In America Latina vacillano ancora i governi sotto l’onda dei movimenti sociali e dei sindacati indipendenti

Marco Santopadre

Intervista a JAMES PETRAS

In America Latina è caduto un altro governo, quello dell’Ecuador, mentre in Bolivia centinaia di migliaia di lavoratori stanno assediando i palazzi del potere chiedendo la nazionalizzazione delle risorse energetiche del paese, in particolare del gas. Cosa sta succedendo nel subcontinente latinoamericano? Solo poche settimane fa, siamo stati testimoni di un colpo enorme inferto all’imperialismo. In Ecuador, l’ormai ex presidente Lucio Gutierrez aveva affermato che durante una recente conversazione con il presidente degli Stati Uniti George W. Bush, questi lo aveva definito il suo migliore e più fedele amico in America Latina. Ciò grazie al sostegno di Gutierrez al Plan Colombia, alla costruzione in territorio ecuadoriano della base militare di Manta, all’accerchiamento militare della Colombia, alla dollarizzazione dell’economia ecuadoriana, otre che alla realizzazione dell’Accordo di Libero Commercio delle Americhe (ALCA). Oggi il signor Gutierrez è storia passata. È dovuto scappare in fretta e in furia dal palazzo presidenziale di Quito assediato da 200.000 persone, ha cercato di lasciare il paese in aeroplano ma il popolo glie lo ha impedito bloccando l’aeroporto, così ha utilizzato un elicottero ed è riuscito a trovare rifugio nell’ambasciata brasiliana prima e poi direttamente in Brasile. Le masse popolari dell’Ecuador hanno inferto un duro colpo all’imperialismo nella maniera più concreta: sono state le classi medie e medio-basse urbane le protagoniste della cacciata di Gutierrez, e non i sindacati o i movimenti indigeni. Adesso invece stiamo assistendo alla battaglia eroica dei minatori, degli indigeni, dei disoccupati, della gioventù della Bolivia contro la svendita delle risorse petrolifere del paese alle multinazionali straniere.

Che tipo di conclusione possiamo trarre da ciò che è successo in Ecuador? Una conclusione che possiamo trarre noi ma soprattutto i popoli dell’America Latina è che l’imperialismo statunitense non è invincibile. Anche un piccolo popolo come quello dell’Ecuador può vincere. Solo alcune settimane fa il capo del Comando Meridionale degli USA in America Latina, il comandante Myers, era in Ecuador per ribadire il sostegno statunitense al presidente Gutierrez, e solo pochi giorni prima della ribellione popolare l’ambasciatore statunitense faceva lo stesso, e ciò nonostante il popolo è sceso in piazza e vi è rimasto, dando vita non a una manifestazione rituale ma con l’obiettivo concreto di cacciare “il traditore”. Due persone sono state uccise, centinaia di manifestanti sono stati feriti ed arrestati, ma alla fine hanno vinto. Ormai gli Stati Uniti non hanno più il controllo del cosiddetto cortile di casa, e mantengono una posizione di forza a mala pena in alcuni paesi dell’America Centrale. La strategia di dominazione degli Stati Uniti non si deve scontrare adesso soltanto con i governi rivoluzionari di Cuba e del Venezuela, ma con un numero crescente di paesi le cui classi dirigenti, seppure schierate su posizioni moderate dal punto di vista economico e sociale, non sono più interessate a eseguire senza discutere i diktat di Washington. I governi che si sono ostinati a farlo negli ultimi tempi sono saltati sotto l’ondata delle proteste popolari. Se noi consideriamo gli ultimi 20 anni in America Latina, ogni governo sostenuto dagli Stati Uniti è stato sconfitto alle elezioni oppure buttato giù dai sommovimenti di piazza, dalle ribellioni popolari. Washington ha appoggiato golpe militari e interventi dell’esercito contro i governi e i paesi che si oppongono alla politica estera imperialista degli Stati Uniti come contro Chávez in Venezuela o che si rifiutano di adottare i programmi di privatizzazioni imposti dal Fondo Monetario Internazionale come Arístide ad Haití. Allo stesso tempo appoggia regimi elettorali come quello di Toledo in Perù, di Lagos in Chile, di Lula in Brasile, di Fox in Messico. In Colombia, Washington utilizza gli squadroni della morte e i paramilitari per assassinare i leader dei movimenti sociali e politici che si oppongono al governo di Uribe e alle multinazionali che lo sostengono, come ad esempio la Coca Cola. Il Trattato di Libero Commercio dell’America del Nord (NAFTA), l’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA), il Plan Colombia, il Plan Andino, e la cosiddetta “guerra contro il terrorismo” rappresentano solo alcuni degli sforzi degli USA miranti a ricolonizzare le economie dei paesi latinoamericani, a convertire gli eserciti locali in mercenari dei propri interessi e a mantenere e rafforzare lo sfruttamento dei lavoratori.

Che ruolo ha la resistenza di Cuba nell’ondata di cambiamento che sta investendo tutta l’America Latina? In tutti questi anni Cuba non solo ha resistito all’embargo e al terrorismo degli Stati Uniti e al tentativo di isolamento da parte anche dell’Unione Europea, ma ha continuato a rappresentare per tutta l’America Latina un modello di rivoluzione. Non l’unico possibile, certamente, ma sicuramente una importante congiunzione di valori che sono decisivi per i movimenti extraparlamentari di tutto il continente. Occorre riconoscere che non è sufficiente la semplice negazione dei governi neoliberisti ma che è indispensabile l’affermazione di un progetto concreto di conquista del potere politico e della gestione dello Stato. Questa è la principale ragione dell’ossessione anticubana degli Stati Uniti, perché ogni popolo può trarre dall’esperienza cubana e dalla sua resistenza delle importanti conclusioni a sostegno della propria lotta di liberazione attuale. Inoltre Cuba dimostra che si può costruire una società basata sulla giustizia sociale, sulla eguaglianza e sulla libertà contro l’aggressione degli Stati Uniti anche in paesi di piccole dimensioni e non particolarmente ricchi dal punto di vista delle risorse naturali.

Lei è molto critico nei confronti di alcuni governi progressisti che attualmente governano paesi importanti dell’America Latina come ad esempio il Brasile, o l’Uruguay. Ce ne può spiegare la ragione? Io collaboro con molti movimenti in America Latina, da 12 anni con il Movimento dei Lavoratori Rurali Senza Terra in Brasile, da 5 anni col movimento dei disoccupati in Argentina, da anni con i “cocaleros” della Bolivia, con i lavoratori delle compagnie petrolifere e coi movimenti indigeni in Ecuador, e posso affermare una cosa: negli ultimi 25 anni l’unico progresso in America Latina per le masse è venuto dalle lotte di cui sono stati protagonisti i movimenti extraparlamentari. Tutti i governi, che siano di centrosinistra, populisti, civili-militari, retti da forze che si proclamano contrarie e critiche nei confronti del liberismo, finiscono poi per diventare i gestori, gli amministratori del neoliberismo. I movimenti popolari reagiscono a questi ripetuti tradimenti sconfiggendo un governo dopo l’altro con enormi mobilitazioni. Abbiamo gli esempi di Sanchez de Lozada in Bolivia, di De la Rua in Argentina, nelle scorse settimane di Lucio Gutierrez in Ecuador ma prima ancora di Mahuad e poi di Bucaram, il “pagliaccio”. Nei confronti delle privatizzazioni imposte dal Fondo Monetario Internazionale tutti i governi, al di là del proprio colore politico, sono disponibili a realizzarle. Solo l’azione diretta riesce a bloccare questi progetti, come è avvenuto nel caso del Messico dove il Sindacato degli Elettrici, con una mobilitazione di 500.000 lavoratori alla quale abbiamo partecipato, è riuscita a sconfiggere il piano del Presidente Fox, ex amministratore della Coca Cola. Affermare che la lotta di tipo elettorale non porta risultati concreti non è una conclusione di carattere ideologico, dogmatico, bensì la deduzione empirica derivante da decenni di esperienza che ci dimostra come la lotta dei movimenti di massa extraparlamentari sia l’unico strumento in grado di spostare gli equilibri. Non lo affermo perché cito la Rosa Luxemburg dello “sciopero generale” bensì perché non esiste nessuna misura concreta progressiva varata in questi anni da Lula, da Kirchner e dagli altri presidenti eletti.

Nonostante l’ambiguità di alcuni governi e le continue aggressioni da parte dell’amministrazione statunitense l’America Latina rimane il quadrante mondiale più interessante dal punto di vista dello sviluppo e dell’affermazione dei movimenti sociali e dei sindacati indipendenti e di classe. Nonostante tutti i tentativi portati avanti dagli Stati Uniti per la riaffermazione del proprio potere in America Latina, la classe operaia di tutto il subcontinente ha ottenuto importanti vittorie in tutti questi anni. In Bolivia (2003) e in Ecuador una alleanza tra operai e contadini ha cacciato dal potere i presidenti neoliberisti appoggiati dall’imperialismo. Disoccupati e operai si sono alleati con la piccola borghesia argentina per dar vita ad una insurrezione che ha espulso dal potere Fernando de la Rua nel 2001. I lavoratori e settori della piccola borghesia sono riusciti a invertire attraverso la lotta i processi di privatizzazione dell’acqua e dell’elettricità a Cochabamba (Bolivia) e ad Arequipa (Perù), dei porti e dell’industria elettrica a Montevideo. Gli operai e le classi povere urbane sono stati coloro che hanno sconfitto il golpe confindustriale anti Chavez in Venezuela riportandolo al potere. Nuove confederazioni sindacali conflittuali nascono e si sviluppano in tutta l’America Latina in rottura con i vecchi sindacati officiali e concertativi. In Brasile, Argentina, Ecuador, Perù, Nicaragua, Costa Rica i sindacati incrementano le mobilitazioni contro le misure liberiste dei loro governi, spesso di centrosinistra. Néstor Kirchner in Argentina deve fare i conti con gli scioperi del settore pubblico e privato, i cui lavoratori chiedono aumenti salariali consistenti. In Brasile i sindacati del settore pubblico hanno risposto con forza ai piani del presidente Lula di taglio delle pensioni e di limitazione del diritto di sciopero. Sia in Brasile che in Argentina continua ad esserci una mobilitazione nelle fabbriche soprattutto in relazione alle vertenze concrete: la lotta per l’aumento dei salari e alcune lotte per impedire la privatizzazione delle imprese. Però la mobilitazione operaia non va spesso al di là di queste specifiche vertenze. Per questo se analizziamo le grandi mobilitazioni di massa degli ultimi anni, in Argentina i grandi assenti erano proprio i sindacati metallurgici, che subiscono forse ancora il fascino del presidente Lula, definito ancora “il metalmeccanico” nonostante ormai sia un funzionario di partito da più di 20 anni. Ciò non vuol dire che non ci fossero i militanti delle fabbriche, ma le organizzazioni sindacali in quanto tali mancavano nelle proteste di massa. Durante le grandi mobilitazioni dei Sem Terra, durante l’occupazione delle terre, di fronte ai massacri di contadini ad opera dell’esercito e dei latifondisti, la CUT brasiliana non è in grado di mobilitare più di qualche migliaia di quadri e funzionari. Quando furono massacrati 18 braccianti giornalieri ci furono grandi proteste da parte dei sindacati ma non ci fu nessuno sciopero generale o il blocco delle fabbriche. Ci fu solo una marcia dei funzionari sindacali, anche se con tante bandiere. Anche in Venezuela buona parte dei lavoratori dell’industria petrolifera statale non hanno partecipato al processo guidato da Chavez, anzi vi si oppone anche se adesso si sta andando a un processo di ricomposizione di un quadro sindacale conflittuale con l’impetuosa crescita del Sindacato bolivariano UNT che sta diventando maggioritario in molti comparti, scalzando il sindacato storico gestito dall’oligarchia che si oppone al processo di cambiamento attuato da Chavez e dalla coalizione che lo sostiene. Un’eccezione è rappresentata dalla Bolivia perché qui, quando negli anni scorsi furono chiuse le numerose miniere, migliaia di lavoratori con una tradizione di lotta e di organizzazione sindacale andarono a lavorare in altri settori come la coltivazione della coca o nelle fabbriche. Gli operai di Cochabamba o La Paz hanno partecipato alle lotte pur guidate da altri settori. In Uruguay c’è un movimento sindacale importante che lotta contro un 20% di disoccupazione ma è molto diviso tra un settore concertativo e un altro combattivo che ha indetto degli scioperi generali ma potendo contare su uno scarso appoggio da parte del Frente Amplio, una coalizione di partiti di sinistra da alcuni mesi al potere. Il condizionamento del centrosinistra sui sindacati uruguayani paralizza la loro capacità di intervenire sulla macroeconomia e li costringe a scioperi generali quasi simbolici. In tutta l’America Latina il settore più combattivo della classe lavoratrice spesso non è rappresentato dagli operai di fabbrica ma dagli impiegati pubblici: medici, maestri ecc. In Ecuador il sindacato più combattivo era quello dei petrolieri che avevano una grande capacità di mobilitazione ma poi appoggiarono il governo di Gutierrez che ad un certo punto li ha emarginati dall’amministrazione; essi hanno risposto con uno sciopero generale ma Gutierrez ha scatenato la repressione e ha imprigionato tutta la direzione del sindacato sostituendo i dirigenti dell’impresa petrolifera statale con i militari. Il risultato è che il sindacato è molto indebolito perché ha commesso l’errore della maggior parte dei movimenti sociali smettendo di perseguire una politica indipendente di classe per affidarsi alle politiche di coalizione gestite da partiti istituzionali. Fino ad oggi, tranne che nell’esperienza venezuelana, i movimenti sociali latinoamericani non sono stati capaci di gestire il governo direttamente, ed hanno dovuto delegare il potere a degli esponenti delle classi dominanti ritenuti illuminati ma che poi si sono rivelati, come nel caso di Gutierrez, subalterni agli interessi delle grandi multinazionali e dei governi dei paesi europei e degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti, di fronte alla prospettiva di perdere completamente il controllo del cosiddetto “cortile di casa”, aumentano la propria aggressività in America Latina, ma così facendo finiscono per provocare una reazione ancora maggiore da parte non solo delle classi popolari e povere, ma anche di alcuni settori dei ceti urbani scontenti di dover subire l’imposizione di Washington. La principale contraddizione nel mondo di oggi è tra l’imperialismo e i popoli del cosiddetto Terzo Mondo, e questa contraddizione si sta acuendo perché la strategia di dominazione degli Stati Uniti è basata sull’uso della guerra e ciò genera reazioni da parte dei popoli aggrediti e di tutti quelli dell’emisfero sud del pianeta. Bisogna rendersi conto che gli Stati Uniti non possono vincere, che non esistono le condizioni materiali per una vittoria di Washington in Iraq, e neanche in America Latina.

Note

* Giornalista Radio Città Aperta