sono più il risultato delle possibili azioni di possibili persone reali, riassunte dal genio di Smith o Ricardo. Sono invece curve inclinate in senso opposto, che guarda caso si incontrano in un punto che rappresenta, se il mercato è quello della teoria, l’ “equilibrio”. È in quel punto preciso che gli interessi di chi compra e di chi vende convergono, massimizzando le utilità, qualsiasi forma queste ultime prendano (le curve possono rappresentare, come è immaginabile, qualsiasi cosa economica, visto che qualsiasi cosa è rappresentabile in termini di utilità). Non si deve però pensare che i padri fondatori avessero le stesse idee e le stesse soluzioni. Vediamo solo le differenze più rilevanti ai nostri fini. Una delle più interessanti è quella sull’equilibrio, e su come lo si debba considerare. Walras, ed il suo successore Pareto12 propendevano per un “equilibrio generale”, un sistema matematico di equazioni simultanee che mirava ad evidenziare i legami (tramite i prezzi) che uniscono tutti i mercati. Si tratta di un grande progetto non solo nelle intenzioni, ma perché si pone come un’opera impossibile, che può quindi dare da mangiare a generazione dopo generazione di economisti. Non sorprende che l’equilibrio generale sia ancora la versione più conosciuta ed usata dalla teoria dominante. Marshall invece proponeva l’analisi dell’equilibrio “parziale”. L’idea era, nel classico stile del “senso comune” e dell’empirismo britannico, di studiare un mercato o settore produttivo alla volta per ottenerne dati utili all’azione pratica. L’equilibrio parziale non è morto, ma si usa principalmente appunto per applicazioni limitate, come l’economia agraria. Si deve infine menzionare Menger, iniziatore nella loro forma più puramente e fieramente liberistica di due scuole di pensiero, quella Neoclassica e quella austriaca. Menger è noto per le sue incursioni metodologiche che hanno dato vita all’ “individualismo metodologico” (l’individuo è il nocciolo al quale qualsiasi analisi di aggregati può ridursi), ed alla a-moralità della “scienza pura”, che appunto non si deve occupare di questioni morali, di valori. Si tratta di due colonne portanti dell’economia moderna. Così sfrondata di tutti gli aspetti più legati alla realtà l’economia si poneva però in una condizione di estrema debolezza nei confronti del marxismo, che coniugava invece teoria e realtà cercando di “cambiare” il mondo attraverso l’agitazione sindacale e politica. Con un’altra insolita ma logicissima coincidenza lo stesso periodo vide la nascita di quei complementi che l’economia ora necessitava. Durkheim e Weber diedero vita alla sociologia, su basi metodologiche diverse da quelle dell’economia, togliendo molte importanti castagne dal fuoco agli economisti, così come ai governi impegnati a contenere le agitazioni socialiste. L’antropologia, la scienza politica e tutte le altre discipline vennero poi naturalmente. Gli economisti avevano chi si occupava delle cose implicite e date per scontate dall’ “astrattezza” della teoria economica. E da un punto di vista “amichevole”! Ora il nostro Soames Forsyte può dormire sonni tranquilli: sta sì tradendo le aspettative dei liberisti, ma è ben coperto da una teoria “neutrale” che conta proprio sulla incompletezza propria e del capitalismo. Se gli economisti si perdono tentando di spiegare un Forsyte, i sociologi vengono in aiuto. In tale situazione l’economia può sia enunciare i principi teorici delle categorie necessarie (mercato, scambio, individualismo metodologico, prezzo, e chi più ne ha più ne metta), sia dedicarsi alle imperfezioni proprie e della realtà empirica. Ed il valore, ed i prezzi, ed il lavoro (e quindi la sofferenza)? Tutto evaporato nella ineffabile praticità del principio del valore utilità, che soppianta il valore lavoro dei Classici. Con questo perfetto sistema ad incastro possiamo ottenere la soluzione ai nostri sistemi di equazioni, e mettere in evidenza (non sminuire, si badi a questa astuzia) l’imperfezione della realtà. L’economia dominante assilla per sempre il politico che si dichiara a favore del mercato: potrà mai arrivare, per quanto si sforzi, ad un mercato perfetto nel suo paese? E chi potrà mai provare errati quegli economisti che insistono (inoppugnabilmente, vista l’impossibilità di realizzare il mercato teorico) che il mercato non è ancora abbastanza mercato? Per amore di giustizia, e per via del relativo interesse teorico rispetto all’economia, è doveroso menzionare la scuola austriaca, iniziata come detto da Menger. I più illustri rappresentanti di questo approccio sono Von Mises e Hayek; la scuola è tuttora viva e vegeta, e meriterebbe più attenzione. Gli austriaci sostenevano che l’approccio matematizzante dei Neoclassici fosse inadeguato a rendere la realtà. Essi sostenevano inoltre che il mercato/mano invisibile fosse la panacea universale per tutti i mali del capitalismo ed oltre. Uno si aspetterebbe dunque dei veri e propri “anarchici di mercato”, titanici lottatori dedicati alla demolizione delle istituzioni nazionali. La realtà è tutto il contrario: Mises ed Hayek discettano sì su come evitare, ridurre ed eliminare l’intervento statale in economia. Questa loro visione è però costruita su di un concetto di Stato forte, con pieni poteri repressivi, con leggi precise, e su di un cittadino devoto a tale Stato (Micocci, in preparazione). È bene che questo sia sottolineato fortemente: non troviamo, tra gli economisti che ormai possiamo chiamare in generale “dominanti” o di mercato (anche tra i più liberisticamente estremisti), altro che invocazioni di uno Stato forte, interventista, nonché protezionista o astensionista a seconda delle mode. Un caso a parte, frutto insieme dell’equilibrio generale di Walras e della scuola austriaca, è costituito da Joseph Schumpeter. Qui vale la pena ricordarlo per aver posto l’irrisolvibile problema della “dinamica” dell’equilibrio (come si va da un equilibrio all’altro?), per aver tentato di introdurre un approccio storico alla Marx13, e per una visione pessimistica del cammino del capitalismo, con il capitalista ridotto dal “creativo” di origine al ripetitore di routine alla Soames Forsyte. La stabilizzazione di una visione dominante porta con sé le relative eterodossie. La più utile ai nostri fini è quella, contemporanea ai Neoclassici, dell’Istituzionalismo. I suoi rappresentanti sostenevano l’importanza di considerare le istituzioni, e sopratutto evidenziavano la trasformazione delle inevitabili routines in vere e proprie istituzioni. Veblen e Commons ne sono i principali rappresentanti, anche se il primo è un uomo troppo originale per essere appiattito sul secondo. Siamo nel pieno dell’economia che ha perso la qualificazione di politica.

4. Il groviglio di oggi

In “Catch 22” Heller descrive la follia della logica delle istituzioni nazionali e militari, nel fantasioso quadro di un’isola del mediterraneo durante la seconda guerra mondiale. Milo, ufficiale addetto ai rifornimenti, inventa un “syndicate”, una vera e propria impresa multinazionale, e si dedica a moltiplicare scambi commerciali infiniti. La logica commerciale lo spinge ad esempio a danneggiare i salvagente degli aeroplani o a bombardare il proprio campo, visto che “quello che è buono per il syndicate è buono per te”. Ma l’essenza di ciò che fa è riportata in questo frammento estratto da una spiegazione al protagonista Yossarian sul suo commercio di uova, lunga due pagine: “Because I’m the people I buy them from”, Milo explained. “I make a profit of two and three quarter cents apiece when I buy them back from me. That’s a total profit of six cents an egg. I lose only two cents an egg when I sell them to the mess halls at five cents apiece, and that’s how I can make a profit buying eggs for seven cents apiece and selling them for fice cents apiece. I pay only one cent apiece at the hen when I buy them in Sicily”. “In Malta,” Yossarian corrected. “You buy your eggs in Malta, not Sicily” Naturalmente Yossarian scopre di avere torto. Come un altro personaggio della letteratura dimostra, nella seconda metà del secolo XX cosa e come produrre ha perso importanza. Ciò che conta, ed in questo i Neoclassici sono stati buoni profeti, è lo scambio. Ma lo scambio, ed i relativi profitti, possono aver luogo in quanto il mondo è diviso in Stati nazionali, spesso in guerra, come Milo mostra. Il “libero” mercato effettivamente dipende, come perfino Smith intuiva, dall’esistenza di Stati nazionali, cioè precisamente quelle entità che ne ostacolano il funzionamento. Ma il problema, è bene ribadirlo, non è più quello che si ponevano i Classici e Marx, cioè la produzione: l’impiego di terra, lavoro e capitale. Ora si scambia denaro, a prescindere persino dalle merci. La relazione tra economia/economisti e le istituzioni statali non è innocente come può sembrare. Gli economisti dominanti dovrebbero optare per soluzioni statali liberali in teoria ed in pratica. Così non è, invece: come ben dimostra McCann (2004), i grandi liberali hanno in realtà una visione “communitarian” sottesa alle loro posizioni14. Altro che il benevolo distacco del liberale: questa gente è aperta a tutte le forme di nazionalismo, colonialismo e simili, oltre che a tutte le forme di liberalizzazione così come di protezionismo. Essi difendono i vari Milo che il mondo alberga ovunque. Avevamo lasciato la teoria economica con una dottrina dominante pronta a dividersi in mille rivoli divergenti. Mancava una scusa per farlo, una teoria che fosse alternativa senza esserlo, che parlasse un linguaggio solo apparentemente diverso, magari riconnettibile a quei “valori” che il metodo esclude. Tale teoria arriva, con un’altra coincidenza fortunata per l’economia, proprio a ridosso di un evento, la crisi del 1929, che costringeva a ripensare le strategie economiche. Non che gli economisti non volessero parlare di giustizia sociale. Proprio da Marshall (un razzista, secondo i nostri standard) e sopratutto dal suo successore Pigou nacque a Cambridge l’”economia del benessere”. Si trattava di trovare il modo, entro la cornice della teoria dominante, di assicurarsi che ci fosse “equità” nella distribuzione. Qui si aveva già un principio di base, dovuto al successore di Walras, il cosiddetto “ottimo di Pareto”: una condizione aritmetica teorica per la quale una situazione economica è migliore di un’altra quando rende qualcuno più contento senza scontentare nessuno. Il libro “The Economics of Welfare” di Pigou è del 1920. Ma a Cambridge viveva proprio l’uomo che avevamo annunciato poco sopra, che avrebbe fornito la scusa per moltiplicare le idee economiche15: John Maynard Keynes. Stiamo parlando di uno studioso dalle grandissime capacità, un matematico divenuto economista ed effettivamente impegnato a migliorare la società. Inoltre, cosa che ha molto aiutato gli eventi successivi, si trattava di un grande scrittore. La sua prosa scorre così bene che è stato difficile accorgersi delle incompletezze della sua opera principale, la”General Theory of Employment, Interest and Money” del 1936. Essa fu ideata e scritta nel mezzo della peggiore delle varie crisi capitaliste. Non è facile dunque riassumere in poche parole cosa volesse dire Keynes. E poi forse importa meno di quel che sarebbe logico, perché mentre da lungo tempo ormai gli economisti non leggevano che di economia, con gli anni ’30 era arrivato il tempo che gli economisti non leggevano nemmeno più di economia. Quello che saremo dunque costretti a trattare sarà principalmente il Keynes dei Keynesiani. Il fatto è che le teorie di mercato implicavano in molti modi che all’equilibrio si sarebbe dovuta avere piena occupazione, oltre che pieno utilizzo dei fattori produttivi e completa esitazione delle merci. Gli anni ’30 mostravano a tutti che questo non era mai successo in pratica, e le uniche variazioni che si ricordavano erano in peggio. La legge di Say non sembrava operare: montagne di merci giacevano invendute mentre grandi masse vagavano affamate. Una delle maniere in cui dunque l’opera di Keynes è stata riassunta è il tentativo di argomentare un equilibrio senza piena occupazione. Keynes riprende inoltre il discorso di cosa si faccia con il reddito ed il risparmio, proponendo una diversa visione della funzione e del funzionamento del saggio di interesse, e mostrando che vi è una fetta del risparmio che è bloccata a scopi “prudenziali”, così rompendo i circoli virtuosi degli equilibri. Insomma, fenomeni “reali” e “monetari” agiscono insieme, diversamente dalla visione Neoclassica. Quello che rese tutto più difficile fu la pur prudentemente esposta idea di Keynes che quanto stava proponendo potesse essere alternativo alla teoria dominante. La poca chiarezza, malgrado la prosa cristallina, del libro di Keynes richiese un’opera di esegesi e sopratutto di “formalizzazione”, cioè di trasformazione nel linguaggio pseudo-matematico degli economisti, con la sua inutile pletora di grafici. Tra i tanti, Harrod, amico personale di Keynes, si prese la briga di effettuare questa operazione. Vedremo come finì quando parleremo della “sintesi” e di Samuelson. Ciò che conta ora è che il keynesismo era nato, così come la indifendibile dicotomia microeconomia-macroeconomia. I governi presero sul serio alcuni riferimenti di Keynes a programmi di investimenti pubblici utili ed inutili (Keynes aveva parlato ad esempio di seppellire denaro in vecchie miniere in disuso con il solo scopo di perderlo e recuperarlo facendo lavorare qualcuno), e si uscì dalla crisi. La guerra mondiale portò altre delle idee di Keynes in auge (ad esempio sulle politiche monetarie mondiali), e gli anni ’50 e ’60 videro le economie occidentali decollare di nuovo, e guarda caso arrivare vicine al pieno impiego16 con politiche keynesiane. Programmi umanitari per le classi svantaggiate sembravano avere effetto, e la crescente importanza delle organizzazioni dei lavoratori sembrava dimostrare una convergenza tra revisionismo socialista e keynesismo. Le parole che si riferivano ai valori venivano addirittura pronunciate da taluni economisti e politici. Nel frattempo marciava l’elaborazione della “scuola” keynesiana, proposta in termini formalizzati che sarebbero dispiaciuti a Keynes. Harrod, Domar, Hansen, Klein e molti altri lavoravano ad una economia che correva rapida sul filo di una differenza con le teorie Neoclassiche che diveniva meno e meno precisa. A questo punto entrano in scena altri personaggi ed altre circostanze, e quella che sembrava una triade (Neoclassico, Keynesiano e cosiddetta marxista “ortodossa” o “tradizionale”) collegata da vari ponti diventa una relazione più complessa e più intima. Ciò provocò cambiamenti nella scuola Keynesiana: si passa al neo-keynesismo, e ad una serie di sottogruppi tuttora in fermentazione17. Nel 1959 Debreu pubblica la sua “Teoria del Valore”, rimettendo in piedi su nuove vecchie basi più matematizzanti l’equilibrio economico generale. L’approccio detto Arrow-Debreu diventerà l’approccio dell’economia dominante da allora ad oggi. I problemi teorici non mancano, ma l’approccio matematizzante (di nuovo, non matematico) rende possibile la critica solo a chi usi lo stesso linguaggio. Come diceva Mussolini, “chi non è con me è contro di me”. Tra i più noti esponenti di questa visione, che si rende imprescindibile per chiunque voglia fare economia, è Frank Hahn, un fiero oppositore di tutto quanto odori di teoria o addirittura di dubbio metodologico. Più o meno nello stesso periodo avviene l’inevitabile: la teoria Neoclassica e keynesiana convergono nella cosiddetta “sintesi”. L’approccio Neoclassico assorbe con gli anni i toni Arrow Debreu e le variazioni keynesiane in nome di una sentita preoccupazione per i problemi delle classi inferiori, ben rappresentate nella figura di Paul Samuelson, i cui libri di risistemazione dell’economia teorica sono tuttora l’alfa e l’omega dell’economia a livello didattico. Tra gli autori principali della fondamentale corrente di pensiero della sintesi troviamo oltre a Samuelson Klein, Modigliani, Hicks, Harrod, Tobin e Patinkin. Ciò che avviene in sostanza è che questi autori sistemano entro il quadro dominante, con la solita matematica ingegneristica, le questioni poste da Keynes. Ciò non spaventerà affatto i keynesiani di origine marxista, né allora né oggi. Nel frattempo fin dagli anni ’30 era sorta l’econometria, una disciplina che univa economia (poca, e dai manuali più che dalle fonti) e metodi statistici, e dedicata a provare empiricamente quanto l’economia (la ristretta visione dell’economia da loro usata) afferma in teoria. Tanto questa branca si è sviluppata che oggi vengono creati veri e propri titoli di studio in questa materia. Il risultato vero è che l’economia ne esce rafforzata, in quanto l’econometria si riferisce ad una economia dominante volgarizzata, le cui incoerenze teoriche generali finiscono in secondo piano. Negli anni ’50 si diffondeva anche un’altra maniera per i marxisti pentiti o per i pavidi di sinistra di identificarsi: lo strutturalismo. Si trattava di un modo, analogo ed alternativo al marxismo, di concepire sistemi di strutture che evidenziavano le correlazioni tra le cose del mondo. In economia lo strutturalismo si è accompagnato alla nascita dell’economia dello sviluppo, concentrata sulle presunte differenze nel cammino verso lo sviluppo economico dei paesi appena liberati dal colonialismo. Tale visione, nata come critica dell’economia dominante, si riunirà poi ad essa negli anni ’80, riportando tutti i moderati di sinistra che ad essa si riferivano sotto l’ala dominante. Tra le conseguenze della temporanea moda strutturalista fu la famosa ipotesi Prebisch Singer sul commercio internazionale, che rovesciava su basi empiriche i termini del modello convenzionale ascrivibile a Smith e Ricardo (oggi noto come Heckscher Ohlin) asserendo che i paesi ricchi “sottosviluppano” quelli poveri e che ci vuole una industrializzazione autoctona che sostituisca le importazioni. Seguì la cosiddetta “dependency theory”, anch’essa popolata da vari sedicenti marxisti e moderati di sinistra, il cui triste esito è dimostrato da uno dei suoi più fini rappresentanti, quel Cardoso recente presidente neoliberista del Brasile. Un altro fallimentare tentativo di criticare la teoria dominante dall’interno venne nel 1960 con il sorprendente “Production of Commodities by Means of Commodities” di Sraffa. Tale lavoro propone l’ennesimo modello semplificato che prova, per l’ennesima volta senza applicabilità generale, che l’economia dominante non funziona, dicendo quello che tutti sanno ma che semplicemente non importa. Si dice che Sraffa sia stato un mai confesso marxista. Certamente il suo lavoro continua ad attirare schiere di economisti di sinistra o addirittura molti che pretendono di autodefinirsi marxisti, che con la lussuria dell’impotente si perdono nelle inutili difficoltà di trarne qualcosa di usabile. Garegnani ne è l’esempio più rigoroso18, con il suo passo di lumaca teorico. Un ulteriore contributo alla matematizzazione dell’economia viene da un matematico applicato, attivo in vari campi scientifici dagli anni ’30: Von Neumann. Il suo modello di equilibrio ha fatto scuola, riproponendo tra l’altro una sorta di surplus vagamente simile a quello di Marx. Ma la sua vera fama è legata a “Theory of Games and Economic Behaviour”, scritta con Morgenstern, del 1954. La teoria dei giochi ipotizza situazioni di obiettivi incompatibili tra i partecipanti al “gioco”. Si tratta di uno schema applicabile ad una gamma infinita di situazioni economiche piccole e grandi, la cui matematica è pienamente compatibile con quella dell’economia stessa. Malgrado l’infantilismo e l’intrinseca “moderazione” politica dei risultati raggiungibili, la teoria dei giochi ha inquinato l’economia19 in maniera ormai irrimediabile, specie, ma non solo, nelle branche più empiriche. Negli anni ’70 Milton Friedman, noto per un enorme libro di storia monetaria e per un articolo sul metodo empirico in cui affermava che l’importante era predire anche se i meccanismi con i quali si arrivava a tale predizione erano inspiegabili, lanciava il monetarismo. Tale teoria non è altro che la brutale applicazione della fisica elementare all’economia, come ai tempi dei Neoclassici ma in peggio. Si sosteneva l’importanza di guardare alla massa monetaria in virtù del fatto che la legge di Boyle (l’equazione di stato dei gas), se applicata al denaro, ci dimostra che governando la moneta si può crescere economicamente. Nella sua versione “supply-side” tale visione imperversò in USA con Reagan, in UK con Thatcher ed in Cile con Pinochet, provando che l’economia non è toccata dai propri fallimenti e non ha pregiudizi democratici. Il monetarismo non è affatto morto, infatti, ma è migrato nelle politiche imposte dall’IMF (o FMI) e dalla WB ai paesi del Terzo mondo, e dal Trattato di Maastricht a noi. La presenza del monetarismo ha in qualche modo significato la reazione più estrema al keynesismo ed alle sue politiche di intervento statale nell’economia. Ma si tratta appunto di dispute sulle politiche economiche. La breve esposizione delle varie posizioni ha evidenziato proprio la crescente unità delle idee economiche: la crescente dominanza di una sempre più vaga, compromessa e compromettibile teoria dominante. Vediamo ora le mode presenti.

5. Le mode attuali

In un clima di pura retorica e di dominanza monolitica di una teoria sempre più vuota, con gli economisti sempre più incapaci di leggere (volevo dire “sempre più concentrati sul loro ristretto campo”, scusate), non poteva non arrivare la moda della “metodologia”. In tale situazione, non si poteva evitare l’intrusione di non economisti che adocchiando la povertà della teoria economica e dei suoi praticanti contano di fare la figura dell’orbo in terra di ciechi. Riviste di metodologia ed addirittura di filosofia dell’economia vengono fondate. Tra i nomi più noti si devono ricordare Blaug, Caldwell, Maki, S.Dow, oltre ad una schiera infinita di profittatori vari. Vorrei salvare dalla dannazione però Tony Lawson, l’unico uomo del gruppo. Molto interessante in senso negativo è il tentativo, connesso al precedente, di portare i risultati del “realismo ontologico” di Roy Bhaskar in economia. Stiamo parlando di una sorta di dialettica che immagina la scienza come un tentativo di pelare la cipolla della conoscenza della natura strato a strato, con la filosofia che aiuta. Ma ciò che conta è l’aspetto dialettico, che la rende progressista, cioè estremamente conservatrice. Molti “marxisti ortodossi” possono essere trovati in questo gruppo, e guai a dimenticarli: dunque non farò un solo nome. Collegati al precedente, ed ad esso in parte sovrapposti, troviamo gli economisti neo-new- e non so più cosa-istituzionalisti (da non confondersi con i neo-istituzionalisti Neoclassici alla Williamson) che riprendono Veblen facendogli dire di tutto un pò. Tra le cose più importanti che si fanno dire al povero Veblen, che per quanto di spirito non credo tollererebbe tali scherzi, è che l’economia deve essere una scienza evoluzionista in senso lamarckiano20. Gli evoluzionisti e gli istituzionalisti si travasano da un gruppo all’altro, guidati da Hodgson, un economista che dopo un inizio marxista ha fatto carriera manipolando la sua posizione in tali gruppi e pubblicando libri non vuoti (magari!) ma pieni di sciocchezze. Anche qui “marxisti ortodossi” ed ex-marxisti abbondano, e sono aggressivi. Un ultimo sviluppo è legato alle teorie del caos, cioè al discontinuo matematico alla Thom. Disgraziatamente il discontinuo matematico è piegato da questa gente a servire l’economia, cioè a visioni pur sempre prive di rotture e scomparse. Significativamente, Barkley Rosser (2000) usa queste teorie per dare una versione matematizzante della dialettica Hegeliana. Avendo parlato di questa faccenda per Marx, nulla vi è da aggiungere qui. Abbondano anche, in questo clima di monolitismo intellettuale, le economie di settore: business economics, legal economics, sistemi economici (ex-studio dei paesi socialisti), economia del genere (leggi donne), economia ambientale, economia e psicologia, retorica dell’economia e così via. Anche qui, chiunque voglia avere i suoi cinque minuti di gloria non strettamente dominanti ma funzionali all’immediato ritorno nell’alveo ha una vastissima varietà di scelta. Vi è, infine, la nuova macroeconomia Classica, che ha il merito di occuparsi del ciclo ed anche in qualche modo di preoccuparsi dei poveri, ma la sua ora sta arrivando ed il travaso verso lidi ancor più dominanti è in corso. In questo quadro solo un folle ed un ignorante può predicare la totale apertura dei mercati, la de-regulation, la necessità del commercio internazionale per la crescita, le politiche di bilancio rigorose, il monetarismo. Eppure eccoli qua, tra di noi, i neoliberisti, tutti laureati in economia e ben inseriti nella professione, e non c’è nessuno che gli rida in faccia. Che siano ignoranti, per quanto detto finora, non vi è dubbio: ma sono folli? O sono solo l’inevitabile, indispensabile frutto dell’economia?

6. Marxismo

Il sovversivo scrittore svizzero Robert Walser notava nel 1916/1917: “Nel contemplare terra, aria e cielo fui preso da un pensiero conturbante e irreprimibile: ero costretto a dirmi che ero un povero prigioniero tra cielo e terra, che tutti qui siamo ugualmente dei poveri reclusi e che per tutti non vi è alcuna via verso un altro mondo, se non quell’unica che ci conduce nella fossa buia, nel grembo della terra, giù nella tomba” (1987, p.98). Questa è l’essenza del materialismo, ed uno sarebbe condotto a pensare che i marxisti, proprio per questa ragione, debbano ridere delle sciocchezze finora descritte su mercato, Stato, scambi e via dicendo. Invece il così chiamato socialismo reale ha armato la mano degli odierni nazionalisti, ha creato le strutture statali ed economiche per il presente neoliberismo, ha pervicacemente represso le tendenze comuniste ed anarchiche. Ha inoltre fomentato la situazione internazionale di oggi, che è anche quella del secolo XX, fatta di una successione di guerre, commercio, sfruttamento, aiuti. La Cina, che ha meglio interpretato questa natura del socialismo reale, si trova oggi ad essere una potenza economica priva delle vischiosità causate dalla democrazia. Avevamo accennato, parlando di Marx, che la deviazione dialettica ha trasformato il marxismo da forza rivoluzionaria ad “avvocato del diavolo” del capitalismo senza porsi sul terreno della critica dell’economia politica per il superamento del modo di produzione capitalista (in questo senso in tutto l’articolo si usa il termine “marxisti ortodossi”). Pur se i problemi relativi al valore lavoro permangono irrisolti, la letteratura marxista è in grado di mostrare il volto maligno del capitalismo. Questa rivista ne è la prova. Ma che cosa è la rivoluzione? Nessuno sembra saperlo. Non parlerò qui dei tentativi anti-Hegeliani, perché personalmente coinvolto. Mi limiterò a citare il nome di Colletti, anti-Hegeliano finché fu estremista di sinistra, e di Rosenthal (1998). Bisognerà invece menzionare alcune parti della tradizione dialettico-idealistica. Il primo nome che viene in mente è quello di Gramsci, un prodotto tipico dell’idealismo di sinistra e di Labriola. Di Gramsci l’economia marxista (e non) ha preso il cosiddetto concetto di “egemonia”, cioè di provvisoria dominanza di una classe o frazione di classe. Nel farlo però gli economisti lo hanno in genere svuotato del suo già banale ed inutile contenuto: si prenda l’esempio più noto internazionalmente, la “scuola francese della regolazione” di Aglietta, Lipietz e De Brunhoff. L’economia politica marxista si trova concentrata nei due ancor giovani manuali di Paul Sweezy, autore con Baran di noti studi sul complesso militare-industriale americano, e del trotzkista Mandel, autore fondamentale quando si studi il cosiddetto “capitalismo avanzato”. Vi sono poi coloro che “flirtano” con l’economia dominante: il “rational choice marxism” di Roemer, Cohen, Elster ed in parte di Robert Brenner. Siamo in presenza in questo caso di un patetico tentativo di applicare la teoria dei giochi e la microeconomia Neoclassica ad una teoria dello sfruttamento. I marxisti keynesiani (in Italia questo vuol dire quasi tutti gli economisti marxisti) riescono addirittura a farsi considerare una posizione estrema: il quotidiano Il Manifesto ne è monopolizzato. È ovvio che la confusione intervento statale-progressismo può accadere solo ad una mente che ha ben forti tutte le categorie borghesi dell’economia dominante. Come concludere questa sezione? Solo ribadendo che, visto quanto detto finora, la convergenza tra sedicenti marxisti, o “marxisti ortodossi” e dominanti c’è ed è ovvia. Si instilla così, è innegabile, un poco di giustizia nel sistema, ma chi ha bisogno dei marxisti quando abbiamo i keynesiani, così meglio piazzati e rispettabili?

7. Conclusioni

Viviamo in tempi neoliberisti, e ce lo meritiamo. Infatti, l’economia si è evoluta, come abbiamo visto, sfrondando mano a mano il proprio apparato metodologico e riducendolo ad una tecnica che può prescindere dalle proprie origini. Il risultato è che l’economia, così impoverita, si è ridotta in mille rivoli teorici per necessità: la povertà generale richiede di ideare metodi piccoli e parziali per affrontare questo o quel problema particolare. Purtroppo l’intero, come osserva Lawson, non è solo teoricamente insensato ma lontanissimo ed addirittura separato dalla realtà. Eppure l’economia funziona in pratica, sia combinando disastri sia evitandoli. Gli economisti sono tra gli uomini più influenti dei nostri tempi. Questo è il problema più grave e preoccupante21, di cui tutti dovremmo occuparci. L’economia non è che un prodotto di questo mondo, e per cambiare dovremmo uscirne fuori. Forse dovremmo domandarci anche un quasi-leniniano “cui prodest?”. Agli economisti sicuramente. Ai paesi ricchi sicuramente. Alle classi ricche sicuramente. Alla conservazione del sistema a livello nazionale ed internazionale sicuramente. Non giova però ai poveri, ai paesi sottosviluppati, ed a chi non fa parte del gruppo. Le varie divisioni interne, la presunta varietà delle idee economiche, non sono altro che un modo di assegnare le posizioni. Chi fa parte di una scuola riconosciuta, per quanto piccola, sa di poter ottenere una posizione. Come nella teoria dei giochi, cambiare idea e cooperare può essere la soluzione del sistema. L’economia, spero si sia notato dalla descrizione fin qui fatta, ha ampio spazio, addirittura è strutturata per consentire il cambio di idee. Il problema però, il “catch 22”, è che cambiare idea è segno di intelligenza e di quell’umiltà che ognuno di noi dovrebbe mostrare. Cambiare idea entro un quadro unitario, povero ed elementare è invece ipocrisia. Viva dunque l’economia, che ci ricorda la triste omogeneità del capitalismo avanzato!

Bibliografia Barkley Rosser, J. (2000), “Aspects of Dialectics and Non-Linear Dynamics”, Cambrige Journal of Economics, 24, 311-324. Begg, D., Fischer, S., Dornbusch, R. (2003), Economics, 7th ed., McGraw Hill, London. Galsworthy, J. (1953), The White Monkey, Foreign Language Publishing House, Moscow. Heller, J. (1961), Catch 22, Dell Publishing, NewYork. Lawson, T. (2003), Re-orienting Economics, Routledge, London. Lawson, T. (1997), Economics and Reality, Routledge, London. Leopardi, G. (1993), Operette Morali, Feltrinelli, Milano. Micocci, A. (in preparazione), Individuality. Micocci, A. (2004), “Vantaggi Comparati”, Il Ponte, no.7-8. Micocci, A. (2002), Anti-Hegelian Reading of Economic Theory, Mellen Press, New York. McCann, C.R. (2004), Individualism and the Social Order, Routledge, New York. Rosenthal, J. (1998), The Myth of Dialectics, MacMillan, London. Walser, R. (1987), La Passeggiata, Adelphi, Milano.

Note

* Professore Università di Malta-Link Camps.

1 Le mode, così come eventi politici quali la caduta dei regimi socialisti, provocano piccole variazioni. In genere nuove materie vengono aggiunte.

2 Ma qui vale quello che diceva Belli: strillare giustizia è possibile, perché “gnisuno risponne”.

3 Gli economisti adorano raccontarsi barzellette su questo tema durante i banchetti che seguono i congressi. Un esempio di tali spiritosaggini dà sufficientemente l’idea: un “team” di economisti considera un problema, e conclude: “OK, questo funziona in pratica. Ma funzionerà in teoria?”

4 Questo avviene identicamente per le merci ed ancor più palesemente per le tecnologie: se i computer avessero mai funzionato, vi immaginereste quanti disoccupati in più avremmo oggi? Per una trattazione più approfondita ma non più seria si veda Micocci (2002) e (in preparazione).

5 Vi erano molti altri autori, tra i quali vanno notati Malthus, Steuart e J.B.Say, non-autore della famosa legge degli sbocchi a lui attribuita (l’offerta crea la propria domanda).

6 L’idea era di drenare le ricchezze altrui attraverso il commercio, concentrandole nel proprio paese. Nulla di diverso dalla pratica odierna.

7 Smith loda sì la divisione del lavoro, ma è ben conscio dei suoi effetti alienanti ed istupidenti.

8 In realtà la soluzione di questo problema è inutile come la teoria economica, visto che si pone in un quadro le cui coordinate sono inappropriate (vedi Micocci, 2004, ed in preparazione). Inoltre Smith sembra propendere in alcuni punti per una origine “naturale” della ricchezza, cosa che sposta il problema (vedi Micocci, 2004).

9 È doveroso menzionare anche Wicksell tra i fondatori della moderna economia.

10 Proprio in quegli anni Peano, Dedekind e Cantor scoprivano le regole rigorose dell’aritmetica, dando alla matematica nuove basi filosofiche. Di qui la necessità, per non mischiare sacro e profano, di chiamare la matematica dell’economia ingegneristico-matematica.

11 A questo proposito è educativo notare che i più recenti manuali di economia (per esempio Begg et al., 2003) non usano più le derivate nella loro spiegazione, almeno ad un primo livello. Eppure, senza la derivata il concetto perde il significato.

12 L’evoluzione di Pareto è sintomatica: finì sociologo e fascista.

13 Finendo invece per essere uno dei fondatori, con Frisch, dell’econometria.

14 Comunitarismo è una idea di filosofia politica che tenta di riconciliare aspetti liberali con aspetti appunto comunitari, di società “organica”. Per questa visione ogni individuo è fortemente determinato dalla propria cultura. Si tratta, a mio avviso, di una versione anglosassone di quello che noi latini chiamiamo fascismo.

15 Si dice che Churchill avesse ben chiaro che l’economia era piena di opinioni diverse. Pare che abbia detto: “Metti insieme due economisti, ed avrai due opinioni diverse. Però se uno di questi due è Lord Keynes, le opinioni saranno tre”.

16 Che in economia non vuol dire “pieno impiego”, ma gradi variabili di “quasi pieno impiego”.

17 La principale caratteristica dei neo-keynesiani è l’attenzione per la “competizione imperfetta” (il mercato non perfetto), nella quale gli agenti (famiglie ed aziende, per esempio) possono influenzare i prezzi in qualche modo, in un ambiente pur sempre Walrasiano.

18 Garegnani studiò con Sraffa a Cambridge. Sraffa fu lì chiamato da Keynes, e sembra abbia contribuito anche al lavoro di Wittgenstein, che è con Heidegger una delle due figure della filosofia del secolo XX la cui fama è inversamente proporzionale alla rilevanza filosofica.

19 Anche le scienze politiche e l’antropologia, che sembrano aver perso il senso del ridicolo negli ultimi trenta anni.

20 Teorie lamarckiane sono alla base di quella tradizione di pensiero europea che conta Spencer, Comte, e Sorel, e che ha dato idee al fascismo.

21 La mia soluzione è nel mio (2002) e (in preparazione).