Perché la guerra infinita

Salvatore Distefano

“Escalation - Anatomia della guerra infinita” di Alberto Burgio, Manlio Dinucci e Vladimiro Giacché, casa editrice DeriveApprodi, 2005, euro 13,50, è un libro molto coraggioso. Un testo accessibile ed essenziale, scritto a più mani ma organico e coerente, che va controcorrente in un mondo segnato dal conformismo omologante; al tempo stesso, è la dimostrazione concreta che non siamo in presenza di un “pensiero unico”, ma di un pensiero dominante, quello borghese, che però è possibile contrastare attraverso l’analisi rigorosa e la denuncia argomentata e scientifica. Un’operazione di verità indispensabile per contrastare il “senso comune” e interloquire con quella parte, ampia, dell’opinione pubblica che nel suo immaginario collettivo vede gli Stati Uniti come il paese della libertà e della democrazia. Invece, c’è un’altra America. E rovesciando il rapporto tra apparenza e realtà, si tenta il superamento dell’azione “scientifica” di disinformazione rivelando ai lettori, che si spera siano molti specialmente tra i giovani, che la libertà di stampa è stata quasi spenta, dopo “la lezione del VietNam”, proprio in uno dei paesi che da sempre ne ha fatto vanto. Riemerge, quindi, la questione del “fronte interno” (basti pensare a tal proposito alla Prima guerra mondiale), che dev’essere mobilitato e schierato a favore della guerra: ciò significa controllo dell’informazione e sua costante manipolazione. I media diventano così funzionali al rovesciamento della verità fattuale, fino ad affermare orwellianamente che la “guerra è pace”; inoltre, lavorano per instillare indifferenza e disinteresse, portando la gente a forme, che il libro evidenzia lucidamente, di “mitridatizzazione”. Scopriamo, allora, ed è questa una tesi portante di “Escalation”, che il Terzo Millennio non è cominciato all’insegna della pace e della felicità; anzi, la guerra diventa elemento costante, normale, appunto “infinita”. Risulta così incontrollata e devastante, al contrario di quanto avveniva col bipolarismo, quando l’Unione Sovietica fungeva oggettivamente da contrappeso all’aggressività imperialista degli USA; non per caso in quel contesto mondiale abbiamo assistito a processi di liberazione nazionale, decolonizzazione ed emancipazione tanto da costringere l’America e l’intero Occidente ad una crisi profonda dalla quale riuscì a venir fuori con il reaganismo-teachterismo, peraltro avvantaggiato dalla caduta del “socialismo reale” nell’era del gorbaciovismo. L’altra tesi che il libro smonta concerne il terrorismo. Non solo perché il terrorismo non è equiparabile alla guerra, ché in tal modo dimenticheremmo tutto il dibattito sulle sue vere cause e scivoleremmo sul piano inclinato della “follia” e della “pulsione di morte”, ma soprattutto per la ragione essenziale che lo stesso 11 settembre mostra aspetti a dir poco oscuri e inquietanti, come del resto hanno scritto a chiare lettere molti intellettuali in America e in Europa. Il passaggio sul terrorismo è esplicito: “11 settembre 2001, l’uso economico del terrore”; si nega, dunque, tutto ciò che viene in gran parte teorizzato, per non farsi irretire nel coccodrillismo dilagante e, al contrario, dare fondate spiegazioni. Ed è per questo che si sottolinea il nesso tra finanza e terrore squadernando il funzionamento del sistema finanziario internazionale, nell’ambito del quale si scopre “che i finanziatori di bin Laden e dei talebani erano, sino al 2001, gli stessi Stati Uniti e Stati “amici” come il Pakistan e l’Arabia Saudita. Nel solo anno 2001 gli USA versarono al governo dei talebani 124 milioni di dollari”. L’11 settembre diventa pertanto lo strumento per risolvere una crisi già in atto, classica crisi di sovrapproduzione, reclamando un ruolo attivo dello Stato per quanto riguarda, ad esempio, i contributi e il taglio delle tasse alle imprese. Si può dire che l’attentato offre l’opportunità al governo USA “di giocare un ruolo attivo nella gestione della crisi economica in atto”: dall’impulso dato al processo di concentrazione dei capitali, alle riduzioni delle tasse per 100 miliardi di dollari e sgravi fiscali per le imprese e per i capitali; ma soprattutto il rilancio in grande stile delle spese militari, vero keynesismo di guerra, o meglio “militarismo economico”: categoria interpretativa indispensabile per comprendere che, purtroppo, la guerra fa bene all’economia USA. Dunque, dal welfare al warfare: l’economia USA è “drogata” dalla produzione bellica e le spese per gli armamenti reggono una parte sostanziosa dell’industria americana. È evidente che nel libro la guerra mossa dagli Stati Uniti all’Iraq ha un posto centrale, anche se il lavoro di Burgio, Dinucci e Giacché non parla solo ed esclusivamente dell’Iraq, dove peraltro la famigerata “guerra preventiva” (ferita che ha pochi precedenti nella storia del diritto internazionale) ha sin qui provocato diecine di migliaia di morti, nonché la quasi totale distruzione del Paese (a proposito: quante Falluja ci dovranno essere affinché i nostri democratici si sveglino dal “sonno dogmatico”? Di più: perché si continua in modo razzista a considerare un morto occidentale più importante di un morto di qualsiasi altra parte del mondo?), senza che si siano trovate quelle armi di distruzione di massa che secondo gli USA erano situate nel territorio iracheno. Né, a questo proposito, può essere taciuto il servilismo del governo italiano e della stampa nazionale, che partiti lancia in resta sulla base delle veline fornite dalla CIA, non si sono mai autocriticati nonostante il palese fallimento della strategia yankee. Per non parlare delle elezioni farsa, del previsto ritorno della Shariah, della democrazia che non si è mai vista, e della disumanità di coloro che professano i diritti umani. Ed è grazie alla resistenza del popolo iracheno che gli imperialisti americani si sono fermati nella loro politica di aggressione di altri Stati della regione, i cosiddetti “stati canaglia”, poiché la strategia neo-con, che vede in Bush l’esecutore infaticabile, contempla il controllo di un’area vastissima, di cui l’Iraq fa parte, che faccia da perno per il dominio dell’intero pianeta. Del resto, l’approccio geopolitico è la chiave del saggio che apre il volume, quello di Manlio Dinucci, che spiega con puntualità come la fine della guerra fredda, che lo studioso fa sostanzialmente coincidere con il crollo dell’URSS di Gorbaciov, abbia significato un riorientamento strategico statunitense, che attribuisce all’Asia grande rilevanza, riorientamento teso al controllo delle risorse, secondo un modello di potenza globale che fa diventare la guerra un evento ordinario infrangendo le regole che gli stati e gli organismi internazionali in qualche modo avevano tentato di darsi almeno dalla fine della seconda guerra mondiale, cioè dopo l’assalto hitleriano al mondo intero. Torna così attuale la categoria dell’imperialismo per comprendere la politica di aggressione e di conquista degli Stati Uniti, ma al tempo stesso la resistenza che essa incontra negli stati che vogliono intanto affermare i loro interessi, di là da realtà identificabili con sistemi statuali socialisti. L’economia USA e le sue dinamiche perverse è approfonditamente analizzata da Vladimiro Giacché, che spiega il business della guerra: “[...] per le industrie degli armamenti la guerra è essenziale tanto perché fornisce alla merce-armi il momento del consumo, e quindi ne rialimenta la produzione, quanto per il fatto di rappresentare un terreno ideale di sperimentazione di nuove armi e di dimostrazione della loro efficacia per i potenziali acquirenti”, e il business della ricostruzione, “dopo aver lucrato sulla distruzione di un paese, è possibile lucrare anche sulla sua ricostruzione”, nell’ottica del controllo del petrolio iracheno da parte delle multinazionali americane per accaparrarsi risorse, ma anche per indebolire i paesi fortemente dipendenti, come il Giappone e la Cina. Con altrettanta chiarezza Giacché ci rende edotti sulle dinamiche valutarie dollaro/euro affermando la guerra all’Iraq è “un capitolo della guerra tra dollaro ed euro” e può definirsi “la prima guerra degli Stati Uniti contro l’Europa”; ciò vuol dire che la crescita USA è fondata sul debito e, in particolare, è l’Asia che paga il burro e i cannoni americani. Ce n’è abbastanza per dire che lo scenario mondiale si presenta drammaticamente complesso e che i prossimi anni potrebbero essere forieri di crisi epocali se i popoli non riprenderanno la parola e impediranno ai potenti di dominare il mondo. Il saggio di Alberto Burgio affronta la questione degli effetti della guerra sulla società americana (“la grande trasformazione”) e descrive in maniera encomiabile la polverizzazione della democrazia statunitense, svigorita dalla spirale precarietà-paura-repressione-consenso, che potrebbe aprire la strada ad altre involuzioni in Occidente. Del resto, il regresso autoritario e bellicista del sistema statunitense sembra la “soluzione” alla crisi dei capitalismi moderni, testimoniato dalla militarizzazione delle relazioni sociali ed internazionali. Questo perché l’economia liberale non può mantenere ciò che promette; infatti, dietro il miraggio cosmopolita vi è una insostenibilità dei livelli preconizzati con la conseguente reazione antidemocratica, che si evidenzia per il tramite dell’autoritarismo plebiscitario, dello smantellamento della proprietà pubblica della ricchezza sociale, e attraverso “l’egemonia” culturale. Negli USA siamo dunque in presenza di uno svuotamento del sistema democratico: non per caso Burgio individua un aspetto essenziale dell’escalation nella sempre più sfuggente distinzione tra “dentro” e “fuori”: la negazione del diritto internazionale ha il suo completamento, per dir così, nella soppressione dei diritti civili all’interno degli stessi Stati Uniti. La ricreazione è finita: la militarizzazione della società americana produce i suoi effetti nefasti, oltre che in campo internazionale, in politica interna laddove il presidente Bush ha potuto concentrare nelle sue mani un potere che non ha eguali nella storia del Paese; e la sua rielezione non lascia presagire nulla di buono a quanti si preoccupano della pace nel mondo. A farne le spese sono soprattutto i settori più deboli della società d’oltreoceano, sempre più frantumata, cui sono negati i diritti elementari (pensioni, scuola, sanità). Di più: i “dissidenti” sono soggetti a repressione e detenzione preventiva, la pratica della tortura non è rinnegata, senza che l’opinione pubblica, resa indifferente e assuefatta, riesca a fermare le misure liberticide. E la libertà? Subisce una sorta di trasfigurazione e ideologizzazione (nel senso di falsa rappresentazione del mondo); invece della libertà c’è l’esaltazione del libero mercato, da intendere però, fa capire Burgio per il tramite di dati chiari e inequivocabili, come “la politica della deregolamentazione, della eliminazione di vincoli al potere delle imprese, della cancellazione di limiti all’acquisizione privata di risorse e alla prevaricazione nei confronti dei subalterni, a cominciare dai soggetti messi al lavoro”. Ne viene fuori un quadro di massacro sociale, segnato dalla politica di zero tolerance, nel quale la divaricazione di classe è via via più marcata tra chi accumula gigantesche ricchezze e chi è costretto a vivere in condizioni subumane. Ma gli USA, piuttosto che risolvere le drammatiche questioni sociali, muovono guerre e altre ne preparano perché trovano nella guerra la soluzione della loro crisi economica, così come è avvenuto in altri momenti storici per altre potenze mondiali: la guerra, parafrasando Clausewitz, come la “continuazione dell’economia con altri mezzi”. Come mezzo, cioè, per risollevare l’economia, per aprire mercati non ancora disponibili e conquistarli, per garantirsi il controllo di materie prime fondamentali, per vincere la guerra mondiale delle valute. Si può ancora essere ottimisti, di fronte a uno scenario così fosco? Sì, se si guarderà ai processi storici senza quel determinismo che rende impotenti e incapaci all’azione politica trasformatrice; sì, se i popoli e gli stati torneranno protagonisti; sì, se si uniranno ragione e passione, necessarie per coltivare la ragionevole speranza della kantiana “pace perpetua”.

Note

* Presidente Ass. Etnea Studi Storico-filosofici.