La partecipazione della popolazione e dei lavoratori esposti ai rischi alla gestione della sicurezza industriale. Esercizio di un diritto o elemento centrale della prevenzione?

Gianni Marsili

1. Introduzione

 

I terremoti con il loro carico di distruzione e sofferenza, le inondazioni e le frane che ogni primavera o autunno colpiscono varie aree del paese, gli incidenti ferroviari che negli ultimi anni hanno scandito le nostre giornate, il rilascio accidentale di nubi di sostanze tossiche o infiammabili da installazioni industriali, gli incidenti sul lavoro che causano mediamente il decesso di circa tre persone al giorno, testimoniano sia l’appartenenza dell’Italia al novero dei paesi industrializzati in cui fervono una miriade di attività, che ovviamente implicano la presenza dei rischi loro propri, sia l’esistenza di ampie aree del paese soggette a rischi naturali (idrogeologici, sismici) con i quali è necessario convivere.

Sebbene numerose normative mirate alla gestione dei rischi inerenti le attività industriali e l’ambiente siano operanti in Italia, ogni evento incidentale innesca una ridda di polemiche, che il più delle volte riguardano esclusivamente la gestione dell’emergenza, senza giungere quasi mai al nocciolo del problema che non è certo quello di individuare le responsabilità, quanto quello di organizzarsi in modo che detti eventi non si ripetano e che comunque, in caso di un loro verificarsi, sia possibile contenere tutte le conseguenze evitabili. Analizzando seppur sommariamente alcuni degli eventi che hanno recentemente focalizzato l’attenzione delle cronache, emerge con chiarezza una mancanza di cultura del rischio dell’intera comunità nazionale, incluse ovviamente le strutture amministrative e gestionali che governano il paese. Quando infatti un treno si guasta e rimane fermo per lungo tempo nel buio di una galleria (circa 4 ore) risulta evidente che nessuna analisi preliminare del rischio è stata svolta dai servizi dell’azienda ferroviaria preposti alla sicurezza. Sarebbe infatti risultato estremamente semplice dai ratei di affidabilità del mezzo elettromeccanico e della rete, nonché dalla frequenza di tratti in galleria sul percorso, identificare la verosimiglianza di un simile evento, le sue possibili conseguenze e predisporre in anticipo gli opportuni mezzi di mitigazione, che nel caso specifico avrebbero peraltro richiesto investimenti modesti ed azioni facilmente praticabili. Questo evento mostra però anche qualcosa di diverso, e certamente più grave della semplice inefficienza dei servizi dell’azienda ferroviaria preposti alla sicurezza, se si analizzano i contenuti del dibattito che ad esso è seguito. Quest’ultimo non ha infatti mai evidenziato l’entità del rischio per la loro incolumità cui i viaggiatori sono stati esposti a causa di tale inefficienza, concentrando l’attenzione più sui danni diretti da essi subiti a causa della lunga sosta e dell’interruzione del servizio che sullo scenario incidentale nel quale essi potevano essere coinvolti. La discussione è stata infatti mirata a mostrare il più basso rateo di incidenti delle ferrovie italiane rispetto a quelle di altri paesi, a mettere in luce l’inadeguatezza della linea relativamente all’uso di convogli veloci, ecc. piuttosto che ad analizzare cosa sarebbe potuto accadere qualora l’uso indiscriminato di accendini o altri mezzi di fortuna cui i viaggiatori sono stati costretti per illuminare l’ambiente fosse sfociato in un incendio sul convoglio. Analogamente, a fronte dello stillicidio di incidenti ferroviari che si sono susseguiti negli ultimi anni, nessuna autorevole voce ha mai formalmente posto la questione di cosa sarebbe potuto accadere qualora in uno dei deragliamenti o degli impatti con strutture fisse o mobili fossero rimasti coinvolti vagoni che trasportano sostanze tossiche o infiammabili e presumibilmente nessuna iniziativa per gestire un’emergenza di questo genere lungo la rete è mai stata predisposta sulla base di questa riflessione. Ciò dimostra che il problema della gestione della sicurezza, almeno per quanto riguarda le ferrovie, non può essere limitato ad una semplice ristrutturazione di qualche servizio, ma implica un discorso culturale più ampio nel quale la prevenzione e la consapevolezza di tutti costituiscono il motore della prevenzione.

Naturalmente la problematica inerente il trasporto ferroviario non è l’unica che evidenzia la mancanza di una cultura della sicurezza nel nostro paese. Senza dilungarsi troppo si possono infatti ricollegare all’esempio precedente gli allarmi lanciati via fax alle due del mattino in uffici deserti, come accaduto nella tragica inondazione di Sarno, le reazioni tardive e l’incapacità di analisi del fenomeno durante il suo evolversi che si sono manifestate nell’inondazione delle aree prospicienti il Ticino, la scarsa considerazione o conoscenza del pericolo mostrata dai lavoratori che consumavano il loro pasto vicino al forno esploso nella raffineria di Milazzo, ecc.

In questo contesto appare quanto mai necessario ed attuale nel nostro paese proporre una riflessione sul problema della sicurezza, inerente sia i rischi tecnologici che naturali, la quale superi gli angusti seppur importanti limiti dell’individuazione e punizione dei responsabili e dell’efficacia ed efficienza dei servizi di pianificazione del territorio e dell’emergenza, per chiedersi se:

• gli eventi incidentali sono realmente casuali ed imprevedibili;

• la popolazione è cosciente dei problemi inerenti la sua sicurezza e della necessità che la sua protezione richiede un atteggiamento attivo;

• sono disponibili adeguate competenze tecnico-scientifiche per la previsione di detti eventi e se le risorse allocate per raggiungere tale obiettivo sono sufficienti;

• esiste in Italia un efficiente impianto normativo per gestire la sicurezza nelle specifiche aree;

• i funzionari dell’amministrazione pubblica, cui la gestione della sicurezza è demandata, sono culturalmente adeguati a tali compiti.

Per conferire una dimensione operativa ad una così ampia riflessione è opportuno riferire la stessa ad ambiti più specifici in cui l’evoluzione della normativa, più che altro dovuta all’adozione di direttive UE, apre ampi spazi ad un approccio preventivo e di gestione razionale dell’emergenza. Per tale motivo, questo articolo concentrerà la sua attenzione sui rischi tecnologici pur non dimenticando che, sul piano teorico, le tematiche trattate sono spesso analoghe a quelle poste dalla gestione dei rischi naturali. In particolare, questa breve trattazione ha l’obiettivo di richiamare l’attenzione su alcuni principi dell’analisi e gestione dei rischi allo scopo di proporre un primo momento di riflessione per tutte quelle organizzazioni politiche, sindacali e culturali che si pongono l’obiettivo di affiancare i lavoratori e le popolazioni esposte ai rischi per consentire che il concetto di partecipazione alla gestione non resti semplicemente un’apertura teorica della normativa ma assuma quel ruolo operativo che ne fa uno dei cardini fondamentali della prevenzione.

 

 

2. La gestione dei rischi tecnologici in Italia: aspetti normativi

 

Alla fine degli anni ’70, sulla base degli incidenti verificatisi a Flixborough (UK) ed a Seveso, si sviluppò in Europa un ampio dibattito sull’efficacia dell’approccio proposto dalle leggi allora vigenti di evitare l’accadimento di eventi accidentali capaci di provocare ingenti conseguenze sia sui lavoratori e sulle popolazioni che vivono intorno ad impianti industriali a rischio di incidente rilevante sia sull’ambiente e sulla proprietà. Tale dibattito, che coinvolse la comunità scientifica e le autorità dei paesi europei più industrializzati, trovò una sua sintesi operativa nel lavoro dell’Advisory Committee on Major Hazards, istituito dal Governo Inglese, il quale in tre successivi rapporti propose alcune conclusioni che possono essere così sintetizzate:

1) molti dei più gravi incidenti industriali accaduti nel passato potevano essere previsti e quindi evitati;

2) un approccio di tipo prescrittivo basato sulla definizione a priori di misure di sicurezza valide per tutte le installazioni industriali non è sufficiente per garantire un’efficace gestione della sicurezza, la quale richiede invece valutazioni specifiche inserite in un processo continuo;

3) l’analisi sistematica dei rischi presenti in un’attività industriale consente di predisporre strutture organizzative ed iniziative in grado di ridurre la probabilità di accadimento degli incidenti e di mitigarne le conseguenze.

Queste riflessioni, e l’ampio dibattito da esse indotto, hanno trovato una prima dimensione operativa nella normativa CEE con l’emanazione della Direttiva 501/82/CEE, meglio nota con il nome di Direttiva Seveso, che è stata recepita in Italia soltanto nel 1988 con il DPR 175/88 e sue successive integrazioni e modifiche. La Direttiva Seveso e conseguentemente il DPR 175/88, nel cui campo di applicazione ricadono solo alcuni impianti selezionati sulla base della pericolosità e della quantità delle sostanze chimiche da essi detenute, introdussero nel quadro normativo italiano una metodologia di gestione della sicurezza che, per come la materia era gestita sino a quel momento, contenevano una grossa carica innovativa. In sintesi esse stabiliscono che:

1) le normative preesistenti in materia di sicurezza costituiscono esclusivamente un minimum set cui ogni azienda deve attenersi. La nuova normativa pertanto le integra ma non le sostituisce;

2) il fabbricante:

• è tenuto a prendere tutte le misure atte a prevenire gli incidenti rilevanti ed a limitarne le conseguenze per l’uomo e l’ambiente;

• deve dimostrare ad ogni richiesta dell’autorità competente, in alcuni casi anche attraverso la presentazione di un rapporto di sicurezza, di aver provveduto all’individuazione dei rischi di incidente rilevante, all’adozione delle appropriate misure di sicurezza, all’addestramento ed all’equipaggiamento, ai fini di sicurezza, del dipendente e di coloro che accedono all’azienda per motivi di lavoro;

• non è sollevato dalle responsabilità derivanti dai principi generali dell’ordinamento, dall’adempimento degli obblighi previsti dalla normativa;

3) alle autorità spetta il compito

• di garantire un’efficace ed efficiente applicazione della norma;

• di gestire il rischio sul territorio attraverso la pianificazione territoriale e l’informazione della popolazione;

• di predisporre, se del caso, un piano di emergenza esterna finalizzato a evitare o mitigare le conseguenze di un eventuale incidente.

Emerge da ciò la filosofia dell’intera normativa di controllo dei rischi di incidente rilevante che può essere sintetizzata nei seguenti principi:

a) qualora in un’attività industriale esista una sorgente di pericolo il rischio di incidente può essere ridotto ma non eliminato;

b) il rischio residuo non può essere controllato mediante un approccio autorizzativo (semplice rispetto di standard predefiniti) ma richiede una procedura dinamica di conoscenza dei processi e di adozione di adeguate misure di sicurezza, capace di stare al passo con il progresso tecnologico e con l’acquisizione di nuove conoscenze;

c) il fabbricante è l’unico soggetto che, attraverso un’adeguata organizzazione, può pervenire ad una conoscenza approfondita delle problematiche inerenti la sicurezza del suo impianto ed alla conseguente identificazione ed adozione delle più idonee misure di sicurezza;

d) i lavoratori e gli altri cittadini esposti al rischio hanno il diritto di essere informati sui rischi cui sono esposti e sui comportamenti da adottare per evitare o mitigare le conseguenze di un evento incidentale nel quale potrebbero essere coinvolti;

e) le autorità pubbliche hanno il dovere, attraverso valutazioni, ispezioni, ecc., di garantire l’efficace applicazione di questa procedura e di predisporre, attraverso la pianificazione territoriale e dell’emergenza esterna, adeguati strumenti di protezione della popolazione che vive intorno agli impianti.

Principi di base analoghi a quelli proposti dalla normativa inerente i rischi di incidenti rilevanti sono adottati dalla normativa di attuazione delle Direttive Europee riguardanti la sicurezza e la protezione della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro (D.Lgs. 626/94). Anche in questo caso, infatti, la valutazione dei rischi per la salute e la loro eliminazione o riduzione attraverso una programmazione della prevenzione che integri coerentemente produzione, sicurezza e protezione della salute, nonchè l’informazione, la formazione e la partecipazione dei lavoratori all’attività inerente la loro gestione risultano ampiamente evidenziate tra le misure di tutela stabilite dalla normativa.-----

Sfortunatamente però le analogie tra le due normative non si limitano soltanto alla filosofia di approccio alla prevenzione ma si estendono anche alla mancanza di efficacia che ha sinora caratterizzato la loro applicazione. Il continuo rinvio delle scadenze previste dal D.Lgs. 626/94 e i tentativi di una modifica, che non si è mai compiutamente realizzata, del DPR 175/88, 16 decreti legge reiterati dal gennaio ’94 al settembre ’96 poi decaduti e l’emanazione della legge 137/97, testimoniano della difficoltà di applicazione di queste norme e delle opposizioni che l’adozione dell’approccio da esse proposto suscita nel paese. Nonostante ciò, non c’è ombra di dubbio che questa sarà la strada sulla quale l’Italia dovrà incamminarsi sotto la spinta delle disposizioni comunitarie. Una autorevole conferma dell’ineluttabilità di questo percorso può infatti essere rintracciata nella Direttiva 96/82/CE inerente i rischi connessi con determinate sostanze pericolose, che sostituisce la normativa EU esistente e dovrebbe essere recepita dai paesi membri entro il febbraio 1999 (6). Quest’ultima, infatti, non solo ribadisce l’importanza dell’analisi del rischio, dell’informazione, formazione e partecipazione ai processi decisionali dei lavoratori e della popolazione ad esso esposta, delle pianificazione territoriale e dell’emergenza, ecc., ma introduce ulteriori elementi di controllo, più intimamente connessi alle modalità di gestione dell’intera azienda, quale la redazione di un documento che definisca a priori la politica di prevenzione degli incidenti rilevanti ed il conseguente sistema di gestione della sicurezza che l’azienda intende adottare. Queste innovazioni sono suggerite dall’analisi degli incidenti rilevanti accaduti nei paesi EU, a partire dall’emanazione della Direttiva di controllo dei rischi di incidenti rilevanti, la quale ha evidenziato che circa 3/4 di questi eventi sono attribuibili a carenze gestionali e/o organizzative costituite dalla mancanza di procedure operative, da errori nella fase progettuale, da scarsa attenzione del management dell’azienda per la sicurezza, da un’insufficiente preparazione degli operatori.

 

 

3. Il concetto di rischio: dalla definizione teorica alla stima quantitativa

 

I concetti di partecipazione e previsione enfatizzati nella normativa ripropongono con forza il tema dell’adeguatezza nel gestire efficientemente ed efficacemente la sicurezza da parte di chi esercisce attività che comportano dei rischi e di chi a questi rischi è esposto. E’ bene quindi richiamare alcuni aspetti teorici connessi con il concetto di rischio al fine di individuare le linee guida generali per la progettazione di una politica di sicurezza.

Come noto, il termine rischio è utilizzato con sempre maggior frequenza in molti settori dell’attività umana al fine di prendere decisioni basate sui possibili effetti che possono originare dall’adozione di una qualsiasi iniziativa. Oltre che nel campo della sicurezza, di rischio si parla infatti in campo assicurativo e finanziario, nei settori della protezione della salute quale quelli epidemiologico, tossicologico o più strettamente medico-chirurgico, in campo ingegneristico nella progettazione di automobili, aeromobili, vettori spaziali, ponti, dighe, ecc. ed in tutti gli altri settori in cui è necessario utilizzare tutte le conoscenze disponibili per comparare costi ed efficacia di iniziative che si stanno progettando o che si intende attuare.

Naturalmente, le tecniche di stima utilizzate in ognuno di questi settori differiscono sensibilmente in funzione della specificità dell’argomento trattato, anche se, un denominatore comune può essere ritrovato nel significato stesso di rischio facendo riferimento però al termine inglese risk invece che al vocabolo italiano. A tale concetto è bene riferirsi per individuare le modalità con le quali il rischio può essere quantificato ed interpretato.

L’Oxford dictionary, ad esempio, alla voce risk recita testualmente the possibility to meet danger or suffering adverse effects, exposure to it. Questa definizione, che non coincide esattamente con il significato del vocabolo italiano rischio nel quale il termine risk è usualmente tradotto, contiene due elementi fondamentali: la possibilità e gli effetti avversi. Ne consegue che il concetto di rischio sia correttamente applicabile esclusivamente a quelle azioni in cui esiste la possibilità che possano originare degli effetti avversi. E’ quindi fondamentale, alla luce della precedente definizione, distinguere tra i concetti di pericolo e di rischio che risultano sostanzialmente diversi in quanto, il primo contiene la certezza di subire gli effetti avversi mentre il secondo ne implica soltanto la possibilità. In termini esemplificativi, sarebbe pertanto improprio parlare di esposizione ad una sorgente di rischio per un individuo che decidesse di lanciarsi nel vuoto dalla sommità di una rupe. Tale azione provocherebbe infatti con certezza degli effetti avversi per l’individuo e verrebbe quindi meno la condizione di possibilità implicita nella definizione di rischio. Al contrario, qualora la stessa azione fosse condotta avvalendosi di un paracadute, un deltaplano o un altro dispositivo che consenta di esporsi alla sorgente di pericolo senza subire le conseguenze che le sono proprie appare corretto parlare di rischio. In questo caso infatti le conseguenze connesse al salto nel vuoto possono essere evitate, anche se persiste una residua possibilità che, a causa di un malfunzionamento del dispositivo utilizzato, esse possano essere subite dall’individuo che effettua il lancio. Generalizzando, si può quindi concludere che è corretto parlare di rischio ogniqualvolta si è esposti ad una sorgente di pericolo avvalendosi di un dispositivo di protezione. Ne consegue, per quanto riguarda settori quali la sicurezza industriale e del lavoro, che il rischio:

a) non possa mai essere annullato finchè esiste una sorgente di pericolo. Infatti qualsiasi dispositivo di protezione o di sicurezza non potrà mai garantire la sua incolumità da un eventuale malfunzionamento;

b) costituisca una variabile di tipo decisionale mediante la quale è possibile identificare le condizioni in cui è più o meno verosimile che le conseguenze connesse con un evento incidentale possano verificarsi.

Naturalmente per rendere il rischio immediatamente utilizzabile in un processo decisionale non è sufficiente una valutazione di tipo qualitativo ma è necessario procedere ad una sua quantificazione. Da questo punto di vista, la definizione riportata si presta ad una immediata formalizzazione quantitativa la quale, identificate la sorgente di pericolo ed il dispositivo di sicurezza utilizzato, esprima sia la probabilità di verificarsi dell’evento avverso sia l’entità della conseguenze che da esso possono originare. In altre parole il rischio R (p, m) non è altro che un punto sul piano cartesiano della probabilità p che l’evento incidentale possa accadere e dell’entità m delle conseguenze per esso attese. Questa bidimensionalità della variabile, che preclude la possibilità di rappresentarla come uno scalare (numero), è di primaria importanza per quanto riguarda la sicurezza. In particolare, essa rende possibile conservare la separazione tra due componenti che sono logicamente ed eticamente diverse. La componente probabilistica misura infatti la verosimiglianza che l’evento possa accadere, ed è quindi intrinsecamente connessa con il dispositivo di protezione, mentre l’entità delle conseguenze, sulla cui misura si tornerà più in dettaglio nel seguito, è una proprietà della sorgente di pericolo ed è quindi in molti casi assolutamente indipendente dal dispositivo di protezione utilizzato. Tornando all’esempio del lancio da una rupe con un dispositivo quale paracadute o deltaplano, si può agevolmente osservare che l’entità delle conseguenze dipende dall’altezza da cui si precipita, dalle caratteristiche dell’ambiente in cui avviene la caduta, ecc. mentre la probabilità di subire tali effetti avversi dipende dall’affidabilità dei dispositivi di protezione utilizzati. In altre parole i rischi di spiccare il volo da uno stesso punto con un paracadute o con un deltaplano variano esclusivamente per la loro componente probabilistica, la quale rappresenta pertanto una misura del livello di sicurezza dello specifico dispositivo. Nell’ambito della sicurezza industriale o del lavoro questa rappresentazione consente quindi di valutare un’iniziativa, un’azione, una mansione, un impianto, ecc. sia in funzione dell’entità delle conseguenze che da essi possono intrinsecamente originare, sia in funzione dell’adeguatezza del/i dispositivo/i di sicurezza adottato/i.

Dal concetto di rischio discende ovviamente la definizione di analisi di rischio, la quale in termini logici si riduce semplicemente al rispondere ai seguenti quesiti:

1) che cosa può accadere ?

2) quanto è verosimile che ciò che è stato identificato accada ?

3) se accade, qual è l’entità delle conseguenze ?

L’uso operativo di tale approccio propone però alcune difficoltà intrinseche di non facile soluzione. Molto spesso, infatti, un evento incidentale quale può essere il rilascio di una sostanza pericolosa in un ambiente di lavoro, l’uso di una macchina, ecc. può originare scenari che, variando in funzione di fattori casuali, possono evolvere in eventi caratterizzati da una diversa entità delle conseguenze. Se si pensa ad esempio al rilascio di vapori infiammabili in un impianto, è facile arguire come la nube da essi formata possa:

• in funzione delle correnti d’aria presenti in quel momento ed in quel luogo, dirigersi verso un’area in cui siano o no presenti dei lavoratori;

• in funzione della tipologia delle attività che ivi si svolgono, incontrare o non incontrare una sorgente d’innesco;

• in funzione del grado di confinamento, anche parziale, e della probabilità di essere innescata, evolvere in un incendio o in una deflagrazione;

• ecc.

Pur considerando lo stesso evento, ad ognuna di queste evoluzioni corrisponde una diversa entità delle conseguenze che deve essere considerata nel valutare il rischio. Ne consegue che la rappresentazione puntuale suggerita in precedenza risulti inadeguata alla complessità della realtà che il rischio vuole rappresentare e sia pertanto necessario ricorrere ad una formulazione molto più complessa che esprima il rischio come una serie di ennuple Si , pi , mi , in cui S, p ed m rappresentano rispettivamente lo scenario incidentale, la sua probabilità di verificarsi e l’entità delle conseguenze per esso attese. In termini formali il rischio R di un’azione può quindi essere definito con R = < Si , pi , mi > per i = 1, n dove n è il numero dei possibili scenari incidentali che l’analista riesce ad identificare per l’evento considerato. Le risposte ai quesiti posti nell’analisi di rischio, organizzate in forma tabulare, costituiscono ovviamente la serie di ennuple cui si è fatto riferimento nella definizione quantitativa di rischio (fig. 1).

Una siffatta rappresentazione fornisce una visione del rischio molto articolata e completa ma mal si presta alle valutazioni e comparazioni necessarie al processo decisionale in quanto non fornisce una valutazione univoca. Per ovviare al problema si può ricorrere ad una trasformazione finalizzata ad esprimere il rischio in funzione dell’entità delle conseguenze. Operativamente ciò può essere realizzato ordinando gli scenari identificati secondo una scala crescente dell’entità delle conseguenze e cumulando le probabilità di ognuno di essi con quelle di tutti gli scenari per cui sono previste conseguenze peggiori. In termini formali:

dove:

Pi = probabilità cumulativa dello scenario i-esimo;

pj = probabilità dello scenario j-esimo;

n = numero degli scenari individuati. -----

Ne consegue una rappresentazione tabulare del rischio (fig. 2) nella quale la probabilità cumulativa rappresenta il grado di fiducia che si ripone nel verificarsi di un generico scenario per cui siano attese conseguenze di entità uguale o maggiore di quelle per esso riportate.

In tale rappresentazione, P1 ed mn rappresentano rispettivamente la probabilità che nella situazione analizzata si verifichi un generico evento incidentale che abbia quel tipo di conseguenze e la massima entità delle conseguenze possibili.

Tale trasformazione si presta ad una agevole rappresentazione grafica sul piano cartesiano nella quale il rischio è rappresentato dalla spezzata tratteggiata che si ottiene riportando l’entità delle conseguenze e la probabilità cumulativa di ogni singolo scenario (fig. 3.). E’ agevole comprendere che la spezzata è dovuta alle necessità connesse con il calcolo e che una rappresentazione più realistica del rischio è costituita dalla curva (variabile continua) sovraimposta ad essa. Analogamente alla forma tabulare, i punti R (m, P) di detta curva rappresentano il grado di fiducia che si ripone nella capacità dell’iniziativa, dell’opzione o della mansione considerata di originare eventi le cui conseguenze siano uguali o maggiori di m.

Sebbene l’approccio descritto consenta di quantificare ed esprimere in modo non ambiguo il concetto di rischio, alcune riflessioni mirate a razionalizzare l’uso di questa variabile nei processi decisionali appaiono necessarie. Un primo elemento di riflessione deve considerare che il rischio è costituito da una lista di scenari la quale, soprattutto quando esso è riferito a fenomeni naturali o ad impianti a tecnologia complessa, può essere considerata praticamente infinita. Al contrario, il numero di scenari individuati in una analisi del rischio è necessariamente finito e ciò costituisce sia un’approssimazione degli effetti, sia un problema più generale d’interpretazione della variabile. Ne consegue una dipendenza dei risultati dell’analisi di rischio dalle scelte effettuate dall’analista e dalla conoscenza del fenomeno che egli possiede al momento in cui effettua l’analisi, le quali conferiscono al rischio stimato sia una validità temporale e soggettiva, sia un’ampia variabilità.

Questo aspetto non può certamente meravigliare sul piano logico se si considera che l’analisi del rischio è un metodo attraverso cui si cerca di predire il futuro, basandosi sulla conoscenza posseduta nel presente. Nella pratica esso implica però che l’analisi del rischio debba essere considerata non come uno strumento di valutazione una tantum ma come elemento di un processo continuo di gestione della sicurezza che si sviluppa in parallelo al processo di acquisizione della conoscenza.

Come noto, la probabilità attribuita ad ognuno degli scenari identificati è lo strumento utilizzato per esprimere, su una scala quantitativa convenzionale variabile tra 0 (eventi impossibili) ed 1 (eventi certi), l’incertezza relativa al verificarsi di un evento. Essa assume pertanto un ruolo fondamentale nei processi decisionali inerenti la gestione della sicurezza e merita una piccola riflessione.

Sul piano teorico la probabilità può essere univocamente definita come un concetto intuitivo che riguarda tutti gli eventi casuali, o da noi ritenuti tali, che sono né certi né impossibili. Sul piano interpretativo possono invece essere individuate due diverse concezioni della variabile che si differenziano sostanzialmente per l’oggettività o la soggettività ad essa attribuita. In altre parole, ritenere che la probabilità sia una variabile oggettiva implica pensare che essa costituisca una proprietà intrinseca dell’evento cui si riferisce e che possieda di conseguenza un valore vero stimabile con un grado di approssimazione più o meno alto. Al contrario, pensare che la probabilità sia una variabile soggettiva significa ritenere che essa sia uno strumento astratto attraverso il quale un osservatore esprime il suo grado di fiducia nel verificarsi dell’evento. Ciò implica una sua dipendenza dall’osservatore e dal momento in cui essa viene valutata ed include conseguentemente la possibilità che stime effettuate da diversi osservatori, o dallo stesso osservatore in tempi diversi, pervengano a risultati diversi.

Naturalmente, le implicazioni nell’uso operativo dell’analisi del rischio possono essere notevoli se si assume il punto di vista soggettivista o oggettivista. Nel primo caso, infatti, il rischio deve anch’esso ritenersi come una variabile soggettiva ed i processi di partecipazione della popolazione e/o dei lavoratori alla gestione della sicurezza implicano conseguentemente un loro reale ruolo nella sua quantificazione. Nel secondo caso, al contrario, il rischio è considerato come una variabile oggettiva la cui stima è affidata ad esperti, ed il ruolo della popolazione e/o dei lavoratori assume semplicemente la forma passiva dell’acquisizione di informazioni e di disposizioni relative alla gestione della sicurezza. Non è certo questa la sede per entrare in ulteriori dettagli del dibattito tra le scuole di pensiero che sostengono le due diverse concezioni di probabilità; è però necessario qui sottolineare che nei settori della sicurezza industriale e del lavoro ci si confronta frequentemente con eventi rari e specifici che non rispondono ai requisiti di equiprobabilità degli esiti, indipendenza ed uguaglianza degli esperimenti, rispettivamente implicati dalle definizioni classica e frequentista di probabilità sulle quali si basa la concezione oggettivistica. In altre parole, assumendo una concezione di tipo oggettivista la probabilità non sarebbe stimabile per molti degli eventi implicati nell’analisi di sicurezza e conseguentemente perderebbe significato in questo ambito lo stesso concetto di rischio.

Un terzo elemento di riflessione riguarda la stima delle conseguenze, e più specificatamente la loro quantificazione, cui è stato sin qui fatto riferimento senza mai esplorarne la dimensione operativa. Nel settore della sicurezza industriale si verificano spesso eventi che possono produrre effetti avversi multipli sia alle persone che alle cose ed all’ambiente. Si pensi ad esempio all’esplosione di un’apparecchiatura, o di una nube di vapori infiammabili rilasciati accidentalmente, la quale può provocare il decesso e/o ingiurie reversibili o irreversibili alle persone, ma anche ingenti danni alle strutture ed alle cose. Quantificare questi effetti su una stessa scala significherebbe stabilire un’unità di misura comune con i conseguenti problemi etici che ciò comporta. Il modo più semplice per farlo, cui qualche volta si ricorre per scopi assicurativi, è quello di attribuire un valore pecuniario ad ognuno dei possibili effetti avversi. Questo può però essere accettabile in un’ottica di rimborso dei danni per eventi accaduti, non certo in termini di gestione della sicurezza e quindi di progettazione ed adozione di misure preventive.

Sul piano teorico detta difficoltà può essere superata rappresentando il rischio non come una curva sul piano cartesiano ma come una superficie nello spazio euclideo la cui dimensionalità è pari al numero di unità di misura necessarie per quantificare gli effetti avversi. La scelta risolverebbe il problema sul piano del calcolo ma creerebbe numerose difficoltà al processo decisionale e non può quindi essere considerata una valida soluzione per la gestione della sicurezza industriale. L’alternativa è conseguentemente posta sulla scomposizione della variabile, che può essere realizzata considerando diversi rischi specifici per ognuna delle tipologie degli effetti avversi possibili, e che nella pratica operativa trova una drastica semplificazione riducendo il rischio a semplice misura della probabilità di decesso. Tale semplificazione limita il campo di applicazione dell’analisi di rischio agli eventi con conseguenze più gravi ed è contemporaneamente sorgente di contraddizioni tra le valutazioni fatte dagli esperti e dagli esposti al rischio.Ragioni culturali ed etiche portano infatti gli individui a ritenere che non sempre il decesso costituisca l’effetto avverso peggiore attribuibile ad un evento.

I metodi di quantificazione del rischio, le approssimazioni utilizzate e le riflessioni sin qui discusse pongono almeno un quesito, relativo al grado di fiducia che si può riporre nell’analisi del rischio come strumento di previsione, che può essere così sintetizzato: può l’analisi di rischio essere considerata una tecnica coerente con il metodo scientifico ? La risposta è alquanto articolata, poiché, da un lato essa si avvale di tecniche, quali metodi di calcolo, modelli di simulazione, ecc. sviluppate e valutate in ambito scientifico, i cui risultati sono conseguentemente riproducibili. Dall’altro lato però, essa appare in antitesi con il metodo scientifico poiché, anziché ricorrere alla disaggregazione dei problemi in quesiti sempre più specifici cui dare una risposta definitiva, l’analisi di rischio di eventi complessi deve procedere ad una aggregazione di problematiche afferenti a diverse discipline ed offrire una risposta anche in mancanza di una completa e specifica conoscenza di tutti i fenomeni coinvolti nella valutazione. Ne consegue che essa debba essere vista come una potente e razionale tecnica capace di integrare, mediante metodologie logiche di rappresentazione della conoscenza disponibile, le competenze afferenti a diverse discipline. In questo senso essa è semplicemente uno strumento previsionale, cui è affidato il compito di razionalizzare il processo decisionale. Sul piano operativo, guardare all’analisi di rischio come parte del processo decisionale, invece che come tecnica oggettiva, implica che tutti i soggetti in esso coinvolti dovrebbero partecipare alla valutazione e non limitarsi ad assumerne i risultati quali elementi certi su cui basare le loro scelte.

 

 

4. La valutazione soggettiva del rischio

 

 

La capacità di evitare i pericoli presenti nell’ambiente di vita, memorizzando l’esperienza passata ed imparando da essa, è una abilità intuitiva di cui sono dotati tutti gli esseri viventi. In questo senso l’analisi descritta in precedenza non è altro che la formalizzazione con la quale gli esperti tentano di oggettivizzare questa abilità per fornirgli una valenza sociale al posto di quella individuale che gli e propria. I conflitti sull’accettabilità dei rischi tecnologici che si sono verificati in tutti i paesi industrializzati negli ultimi trenta anni, si pensi ad esempio al siting di discariche, inceneritori, centrali elettriche nucleari e non ed altri impianti inquinanti o a rischio, mostra però che in questo campo quasi mai le valutazioni cosiddette oggettive, realizzate dagli esperti, e quelle intuitive che informano le azioni degli individui coincidono e ciò si riflette ovviamente sui comportamenti che ognuno adotta nelle situazioni di rischio. Ne consegue che, essendo l’analisi del rischio uno strumento del processo decisionale, le valutazioni individuali, strettamente correlate al rischio percepito, non possono essere trascurate particolarmente nei casi in cui è prevista la partecipazione e l’informazione della popolazione.

L’importanza dell’argomento per la gestione dei conflitti sociali relativi ai rischi tecnologici e l’entità di questi ultimi, relativamente allo sviluppo della produzione nucleare di energia elettrica, hanno posto questa problematica all’attenzione di sociologici, antropologi e psicologi e molti studi sono stati condotti, a partire dagli anni ’70, con il fine di comprendere quali fossero gli elementi che influenzano la percezione dei rischi degli individui. I risultati di tali ricerche hanno via via dimostrato che la percezione del rischio ha le sue radici nell’ambiente sociale e culturale in cui opera l’individuo ed è mediata dall’influenza del gruppo sociale di appartenenza il quale porta di per sé a sottovalutare alcuni rischi e ad enfatizzarne altri. La disciplina che ha raggiunto migliori risultati nello studio della percezione del rischio è stata la psicologia la quale, avvalendosi di un approccio noto come Paradigma psicometrico, è riuscita a produrre mappe cognitive dell’attitudine al rischio e della percezione, dimostrando che dette variabili possono essere predette e quantificate. Dette ricerche hanno tra l’altro consentito di identificare una serie di variabili che drasticamente influenzano la percezione le quali, mediante tecniche di analisi multivariata e delle componenti principali, sono state condensate nel dominio di due variabili, sinteticamente chiamate rischi temuti e rischi sconosciuti, all’aumentare delle quali l’individuo tende ad enfatizzare la sua percezione.

Naturalmente, anche al concetto di timore e non conoscenza che tali variabili sottendono non deve essere attribuito un valore oggettivo ma quello di una percezione che l’individuo ha di se stesso. In particolare è emerso che:

• i fattori di rischio sono temuti quando si ritiene che essi siano incontrollabili, catastrofici, con conseguenze fatali, iniqui, non facilmente riducibili, involontari e in aumento al momento della rilevazione;

• i rischi sono percepiti come sconosciuti quando non sono osservabili (ad esempio le radiazioni), non sono noti agli esposti, hanno effetti ritardati nel tempo (ad esempio i cancerogeni) sono nuovi e poco conosciuti dalla stessa scienza, ecc.

A titolo d’esempio, alcuni fattori di rischio per i quali esiste generalmente una forte enfatizzazione possono essere individuati negli incidenti di reattori nucleari, nei depositi di rifiuti radioattivi, nelle bio-tecnologie, nei campi elettrici, nella dispersione ambientale di vari contaminanti tossici, ivi inclusi i pesticidi, ecc. Tra i fattori i cui rischi non sono temuti e che si ritiene di conoscere, possono essere invece citati il fumo di tabacco ed il consumo di bevande alcoliche, gli impianti elettrici e gli elettrodomestici, le biciclette, le motociclette e altri macchinari in movimento usati nel campo lavorativo e/o domestico e del relax, ecc. Tra i fattori di rischio che si collocano in una posizione intermedia, possono essere ricordati:

• lo stoccaggio ed il trasporto di Gas naturale liquefatto, l’inquinamento da autoveicoli, gli incidenti d’auto e ferroviari, l’uso di pistole ed esplosivi, ecc., i quali risultano temuti ma che si percepisce di conoscere e controllare;

• i farmaci (quali ad esempio i contraccettivi, gli antibiotici, i sedativi, i vaccini, ecc.), le altre tecniche diagnostiche, quali i raggi X, o di igiene ambientale, quali la clorazione e fluorazione delle acque potabili, i quali non sono temuti ma risultano poco conosciuti.-----

Qualora applicate al campo della sicurezza industriale e del lavoro, oggetto di questo articolo, le conoscenze emerse dalla ricerca psicometrica suggeriscono che una differente percezione del rischio possa essere ipotizzata per i lavoratori dell’azienda e per la popolazione che vive nelle vicinanze dell’impianto. Per i primi infatti elementi quali l’involontarietà dell’esposizione e la non equità, che influiscono sul timore inerente il fattore di rischio, sono attenuati rispetto ai secondi in virtù del fatto che la sorgente di rischio rappresenta per loro una fonte di reddito e conseguentemente un beneficio intimamente connesso con il rischio stesso. Considerazioni così meccanicistiche risultano però improponibili qualora si tenti di comprendere l’eventuale enfatizzazione dei rischi da parte della popolazione. In questo caso, esiste infatti una grossa influenza sulla percezione del gruppo sociale di appartenenza che può far ragionevolmente ipotizzare una seria diversificazione di attitudini tra le persone che vivono in aree in cui esiste una storica cultura industriale rispetto a quelle che vivono in aree più recentemente coinvolte nel processo di industrializzazione. In ogni caso, le evidenze emergenti da questi studi sono alla base dell’enfasi attribuita dalle normative vigenti all’informazione ed alla formazione e costituiscono la presa d’atto che elementi quali la conoscenza dei rischi da parte degli esposti e la loro controllabilità influiscono consistentemente sulla percezione portando gli individui a non enfatizzare i rischi cui sono esposti.

Due problematiche restano però aperte una volta stabilito che un processo di comunicazione del rischio può realmente influenzare la percezione e conseguentemente la sua accettabilità. La prima di esse è relativa all’approccio cui tale comunicazione deve ispirarsi. In altre parole, una volta stabilito che fattori sociali e culturali possono indurre distorsioni nella percezione portando gli individui ad enfatizzare o a sottovalutare i rischi, il quesito che si pone è se sia corretto assumere che il rischio reale sia quello oggettivo stimato dagli esperti e, conseguentemente, guardare al processo informativo come allo strumento con cui tentare di modificare il rischio percepito per portarlo a coincidere con quello oggettivo. L’esperienza dimostra che questo approccio, che ha tentato e tenta tuttora molti responsabili pubblici per la sua semplicità interpretativa, risulta fallimentare per la forte resistenza che gli individui dimostrano nel cambiare la propria opinione. Tale resistenza, che si alimenta anche di fattori psicologici quali la tendenza di ciascuno di noi di interpretare le informazioni che ci vengono fornite in funzione del nostro punto di vista preesistente, trova una sua giustificazione logica, nella tematica inerente la sicurezza industriale, nel diverso significato che individui ed esperti attribuiscono al rischio. Tale variabile non è infatti per gli individui staccata dall’intero contesto di vita ed il rischio è quindi visto come elemento globale e non singolare. L’esposizione ad un fattore di rischio che comporta benefici, ad esempio, può influire significativamente su altri fattori di rischio cui ognuno è esposto e risultare quindi in un bilancio complessivo positivo. Al contrario, la valutazione degli esperti è per sua natura estremamente specifica e finalizzata a formulare giudizi di accettabilità fondati esclusivamente su una base numerica, spesso astratta. Ne consegue che un approccio comunicativo più efficace dovrebbe basarsi sul concetto che ognuna delle parti in causa, esperti e popolazione, può apportare un positivo contributo al processo di gestione del rischio e ispirarsi quindi al confronto piuttosto che alla trasmissione di nozioni.

La seconda problematica di interesse per la gestione dei rischi tecnologici è relativa alla possibilità di superare la conflittualità che le iniziative in questo settore generalmente suscitano. In altre parole, il quesito cui si deve rispondere è se un corretto processo informativo possa eliminare o no la conflittualità tra proponenti di un’iniziativa, autorità e popolazione. Anche in questo caso gli studi psicometrici inerenti la percezione dei rischi aiutano a comprendere che la conflittualità è un fenomeno intrinseco dei rischi tecnologici la cui causa principale deve essere ricercata nella loro inevitabile iniquità. La costruzione di una centrale elettrica, di un impianto chimico, di un inceneritore, ecc. può infatti apportare benefici ad un’ampia comunità, ma certamente distribuisce rischi in un ambito molto più ristretto producendo un numero di individui per i quali il rapporto tra queste due variabili può essere sfavorevole. Ciò spiega la generale opposizione degli individui all’accettazione di siti tecnologici vicini alla propria residenza e suggerisce ai gestori di non dimenticare durante il processo decisionale che a livello individuale nessun rischio può essere accettabile se non è connesso a benefici e che il livello di conflittualità dipende tra l’altro dall’entità di questo rapporto.

 

 

5. Alcune riflessioni conclusive

 

La soggettività che caratterizza l’analisi del rischio e l’incertezza che ne affligge i risultati, i fattori sociali e psicologici che ne influenzano percezioni e valutazioni individuali, la dimostrata correlazione tra accettabilità del rischio e benefici connessi con l’esposizione, costituiscono quegli elementi del processo di gestione dei rischi industriali che giustificano la partecipazione attiva degli esposti al processo decisionale finalizzata ad ottenere quel consenso informato che solo può garantire una razionale e non conflittuale convivenza con i rischi tecnologici. In questo senso devono quindi essere lette le attribuzioni del rappresentante per la sicurezza sancite agli artt. 4 e 19 del D.Lgs. 626/94, laddove specificano che esso è consultato preventivamente e tempestivamente dal datore di lavoro, in ordine alla valutazione dei rischi, all’individuazione, programmazione, realizzazione e verifica della prevenzione nell’azienda. Naturalmente diversa è la situazione per quanto riguarda gli impianti a rischio di incidente rilevante e l’informazione della popolazione che vive nelle aree limitrofe all’impianto. In questo caso la responsabilità della comunicazione è affidata al Sindaco e le modalità con cui condurre il processo informativo sono delineate come semplice trasmissione di una scheda standard riportata in allegato alla legge 137/97. L’esperienza evidenzia le notevoli difficoltà operative di tale percorso e lo stesso dovrà presumibilmente esser rivisto in tempi brevi per poter garantire, in fase di recepimento della Direttiva 96/82/CE, la partecipazione della popolazione alla redazione dei piani di emergenza esterna.

Sebbene i concetti inerenti l’analisi del rischio richiesta dalla normativa sia per la sicurezza industriale che per quella del lavoro siano analoghi, le peculiarità dei due campi operativi e del ruolo dei soggetti sociali coinvolti, consiglia di separare i due argomenti, in questa trattazione, allo scopo di conferire alle riflessioni che si andranno a svolgere una dimensione più operativa.

Molteplici fattori di rischio, sinteticamente classificabili in funzione dei tempi che intercorrono tra l’esposizione ed il manifestarsi degli effetti avversi, coesistono o esistono singolarmente nei luoghi di lavoro. La fig. 4, in cui questa classificazione è schematizzata, mette in relazione la tipologia degli effetti con la natura degli eventi da cui essi generalmente originano provvedendo così ad una grossolana suddivisione dei problemi in quelli inerenti la sicurezza (eventi incidentali) e quelli inerenti la tutela della salute sul posto di lavoro (contaminazione degli ambienti di lavoro). Detti elementi costituiscono il terreno entro il quale deve muoversi l’analisi di rischio del datore di lavoro e la conseguente elaborazione del documento di cui all’art. 4 del D.Lgs. 626/94, relativamente ai quali deve essere consultato il rappresentante per la sicurezza. E’ bene sottolineare che il citato decreto, in analogia con quanto precedentemente riportato nel definire il concetto di rischio, non stabilisce soglie al di sotto delle quali il rischio deve essere ritenuto accettabile. Al contrario, esso afferma, almeno per quanto riguarda gli agenti cancerogeni e quelli biologici, che il datore di lavoro:

• sostituisce, se tecnicamente possibile, la sorgente di pericolo con una più innocua (artt. 62 e 79 del D.Lgs. 626/94);

• aggiorna le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi e al grado di evoluzione della tecnica della prevenzione e della protezione (art. 4 del D.Lgs. 626/94).

In altre parole emerge dalle normative il ruolo di strumento decisionale della valutazione del rischio, inserito in un processo di gestione della sicurezza e della salute dei lavoratori i cui obiettivi non sono quelli del raggiungimento di uno standard ma dell’instaurazione di un’azione continua di riduzione del rischio. Ne scaturisce un sistema di gestione ciclico (fig. 5), integrato nel più complessivo sistema di gestione dell’azienda, in cui il Servizio di Prevenzione e Protezione, insieme al datore di lavoro e con il controllo del rappresentante per la sicurezza, identifica i fattori di rischio e procede alla loro valutazione, alla conseguente identificazione delle misure di sicurezza e di protezione più appropriate ed alla verifica della loro efficacia ed efficienza. E’ in questo contesto che deve essere ricercato il ruolo attivo del rappresentante per la sicurezza, che non deve limitarsi al semplice controllo del rispetto della normativa, ma farsi portatore delle valutazioni di rischio provenienti dai lavoratori in quell’ottica di integrazione tra valutazioni soggettive ed oggettive di cui si è trattato nel precedente paragrafo. E’ stato sottolineato in precedenza che uno dei passaggi più delicati ed incerti della valutazione del rischio è costituito proprio dalla fase di identificazione la quale risulta per sua natura generalmente incompleta. Tale identificazione, che spetta al datore di lavoro, deve seguire un protocollo sistematico alla cui redazione dovrebbero dare un contributo significativo tutti i lavoratori interessati. Esso consiste in un’elencazione di tutte le sorgenti di pericolo presenti in azienda (sostanze chimiche classificate per la loro pericolosità, macchine in movimento, impalcature, sorgenti di radiazioni ionizzanti o no, ecc.) e di tutti gli elementi che possono comportare danni per la salute nel breve e/o nel lungo periodo. Tale elencazione deve prescindere dalle misure di protezione esistenti la cui efficacia ed affidabilità dovrà essere valutata in fase di analisi del rischio. Si rammenti a tal fine la distinzione tra rischio e pericolo discussa nei paragrafi precedenti. Naturalmente, una separazione tra sicurezza e tutela della salute deve essere attuata nella fase di identificazione dei fattori di rischio. Per esemplificare, la presenza di una sostanza tossica o cancerogena imporrà di considerare sia il rilascio continuo dai dispositivi che la contengono sia la possibilità che eventi incidentali possano portare ad un suo rilascio consistente. Gli scenari che ne conseguono sono infatti estremamente diversi configurandosi:

• nel primo caso, una contaminazione dell’ambiente di lavoro che, pur permanendo i contaminanti in concentrazioni contenute, induce un’esposizione dei lavoratori che ivi operano che può durare anche per tutta la vita lavorativa;

• nel secondo caso, un’esposizione unica e di durata limitata del lavoratori presenti al momento dell’evento incidentale a concentrazioni del contaminante estremamente elevate.

Analogamente sono diversi anche gli effetti avversi che ne conseguono, in quanto funzione sia della concentrazione del contaminante nel mezzo al quale si è esposti sia della durata dell’esposizione. Le sostanze pericolose presenti in azienda sono facilmente riconoscibili dalle etichette che devono essere presenti sui loro contenitori e che devono riportare, oltre alla classificazione, anche le frasi di rischio e le avvertenze di pericolo. Tutti i lavoratori che frequentano l’ambiente in cui queste sostanze sono presenti dovrebbero inoltre prendere visione della scheda di sicurezza la quale oltre all’identificazione della sostanza riporta le proprietà chimico-fisiche, tossicologiche ed ecotossicologiche, ed i limiti di concentrazione al di sotto dei quali si ritiene che non dovrebbero evidenziarsi effetti avversi sulle persone (TLV, MAC, ecc.). A tal proposito, è bene ricordare che per le sostanze classificate cancerogene detti limiti, qualora esistenti, hanno uno scarso significato pratico in quanto si può teoricamente ritenere, particolarmente quando esse sono genotossiche, che anche una sola molecola possa essere in grado di provocare l’insorgenza di un tumore.

Un volta identificate le sorgenti di pericolo si procede alla fase di valutazione dei rischi che, come detto in precedenza, consiste nella stima della probabilità che gli eventi avversi prevedibili abbiano realmente a verificarsi. Due diversi approcci devono essere utilizzati nella valutazione se ci si riferisce alla tutela della salute o alla sicurezza. Nel primo caso, infatti, è possibile controllare l’entità delle esposizioni e l’efficacia dei dispositivi di protezione attraverso un monitoraggio sia della contaminazione ambientale sia delle condizioni di salute dei lavoratori (medico competente). Nel secondo caso, trattandosi di eventi incidentali, non è possibile alcun monitoraggio e la valutazione deve pertanto riguardare l’efficacia e l’efficienza dei dispositivi di sicurezza adottati. Un principio generale che non deve essere mai dimenticato quando si identifica una sorgente di pericolo è che ogni sistema di gestione, o sua componente meccanica, elettrica, umana, ecc. è caratterizzato da una propria affidabilità definibile come la probabilità che il sistema, o la componente, sia in grado di operare correttamente dopo un certo tempo. In altre parole, l’affidabilità non è altro che il complemento a uno della probabilità di quel sistema di guastarsi o di non rispondere correttamente ad una sollecitazione dopo un definito tempo di vita o numero di sollecitazioni.

Non è certo questa la sede per entrare in dettaglio nell’analisi di affidabilità né si ritiene che questo possa essere un compito del rappresentante della sicurezza. Data però l’importanza dell’argomento per la valutazione del rischio, sembra giusto procedere ad una sintetica trattazione mirata a rilevare gli aspetti importanti di cui si dovrebbe tener conto nella gestione della sicurezza.

Sul piano teorico un qualsiasi sistema tecnologico, sia esso un impianto chimico, un automezzo, una macchina di produzione, ecc., può essere visto, come un insieme di sottosistemi più o meno complessi, costituiti da componenti elementari, il cui corretto funzionamento assicura il raggiungimento degli obiettivi previsti per il sistema stesso nella fase di progetto. Nella realtà ciò non è però completamente vero poiché ogni sistema tecnologico, sia esso anche il più automatizzato, interagisce con l’uomo la cui azione può influenzarne il funzionamento. Ne consegue che l’affidabilità del sistema risulti funzione sia dell’affidabilità di ognuno dei suoi componenti tecnologici, sia dell’affidabilità degli individui che con esso interagiscono a vari livelli (gestione, controllo, manutenzione, ecc.). Dati relativi all’affidabilità dei componenti sono generalmente disponibili nella lettura specialistica e sono spesso forniti insieme al componente dal suo produttore. Essi non saranno quindi ulteriormente trattati in questo articolo. Al contrario, pur a fronte di un’analisi storica degli incidenti industriali che suggerisce una crescente frequenza di errori umani quale causa di malfunzionamento dei sistemi, l’interazione uomo-sistema tecnologico è quasi sempre trascurata nelle valutazioni di rischio spingendo conseguentemente la tematica ad essere trattata più sul piano delle responsabilità individuali che della valutazione di affidabilità. Essa merita pertanto alcune considerazioni ed una certa attenzione da parte dei rappresentanti della sicurezza.

In fig. 6 è riportato uno schema d’interazione uomo-sistema tecnologico del tipo a ciclo chiuso che caratterizza i sistemi semiautomatici nei quali l’operatore può correggere il funzionamento di uno o più componenti tecnologici al fine di assicurare il rispetto delle specifiche di output predefinite. Naturalmente, sistemi tecnologici interamente automatizzati, i quali sono in grado di autoregolarsi una volta avviati, prevedono una diversa interazione con l’uomo al quale è affidato più un ruolo di monitoraggio che di intervento diretto. In ogni caso, anche i sistemi spinti al massimo grado di automazione non possono certo fare a meno dell’uomo, al quale è in ogni caso affidato almeno il compito di vigilare sul corretto funzionamento dei dispositivi automatici di controllo e di provvedere al mantenimento dell’efficienza dell’intero sistema. Lungi quindi dallo sminuire l’importanza del fattore umano, la crescente automazione affida all’uomo compiti più gravosi:

• rendendolo sempre più l’anello debole nell’affidabilità del sistema uomo-macchina, attraverso il costante incremento dell’affidabilità delle componenti tecnologiche;

• ponendogli problemi relativi alla capacità di mantenere un sempre più alto livello di vigilanza, necessario per il monitoraggio di sistemi sempre più complessi;

• richiedendogli la valutazione di una quantità di informazioni di controllo che diviene sempre più elevata all’aumentare della complessità dei sistemi tecnologici.

Lo schema proposto in figura 6, secondo il quale l’uomo:

• acquisisce informazioni dal sistema tecnologico attraverso i dispositivi di misura dei suoi parametri di funzionamento;

• decide l’azione da intraprendere per mantenere le specifiche di progetto dell’output;

• regola il sistema agendo sui suoi dispositivi di comando e controllo;

propone un elemento di eccessiva semplificazione relativamente all’interazione uomo-sistema tecnologico. Un sistema reale, infatti, è generalmente costituito da più sottosistemi controllati da specifici operatori. Ciò può complicare ulteriormente l’attività di controllo ed intervento del singolo operatore il quale, a causa delle interazioni tra i sottosistemi e gli individui, può trovarsi ad assumere decisioni che devono tener conto di variabili controllate da altri.

Per identificare le operazioni nelle quali l’individuo può più facilmente sbagliare, per quantificare la probabilità dell’errore (affidabilità umana) e per comprendere le cause di eventuali errori numerosi metodi di valutazione delle variabili psicologiche e fisiologiche individuali e dell’ambiente in cui l’uomo si trova ad operare sono stati proposti in letteratura e dovrebbero essere utilizzati nelle analisi di rischio degli impianti, sia a livello progettuale che operativo. Pur non essendo questa la sede per entrare nei dettagli di tali metodi appare opportuno procedere ad una descrizione qualitativa di almeno uno di essi per fornire elementi che consentano di controllare la congruità della valutazione e di portare un contributo conoscitivo.

Uno degli approcci valutativi più conosciuti, e quindi più largamente usati, è quello denominato Paradigma S-O-R il quale si basa su un modello secondo cui tutti i comportamenti umani potrebbero essere rappresentati con numerose catene, variamente interconnesse ed interagenti tra loro, composte da tre elementi concatenati nell’ordine Stimolo (S) azione organica (O)risposta (R). In altre parole, l’individuo riceve uno stimolo, lo interpreta ed elabora, e reagisce con un risposta. Più precisamente, gli elementi del paradigma possono essere così definiti:

- per Stimolo (S) si intende ogni cambiamento dell’ambiente circostante, o evento che tale è percepito dall’individuo. Esso proviene quindi generalmente dall’esterno dell’organismo umano (segnale luminoso, spia acustica, ecc.) ma può anche originare all’interno di esso come sensazione che nasce dalla valutazione di diversi elementi;

- per azione organica (O) si intende l’azione di elaborazione condotta dall’individuo per pervenire ad una decisione. Nel caso in questione, essa comprende quindi l’interpretazione dello stimolo, l’associazione con le conoscenze possedute e l’adozione di una decisione;

- per risposta (R) si intende ovviamente l’azione intrapresa per attuare la decisione precedentemente assunta.

Secondo questo approccio è possibile spiegare l’errore umano semplicemente come il fallimento di una delle catene, o di uno degli elementi che le costituiscono. In un comportamento semplice rappresentato da una sola catena, l’errore umano può quindi dipendere dalla mancata o erronea percezione di uno stimolo, dall’inabilità a discriminare tra più stimoli, dall’ignorare la risposta da dare ad un definito stimolo, dall’impossibilità fisica a realizzare l’azione conseguente alla risposta decisa, ecc. Ne consegue che tra le numerose variabili che possono influire sulla possibilità di errore umano siano certamente da inserire:

• i problemi fisiologici connessi con il funzionamento degli organi di senso dell’individuo;

• la disposizione della strumentazione con la quale vengono evidenziati i parametri di stato del sistema tecnologico;

• le modalità con le quali dette informazioni sono fornite all’operatore (indicatori dicotomici luminosi o acustici, intensità e luminosità dei segnali, indicatori quantitativi digitali, a scala mobile, a scala fissa, ecc.);

• i fattori di stress psicologico quali ad esempio l’assunzione di decisioni in condizioni di pericolo, di affaticamento, ecc.;

• i fattori di stress connessi con l’ambiente nel quale si opera (luminosità, clima, rumore, vibrazioni, ecc.);

• ecc. -----

Un elemento di particolare importanza che non può essere escluso da questa lista quando di tratta di impianti a rischio è certamente quello connesso alle capacità dell’individuo di mantenere un alto livello di vigilanza. Questa variabile, che numerosi studi hanno dimostrato incidere sensibilmente sulla capacità dell’individuo di rilevare lo stimolo, dipende significativamente, tra l’altro:

• dalla durata del periodo di attenzione richiesta all’operatore;

• dal tipo di azione da condurre qualora il segnale venga rilevato;

• dalla frequenza di attivazione del segnale.

Ciò implica che l’intervento di un operatore per evitare una situazione di pericolo risulti intrinsecamente più soggetto ad errore di uno analogo finalizzato alla normale operatività produttiva in quanto trattasi di una risposta ad uno stimolo poco frequente che deve essere decisa in condizioni di stress psicologico indotte dalla coscienza degli effetti avversi che un errore può provocare a sé e/o agli altri. Particolare attenzione dovrà essere pertanto riservata a tali mansioni nella fase di identificazione delle misure di protezione che generalmente richiedono sia un’idonea organizzazione del lavoro sia una specifica attività di formazione che non escluda simulazioni capaci di conferire all’operatore una certa familiarità con l’evento.

Intimamente connessa al processo di valutazione del rischio, e sua logica conseguenza, è, nel campo della sicurezza industriale, l’identificazione dei dispositivi di protezione più idonei per la specifica realtà esaminata. Un dispositivo di sicurezza infatti è tanto più efficace quanto maggiore è la riduzione del rischio che esso garantisce. In questo contesto, il rischio si presta ottimamente quale parametro di misura poiché la sua soggettività, e la conseguente ampia incertezza che ne affligge la stima, risulta priva di effetti distorcenti quando le decisioni vengono prese per comparazione tra opzioni diverse. In altri termini, per valutare l’efficacia di un dispositivo di protezione è necessario sviluppare un’analisi del rischio del sistema tecnologico umano sia in presenza che in assenza del dispositivo, ed utilizzare il rapporto tra i rischi come indicatore di efficacia della misura di protezione. Tale comparazione può in alcuni casi non essere molto semplice. Nessun problema esiste infatti qualora il rischio è riferito ad un singolo lavoratore, ed è quindi espresso come probabilità che lo stesso possa subire un definito effetto avverso. In questo caso, infatti, il rapporto tra i rischi indica direttamente di quante volte diminuisce la probabilità che il lavoratore subisca l’effetto avverso e l’identificazione tra i possibili diversi dispositivi di sicurezza di quello più efficace diviene un’operazione assolutamente meccanicistica. Molto diverso è invece il caso in cui i possibili effetti avversi coinvolgono più persone, come ad esempio nel rilascio accidentale all’interno di un ambiente di lavoro di una sostanza pericolosa. In questo caso, il rischio è infatti espresso come curva sul piano probabilità/entità delle persone coinvolte e la decisione può richiedere una scelta di tipo soggettivo da cui non possono ovviamente restare esclusi i lavoratori esposti. Ad esempio, si supponga che esistano due diverse opzioni A e B per incrementare la sicurezza di un sistema. La fig. 7 riporta le possibili condizioni in cui la decisione può dover essere assunta evidenziando:

• nel grafico (7a), che nessun problema decisionale esiste qualora una delle due opzioni mostri sempre una minor probabilità ed una minor entità delle conseguenze. Non c’è infatti alcun dubbio in questo caso che l’opzione B sia più efficace dell’opzione A in termini di incremento della sicurezza;

• nel grafico (7b), che l’opzione A mostra una minor probabilità che si verifichino effetti di minor entità ma al tempo stesso una più alta probabilità per il verificarsi di effetti diversi con entità maggiore. In questo caso la scelta è assai più complessa poiché deve tener conto che gli effetti avversi attesi per scenari incidentali con probabilità più bassa (nell’ambito della sicurezza industriale le probabilità sono generalmente minori di 0.01 e possono scendere di alcuni ordini di grandezza) sono quelli che più verosimilmente si verificheranno durante il tempo di vita dell’impianto. Ne consegue che scegliere l’opzione B può risultare più gravoso in termini di effetti avversi complessivi riferiti all’intera vita dell’impianto in quanto può aumentare di alcuni ordini di grandezza la probabilità di verificarsi degli eventi incidentali a conseguenze minori al fine di evitare la possibilità di accadimento di scenari incidentali a conseguenze più alte, i quali potrebbero anche non verificarsi mai durante la vita operativa dell’impianto. E’ evidente in questo caso che la decisione inerente l’efficacia delle due opzioni, coinvolgendo valori culturali ed etici, necessita che al punto di vista dei lavoratori esposti sia attribuito un peso rilevante.

In termini generali, si può concludere che la partecipazione dei lavoratori può e deve incidere profondamente sul processo decisionale ispirandosi al concetto che il rischio può essere ridotto, ma in molti casi non eliminato. Uno dei metodi più intuitivi a cui spesso si fa ricorso per accrescere la sicurezza è fondato sulla ridondanza dei dispositivi di protezione e prevenzione finalizzata a ridurre la probabilità di accadimento degli eventi incidentali. Tale approccio si scontra però, in molti casi, con le esigenze di bilancio dell’azienda ed è quindi fonte di conflittualità tra management e lavoratori. Ne deriva un andamento del livello di sicurezza raggiunto nell’azienda che varia in funzione dei rapporti di forza che si instaurano momento per momento. Tale fluttuazione non può comunque permettere che il livello di sicurezza scenda sotto il limite specificato nelle normative di sicurezza le quali rappresentano la coscienza collettiva, e quindi il grado di civiltà del paese, e devono costituire quindi il punto di partenza per la ricerca di equilibri più avanzati. In questo senso l’introduzione dell’analisi di rischio nel contesto normativo inerente la sicurezza industriale, così come l’informazione dei lavoratori e la loro partecipazione alla gestione della sicurezza, costituiscono dei validi strumenti di progresso sui quali può fondarsi la ripartizione per settori delle risorse aziendali.

Nello stesso quadro logico dell’informazione e formazione dei lavoratori si inserisce, per quanto riguarda le attività a rischio di incidente rilevante, la comunicazione del rischio alla popolazione che può essere coinvolta in eventi incidentali prevedibili per l’impianto.

L’enfasi posta su tale aspetto della gestione del rischio industriale dalle normative europee (Direttive 82/501/CEE e 96/82/CE) non nasce quindi esclusivamente dalla necessità di ribadire il principio democratico per cui ognuno ha il diritto di essere informato sui rischi ai quali è esposto, ma sottolinea l’importanza della partecipazione della popolazione al processo di pianificazione dell’emergenza e della conoscenza dei rischi nel garantire l’assunzione di atteggiamenti e comportamenti adeguati alla minimizzazione delle conseguenze, nel caso che un evento accidentale abbia a verificarsi. A dimostrazione di ciò è bene ricordare che già la prima Direttiva Seveso (82/501/CEE) sanciva espressamente il dovere delle autorità di informare la popolazione e che la sua modifica (Direttiva 96/82/CE) affianca a tale dovere delle autorità il diritto della popolazione di essere informata e consultata relativamente alla stesura del piano di emergenza esterna. Per questo motivo quest’ultima direttiva stabilisce esplicitamente che alla popolazione deve essere garantito l’accesso al rapporto di sicurezza.

A fronte di tale riconosciuta importanza sta l’approccio normativo italiano (Legge 137/97), il quale propone un modello di comunicazione che prevede:

• che i fabbricanti, contestualmente alla notifica degli impianti inviino a varie autorità, tra cui il Sindaco, una scheda informativa;

• che i Sindaci rendano immediatamente note alla popolazione le misure di sicurezza e le norme di comportamento da seguire in caso di incidente rilevante, tramite distribuzione, nella forma integrale in cui è pervenuta, della scheda di cui al punto precedente.

Detta scheda contiene informazioni descrittive relative:

- all’identificazione della società e dei suoi rappresentanti ufficiali nonché dei riferimenti presso la pubblica amministrazione e dei responsabili per l’informazione pubblica; per il primo intervento e per la pianificazione dell’emergenza esterna;

- alle attività svolte nello stabilimento;

- agli adempimenti amministrativi posti in essere nell’ambito dell’applicazione del DPR 175/88;

- all’identificazione delle sostanze e dei preparati capaci di causare un incidente rilevante nonché alla natura dei rischi connessi con questi eventi;

- alla tipizzazione degli effetti per la popolazione e l’ambiente, delle misure di prevenzione e sicurezza adottate, dei comportamenti da seguire per mitigare le conseguenze, dei mezzi disponibili per la segnalazione degli incidenti, per la comunicazione durante l’emergenza e per il pronto soccorso delle persone coinvolte.

Dato il breve tempo intercorso dall’emanazione del dispositivo legislativo l’efficacia di questo modello non consente ancora una valutazione di campo, anche se alcuni dei Sindaci investiti di questa responsabilità si sono resi conto che un approccio così meccanicistico può risultare in un fallimento dal punto di vista informativo e in un ulteriore elemento di induzione di un conflitto sociale già endemico in quasi tutte le aree in cui sono presenti attività industriali a rischio di incidente rilevante.

Nonostante ciò, alcune generali considerazioni possono essere svolte seguendo le conoscenze acquisite in numerose ricerche inerenti la tematica e sulla base del concetto di rischio discusso nei paragrafi precedenti. Non c’è infatti alcun dubbio che gli atteggiamenti che gli individui assumono rispetto ad un rischio dipendano dalla loro percezione del rischio e possano oscillare da una totale sottovalutazione ad un estremo allarmismo. Naturalmente entrambe queste condizioni tendono a vanificare il processo informativo ed a complicare l’intera gestione del rischio. Si aggiunga a ciò sia che la valutazione soggettiva propria della popolazione si basa su caratteristiche e valori estremamente diversi da quelli che informano le valutazioni oggettive usate dagli esperti, sia che la natura del fenomeno consente solo stime probabilistiche le quali non incontrano le attese della popolazione di una risposta dicotomica del tipo effetto avverso certo o impossibile.

In questa situazione, la disseminazione di informazioni relative alla pericolosità delle sostanze, alla natura dei rischi ed alla tipologia degli effetti avversi opposta a quella relativa alle misure di sicurezza adottate ed ai dispositivi di mitigazione del rischio potrebbero non essere sufficienti ad evitare una logica estremizzata oscillante tra rassicurazione ed allarmismo. Enfatizzando infatti le informazioni sulla pericolosità e gli effetti avversi è facile cadere nell’allarmismo ingiustificato mentre, al contrario, enfatizzando le informazioni sulle misure di sicurezza e di mitigazione delle conseguenze potrebbe essere altrettanto facile scivolare in un’ingiustificata rassicurazione. Ne consegue che il rapporto fiduciale tra popolazione ed autorità responsabili del processo informativo, il quale può ovviamente essere influenzato da elementi che nulla hanno a che vedere con la gestione del rischio di incidente rilevante, è sempre più destinato a divenire l’elemento discriminante tra questi due estremi.

Indagini condotte in Italia intorno a siti industriali ricompresi nel D.P.R. n. 175/88 hanno segnalato l’estrema importanza che la popolazione potenzialmente esposta al rischio attribuisce al rapporto fiduciale che può instaurarsi sia con i tecnici delle autorità locali preposti alla protezione della salute sia con i tecnici dello stabilimento responsabili per la sicurezza dell’impianto. Esse hanno anche suggerito che la fiducia dei cittadini può essere rafforzata all’interno di un processo informativo che, lungi dall’essere un semplice processo di trasmissione di nozioni e prescrizioni protettive, si configuri come momento di controllo del rischio da parte della popolazione che si esplica nel confronto con le autorità preposte al controllo della sicurezza ed alla protezione della salute.

Un secondo elemento di riflessione su questa tematica è costituito dalla natura probabilistica del rischio e dalla difficoltà connessa con il processo di comunicazione dell’incertezza ad esso associata. Infatti, in quanto variabile attraverso cui si cerca di prevedere il futuro, il rischio è intrinsecamente affetto da soggettività ed ampia incertezza ed il suo uso risulta efficace in processi decisionali basati sulla comparazione di diverse opzioni, ma molto problematico in situazioni, quali quelle proposte dalla gestione degli incidenti industriali rilevanti, in cui esso deve essere considerato per il suo valore assoluto. Ciò implica ovviamente processi comunicativi assai complessi ed articolati la cui trattazione esula dagli scopi del presente articolo. E’ comunque doveroso ricordare, seppur schematicamente, che un efficiente processo di comunicazione del rischio dovrebbe coinvolgere almeno due livelli d’intervento, intimamente connessi, riferiti: il primo ad un contesto educativo più generale inerente la cultura del rischio; ed il secondo alla specifica situazione di rischio oggetto della comunicazione. In ogni caso tale processo dovrebbe articolarsi in almeno tre fasi (progettazione, realizzazione e verifica), dinamicamente interconnesse, finalizzate a rispondere efficientemente alle esigenze informative e di controllo poste dalla popolazione.

Osservato alla luce delle considerazioni generali sin qui esposte, il modello informativo proposto dalla legge n. 137 del 19 maggio 1997 appare estremamente semplificato e lascia molti dubbi sulla sua capacità di risolvere la complessa problematica posta dal processo di comunicazione del rischio. Naturalmente esso potrebbe rilevarsi un utile strumento qualora posto all’interno di un processo informativo più articolato capace di coinvolgere la popolazione nelle decisioni inerenti la gestione ed il controllo del rischio. Ciò implica però la disponibilità di specifiche ed idonee competenze a livello locale e non esclude, di conseguenza, la possibilità di osservare nel futuro una grande disomogeneità territoriale nell’applicazione di questa parte della normativa. A tale possibilità dovrebbero perciò prestare molta attenzione non soltanto i Sindaci nei cui comuni insistono impianti a rischio di incidente rilevante, ma anche le forze politiche e le autorità nazionali onde evitare il pericolo che la discriminante per il siting di aziende a rischio possa divenire una funzione esclusiva della carenza di competenze a livello locale.

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NOTE