La Val di Susa e la Valle Mondo.

NICOLA CASALE

Resistenze e conflitti nella contraddizione capitale-ambiente

Contro il passaggio del Treno ad Alta Velocità in Val di Susa si è espressa una ferma e massiccia opposizione della popolazione locale che ha imposto al governo uno stop dei lavori. Una vittoria non definitiva e, tuttavia, densa di significati per chi vi ha partecipato e deve ora affrontare la successiva fase di scontro, e per chi, per motivi geografici, non c’era fisicamente ma l’ha seguita con vivo interesse. Riflettere sui contenuti, le modalità e i passaggi di questa lotta è, dunque, utile per entrambe le parti. Questo articolo vuole essere un contributo alla riflessione e, allo stesso tempo, vuole contribuire a indagare se vi siano in questa lotta indicazioni di valore più generale, che vadano oltre la Valle e oltre la lotta contro il Tav.

1. La vita immolata al profitto

Cominciamo dalla domanda: qual è l’obiettivo del movimento? Il governo e la maggioranza del centro-sinistra l’accusano di voler impedire la costruzione del corridoio 5, ossia di un asse Lisbona-Kiev ritenuto fondamentale per facilitare la mobilità delle persone e delle merci in Europa. Il movimento, invece, non ha espresso contrarietà al corridoio, né si è opposto al suo passaggio nella Valle. Si è limitato a contestare che il modo più conveniente per farcelo transitare sia quello dell’Alta Velocità e Alta Capacità (che si riferisce ai volumi di merci trasportabili). Per determinarne la convenienza sono stati considerati sia gli investimenti necessari alla costruzione del tratto, sia le conseguenze sull’ambiente e sulla salute delle popolazioni. Nel corso della lotta, come vedremo più avanti, il movimento ha sviluppato anche una critica più generale all’Alta Velocità/Capacità, ma non ha mai posto tra i suoi obiettivi una lotta contro il corridoio 5, bensì, appunto, unicamente quello di impedire che l’attraversamento della Val di Susa sia fatto con il Tav/Tac. In alternativa, infatti, ha proposto di ammodernare e rafforzare la linea ferroviaria esistente. Perché questo obiettivo? In un lungo e approfondito esame delle condizioni tecniche, ambientali ed economiche del progetto, con l’ausilio di esperti che hanno prestato per lo più senza compenso il proprio contributo, il movimento è giunto alla conclusione che i costi per l’ambiente e per la salute sono enormi e non sono giustificati da ricadute positive. Quindici anni programmati di lavoro, scavo e movimentazione di milioni di tonnellate di terra piena di uranio e amianto, centinaia di migliaia di viaggi per il trasporto dei materiali di risulta, costruzione di strade per la realizzazione dell’opera, variazioni d’uso di terreni, manomissione delle falde acquifere, ecc., comporteranno la devastazione del territorio e un gigantesco inquinamento ambientale e acustico. A fronte di tutto ciò non è sicura neanche la diminuzione del traffico di merci su strada. Per dimostrare la positività di questa ricaduta i sostenitori dell’opera presentano, infatti, dati di pura fantasia sull’incremento del traffico di merci sul valico. Negli ultimi anni il traffico è addirittura diminuito e, quand’anche crescesse ai ritmi previsti dai progettatori dell’opera, potrebbe essere tranquillamente smaltito dalla linea esistente, qualora fosse rimodernata. L’opera insomma non è giustificata da un incremento di traffico viaggiatori, né dall’incremento del traffico merci e persino il risparmio nei tempi di percorrenza sulla tratta Lione-Torino è artatamente gonfiato. Se lo si calcola sulla velocità teorica massima del treno dà un risultato, se lo si calcola sulla base di variabili reali (snodi di carico e scarico, manutenzioni delle gallerie e delle linee -per questo motivo il Tav francese di notte chiude-, ecc.) il risultato è meno della metà. Per guadagnare una manciata o due di minuti tra Lione e Torino, si vuole devastare la Val di Susa e attentare alla salute della gente che vi abita. E senza alcuna certezza che si riduca l’inquinamento provocato dal trasporto su ruota. A tale ultimo proposito, peraltro, lo scoglio vero è quello di “costringere” i trasportatori a caricare i loro veicoli sui treni, per esempio, ha suggerito qualcuno, smettendola di dare contributi sul consumo del gasolio per trasporto. Questa opera inutile e devastante avrebbe così l’unico grande pregio di erogare 15 miliardi (per ora!) di euro pubblici ad alcune aziende selezionate per l’affare. Che le grandi opere siano solo un modo per trasferire denaro dalle finanze pubbliche (ossia dalle tasche dei contribuenti) ad alcune grandi aziende e ai mediatori finanziari (banche, assicurazioni, fornitori di servizi più o meno “avanzati”) non è una conclusione “importata” nella testa dei valligiani da un qualche nugolo di comunisti proveniente dall’esterno e ideologicamente avversi al capitalismo, ma una conclusione cui i valligiani sono giunti grazie al lavoro di indagine e di studio di cui sopra (non c’è ormai abitante della Valle che non sia in grado di tener testa al fior fiore di “esperti” sostenitori della AV/AC!). Allo straordinario laboratorio d’apprendimento e di elaborazione i valsusini ci sono giunti non per particolari doti “locali”, ma sospinti solo dalla percezione che l’opera metta a rischio la loro vita. “Resistere per esistere” il loro più significativo slogan. Un’opera, dunque, che realizzerà un mastodontico trasferimento di risorse dalle già disastrate casse pubbliche ai profitti di pochi. Vale la pena immolare la propria vita e la propria salute per un tale obiettivo?

2. Soggetto che consuma o oggetto consumato? Alla resistenza popolare i fautori trasversali della AV in Val di Susa hanno reagito denunciando il “gretto egoismo” dei valligiani, che per difendere la loro tranquillità, bloccano lo sviluppo dell’intero paese. Il movimento ha dovuto, di conseguenza, misurarsi con questo attacco. E lo ha fatto interrogandosi sul significato dello “sviluppo” proposto. Ne è emersa una discussione che ha prodotto una coscienza diffusa sul significato dello sviluppo propugnato dai fautori della AV. Il suo presupposto è di muovere milioni di tonnellate di merci a velocità parossistica da un capo all’altro del mondo. L’obiettivo è di trasformare i territori in reticoli di arterie per il trasporto e in grandi supermercati per il consumo di merce prodotta altrove. Non solo merce con particolari caratteristiche, ma anche merce (come l’acqua, i prodotti agricoli e agro-alimentari e svariati altri) che può essere prodotta ovunque. Si spogliano i territori delle loro capacità produttive e li si trasforma in reti viarie e in agglomerati di individui-consumatori, con il motivo ufficiale di rifornirli di merce a basso costo per elevare il loro benessere economico. Ma il costo è basso solo apparentemente, perché se si computano i costi sociali e ambientali (l’energia consumata, l’inquinamento, lo smantellamento di attività produttive, ecc.) l’individuo-consumatore risparmia ma l’individuo-umano ci rimette sotto ogni riguardo: come contribuente costretto a finanziare la manutenzione dell’ambiente naturale devastato, come essere vivente cui vengono inquinate tutte le fonti primarie di vita fisica, come individuo-sociale affogato nella socialità alienante del consumo a tutti i costi, come individuo-lavoratore che, senza lavoro o con lavori pagati poco, troverà difficile anche acquistare quella famigerata merce a basso costo. In buona sostanza, grandi profitti per le aziende costruttrici e trafficanti, costi enormi, sul piano economico e della vita, per tutto il resto della comunità. Il legame tra grandi opere, consumi, distruzione dell’ambiente naturale e sociale non è stato “importato” da un qualche nucleo di ambientalisti-marxisti “dall’esterno” della Valle, ma è stato il prodotto “spontaneo” nella coscienza di una comunità che, costretta a porsi il problema della propria sopravvivenza, ha rimesso in discussione tutti i principi dello sviluppismo propagandato da Berlusconi, scoprendo, nel contempo, come sia spaventosamente simile allo sviluppismo propagandato da Prodi-Fassino & C.

3. Promesse che non seducono più

Nel panorama delle proposizioni del movimento si è andata facendo spazio, sotto diversi aspetti, anche quella che riguarda in modo diretto i lavoratori. Per rintuzzare il punto più acuto di attacco politico e militare il movimento ha dovuto imprimere forza e peso maggiori alla sua resistenza e lo ha fatto ricorrendo all’arma dello sciopero. Con ciò gli individui-lavoratori scendevano in campo in modo collettivo e mettevano la loro organizzazione e la loro classica forma di lotta al servizio di tutta la popolazione della Valle: bloccare tutte le attività produttive, amministrative, commerciali, ecc., astenendosi dal lavoro e ostacolando la circolazione stradale e ferroviaria. Questa azione collettiva oltre a offrire al movimento un nuovo potente mezzo di lotta, vi ha aggiunto anche un ulteriore tassello politico: quello sbandierato sviluppo si fonda anche sulla perdita dei diritti collettivi e sull’aumento dello sfruttamento del lavoro. Il contributo delle organizzazioni sindacali extra-confederali, della Fiom e di pezzi locali della Cgil è stato decisivo per favorire questo connubio. Ha apportato nuova linfa al movimento generale, ma ne ha anche ricevuta da esso. La stessa lotta contrattuale dei metalmeccanici è divenuta, all’improvviso, più “sentita” e “partecipata”, perché come diceva un delegato a una radio: contratto e no-Tav sono entrambe “lotte per la vita”. Curioso, ma solo a una lettura superficiale, il fatto che numerosi padroni e padroncini non si siano opposti, ma abbiano, anzi, favorito gli scioperi (chiedendo, magari, consiglio a quella Fiom tenuta fino ad allora rigorosamente fuori dai cancelli) per consentire ai lavoratori di partecipare ai presìdi, e corrispondendo, talvolta, il salario anche per le giornate di sciopero. La partecipazione attiva dei lavoratori è molto importante anche sotto un altro riguardo. Essa, infatti, dimostra che in Val di Susa non ha funzionato lo scambio tra occupazione e libertà di brutalizzare l’ambiente naturale e sociale. Certo, la fame di lavoro non è così alta in Val di Susa e, comunque, l’incremento di occupazione legata ai lavori del Tav non riguarderebbe in misura significativa i residenti, tuttavia per un interminabile secolo i lavoratori non hanno elevato la benché minima protesta contro lo sviluppismo capitalista nella convinzione di riceverne, nel bene e nel male, effetti positivi sul piano occupazionale e salariale. L’incrinatura di questo “scambio” non deve essere, poi, fatto solo valsusino se è vero, come è vero, che tante piccole Val di Susa (contro inceneritori, discariche, centrali, antenne, ecc.) sono diffuse su tutto il territorio nazionale, europeo ed americano e anche dalle parti del confine argentino-uruguagio (dove i tassi di disoccupazione non sono valsusini!) ci si oppone a due stabilimenti di produzione della carta che promettono 5.000 posti di lavoro, ma che minacciano di inquinare i fiumi e le falde acquifere.

4. Limite invalicabile

La lotta contro il Tav/Tac sorge, dunque, dal fatto che viene messa a rischio la sopravvivenza degli individui e dell’intera comunità di cui fanno parte. Nel corso della lotta, e per la necessità di fare i conti con le argomentazioni dell’avversario, viene emergendo un quadro politico che non si limita a contestare il progetto specifico Tav, ma contesta la logica che lo sottende, ovvero la logica di uno sviluppo che persegue il profitto di pochi ai danni della vita della maggioranza delle popolazioni. Per evitare facili semplificazioni diciamo subito che non siamo dinanzi a una coscienza “anti-capitalista”; non è che i valsusini siano diventati dei coscienti militanti contro il sistema capitalista. No, essi si limitano a mettere in discussione i caratteri dello sviluppo capitalistico, pensando, probabilmente, di poterlo correggere, ossia di poterlo volgere agli interessi della popolazione senza con ciò condannare l’intero sistema. Il loro movimento si potrebbe definire, con termine oggi stravolto dall’uso fattone dalla politica istituzionale, “riformista”. Nella storia del movimento operaio “riformista” era, inizialmente, colui che aspirava a un cambiamento di sistema, dal capitalismo al socialismo, attraverso l’introduzione di riforme sempre più audaci. Successivamente “riformista” era colui che messo da parte l’obiettivo finale del socialismo (salvo che nei comizi della domenica) aspirava, al massimo, a introdurre delle correzioni al sistema capitalista, senza perseguire più il fine di cambiarlo radicalmente. In Val di Susa non si aspira al primo, e, a ben vedere, non si aspira coscientemente neanche al secondo di questi obiettivi. In verità, non ci si perde in discussioni sui “massimi sistemi”, verso i quali si nutre, come dappertutto, un certo scetticismo, soprattutto dopo le esperienze pratiche di “socialismo reale” e di “lotta per il socialismo”. Si partecipa, più concretamente, a una critica pratica su alcuni punti specifici del sistema attuale per delineare delle soluzioni di questi problemi specifici che siano rispettose dell’ambiente e della vita umana. In questo percorso di elaborazione collettiva emergono anche le linee di fondo di un sistema diverso di produzione/scambio e di relazioni sociali, ma, piuttosto che dedicarsi a sistematizzare queste linee in un programma generale compiutamente alternativo, ci “si limita” a lottare praticamente per quel che è ritenuto indispensabile e non rinviabile. Una forma, dunque, di “riformismo” diversa da quelle che l’hanno preceduta. Diversa anche nel significato che assume la parola “compromesso”. Nel riformismo classico il compromesso era tra ciò che si rivendicava e quanto era “possibile” ottenere in virtù dei rapporti di forza messi in campo, qui si pone al compromesso il limite invalicabile delle esigenze vitali sulle quali non si è disponibili a transigere. Nel riformismo classico in discussione era il quantum di benessere materiale si riusciva a strappare al sistema, di conseguenza le lotte assumevano inevitabilmente un carattere di ridistribuzione del plusvalore sociale prodotto. Il compromesso era, per la natura stessa della cosa, mobile, elastico, dipendente, appunto, dai rapporti di forza sul campo. Nel riformismo attuale in discussione è la possibilità stessa della vita. Il sistema capitalista la mette sempre più apertamente al centro delle sue attenzioni, nel senso che il suo ulteriore sviluppo può realizzarsi unicamente suggendo fino all’ultima goccia di sangue dell’organismo umano, nelle forme più varie e molteplici: non più solo sfruttamento della forza-lavoro, della capacità lavorativa, ma sfruttamento di ogni istante della vita, di ogni sua funzione e, addirittura, della vita stessa, attraverso la distruzione dell’ambiente e l’immolazione delle vite umane al suo meccanismo di sviluppo. E questo è un limite invalicabile. Qui, in questa particolare forma di riformismo delle masse, non si discute più delle quantità da ridistribuire, ma, in ultima istanza, della possibilità o meno di sopravvivere. La necessità di resistere per esistere non mette automaticamente in campo un’”altra” prospettiva, ma suscita una resistenza che, per ora, si “accontenta” di difendere il limite invalicabile (la vita), ammettendo la possibilità che questo limite possa essere garantito anche da una gestione diversa del capitalismo, ossia da una sua riforma. Su questo terreno (la conciliabilità tra difesa della vita umana e capitalismo) si apre una dinamica che, potenzialmente, può dire l’ultima parola sulle sorti del sistema capitalista. Questa particolare forma di riformismo di massa non è visibile solo nella lotta della Val di Susa, ma in ognuna delle lotte sociali e politiche che si vanno sviluppando da circa un decennio in tutto il mondo. Nessuna di queste lotte si assegna il compito di rivoluzionare il sistema, anzi ognuna di esse tiene ben ai margini chiunque propugni una qualche “grande narrazione” a tale proposito, pur tuttavia ognuna di esse individua un limite oltre il quale non è disposta ad andare e pone, con ciò, una sfida al capitalismo, mettendolo alla prova nella sua capacità di svilupparsi rispettando la vita umana, e, di conseguenza, pone una sfida anche a sé stessa, dovendo, prima o poi, risolvere in altro modo, senza e contro il capitalismo, il problema della tutela e del miglioramento della vita umana individuale e di specie, dell’intera comunità umana.

5. Contro i presupposti del Tav

Il conflitto parte, dunque, da questioni specifiche, ma tende a diventare immediatamente più “generale”, il che non vuol dire ideologico, del tipo capitalismo contro comunismo o altro, ma essenzialmente pratico e, quindi, politico. Proviamo, per esempio, a seguire ulteriormente il percorso che si dipana dalla serie di acquisizioni di coscienza di cui abbiamo già parlato per la Val di Susa. Ne sintetizziamo alcuni passaggi, con l’avvertenza che non si tratta di una coscienza diffusa capillarmente a livello di massa, ma che, a ogni buon conto, si tratta di acquisizioni di “gente comune”, ovvero non di militanti politici previamente orientati da una qualche preparazione teorico-politica. Se il Tav è affare per pochi, si argomenta, esso, tuttavia, poggia su una serie di attitudini di massa. Una vera lotta contro il Tav, dunque, richiama una lotta contro tali attitudini. Detto altrimenti: non è realistico opporsi al Tav se, poi, si partecipa all’ansia parossistica di consumo. È sulla base di questa filosofia che, oltre al Tav, si sperpera energia prodotta dalla combustione di fossili, con il corollario di centrali grandi per consumo e per sprechi, di elettrodotti inquinanti e sperperanti, si producono masse di rifiuti velenosi e ingestibili. E sempre per soddisfare queste esigenze si precarizza il lavoro, si aumenta lo sfruttamento, si fanno guerre e si opprimono altri popoli. Una vera lotta contro il Tav deve, dunque, fare il “salto politico” di diventare lotta contro tutti quei presupposti della società del consumo parossistico che sta alla base del Tav, delle spreco delle risorse comuni, e persino della guerra d’aggressione ai popoli che hanno l’unica colpa di risiedere su immensi giacimenti di petrolio. Tutto è maledettamente legato da un solido filo. Dal Tav alla guerra il percorso è molto più breve di quel che si potrebbe, di primo acchitto, ritenere. 6. Azione, partecipazione, controllo Che fare, allora? Aderire a un qualche partito che promette per un domani più o meno vicino la “presa del potere” e la trasformazione di tutta la società? Dal movimento della Val di Susa (e non solo da esso) viene avanti un discorso che tende a porre la questione in modo più “concreto”, cercando, cioè, di evitare di aderire a delle prospettive millenariste che hanno già dato pessima prova di sé. Concreto nel senso di voler vedere “subito” dei risultati, e, soprattutto, nel fatto di vederlo marciare sulle gambe di tutti. Non un programma general-generico affidato a qualcuno, dietro cui disciplinarsi senza avere alcuna certezza che lo rispetti con coerenza, ma un programma specifico di obiettivi sui quali ognuno può dare un contributo di partecipazione e, perciò stesso, conservare uno stretto controllo sul suo procedere. Partecipazione diretta e controllo diretto delle pratiche e degli obiettivi caratterizzano anche la gestione politica della lotta. Non c’è stato momento della mobilitazione che non sia stato deciso direttamente dai partecipanti, in un processo di coinvolgimento democratico che ha costantemente escluso la delega a chicchessia. La diffidenza verso il meccanismo della rappresentanza politica non è certo nata in Val di Susa. Si tratta di un fenomeno molto più generale ed esteso, sul quale, tanto per dire, gioca un Berlusconi, allorquando si propone come l’anti-politico che sbeffeggia tutte le istituzioni (partiti, sindacati, Confindustria) che si rivendicano interpreti di interessi generali, ma che, in ultima istanza, mettono gli interessi generali al servizio di pochi privilegiati. Berlusconi, da vero animale politico, raccoglie la diffidenza di massa verso la politica e verso il meccanismo della democrazia rappresentativa e cerca, seguendo un istinto di classe prima che personale, di piegarlo nel senso di emarginare la “politica” (qui intesa come arte della mediazione tra interessi contrastanti di classe) a vantaggio della pura amministrazione secondo le leggi “oggettive” del mercato. Dalla Val di Susa viene una soluzione allo stesso problema di segno diametralmente opposto: la politica è marcia perché è basata sul meccanismo della delega e della rappresentanza, e deve cedere il terreno a una politica basata sull’azione e la partecipazione attiva di massa, così come le leggi “oggettive” devono cedere il terreno alle esigenze vitali della comunità umana. Nella diffidenza verso il meccanismo della delega politica finiscono lo stato e i partiti istituzionali, ma, loro malgrado, vi finiscono anche i partitini extra-istituzionali. Essi non sono, al momento dato, tenutari di un potere reale, ma, non di meno, appaiono come aspiranti a un potere “per sé” in un domani più o meno prossimo. Non c’è da scandalizzarsi per quest’ultima considerazione, ed è del tutto inutile cercare di contrastarla semplicemente rivendicando una propria diversità dai partiti inseriti nel meccanismo democratico dello stato: lunghi decenni di dittatura di partito e di partiti proletari centralizzati e disciplinati hanno prodotto questo lascito, senza considerare, almeno in questa sede, quali e quante modifiche sostanziali siano intervenute anche nel rapporto individuo-classe-azione politica. Nel rifiuto della democrazia delegata finiscono, d’altronde, anche i sindaci schierati contro l’AV/AC. Questi rappresentano una parte delle istituzioni statali che si distacca da queste per avvicinarsi ai bisogni delle popolazioni. E vengono, perciò, accolti molto positivamente. Tuttavia anche a loro non si è disposti ad affidare la guida della lotta e numerosi sono gli episodi in cui le indicazioni dei sindaci non sono state seguite dal movimento. Tutti possono parlare ed esprimere le loro opinioni, ma nessuno può arrogarsi il titolo di decidere da solo. Ciò vale per tutti coloro che partecipano attivamente alla lotta, si tratti di partiti e partitini, di sindaci o di quella miriade di piccole organizzazioni di esperti e “di scopo”. La diffidenza verso la democrazia rappresentativa ha raggiunto il suo punto più elevato con il disvelamento del ruolo dello stato. Il tema dello stato è molto complesso e non si può pretendere di affrontarlo in poche righe, così come non si può pretendere che il suo “mistero” sia sufficientemente e definitivamente svelato da una singola lotta. Nonostante ciò, possiamo registrare per lo meno uno squarcio di coscienza apertosi nel corso della lotta. Questa, infatti, è nata nella convinzione che un movimento democratico basato su un vasto consenso dovesse, quasi per diritto naturale, essere preso in considerazione da parte dello stato, considerato il suo accreditarsi come l’organizzatore dei bisogni collettivi. Lo stato, invece, ha sistematicamente ignorato le ragioni di una intera popolazione, si è decisamente schierato dalla parte degli interessi affaristici e sviluppisti di una esigua minoranza della società e ha trattato la gente che lo finanzia e che si aspetta da lui il giusto rilievo come delle bande di scalmanati da sedare con la forza bruta dei suoi apparati militari. Uno stato sordo, distante e apertamente ostile, che non governa con l’inclusione e il consenso, ma con l’esercizio della forza. Per un cittadino comune, abituato a pensare che lo stato detenga la forza militare al solo scopo di dar protezione ai cittadini, non è di tutti i giorni scoprire che quella forza militare serve a proteggere lo stato... dai cittadini, dai loro bisogni e dai loro voleri. È molto indicativo anche il fatto che un movimento sviluppatosi su un terreno dichiaratamente pacifico e pacifista non ha esitato a tracimare su un terreno violento non appena ciò è stato indispensabile per tenere in vita la possibilità stessa della lotta. Una violenza, si potrebbe dire, poco violenta, preoccupata di non procurare male a sé stessi e agli altri, basata tutta sulla determinazione di massa, ma, non di meno, una ribellione violenta al comando violento dello stato.

7. Identità etnica?

Più d’uno ha negato alla lotta No-Tav della Val di Susa qualsivoglia valore generale, vedendovi, piuttosto, il segnale di recrudescenza di una tendenza identitaria e comunitarista, una sorta di rifiuto della globalizzazione con una chiusura nella propria “verde valle”. Molto opportunamente gli stessi valsusini fanno notare come la loro non sia una valle isolata, ma già integrata nei flussi di traffico transfrontaliero da diversi secoli, abbondantemente industrializzata e già partecipe del movimento operaio e della resistenza al fascismo. Persino dal punto di vista “etnico” un buon 50% degli abitanti non è originario della Valle, ma proviene da tutto il resto del paese (e, ormai, non solo). Se, dunque, si può parlare di comunità, lo si deve fare nel senso non di comunità “etnica” o geografica, ma, piuttosto, nel senso di comunità politica, che si è andata costituendo nel corso di una lotta comune su obiettivi comuni. E, inoltre, di una comunità politica che non si limita a difendere sé stessa, ma che, anzi, per difendere sé stessa si proietta verso l’esterno, non solo a ricercare solidarietà e alleanze, ma con un discorso politico unificante su esigenze e obiettivi che hanno una portata generale: difesa della vita e dell’ambiente, critica allo sviluppismo e alla logica del profitto, e cosi via.

8. Seattle, Genova, Porto Alegre... Val di Susa Se ci si limitasse a valutare le acquisizioni di coscienza politica, la determinazione alla lotta, l’organizzazione, la capacità di gestire una vicenda difficile, assumendo come orizzonte la sola Val di Susa, ci sarebbe da rimanere stupefatti: com’è possibile che tutto ciò si sia sviluppato in una Valle di circa 80.000 abitanti? Se si solleva lo sguardo oltre le vette dei monti che la racchiudono si potrà, invece, vedere come tutti i temi che sono stati propri del movimento da Seattle a Genova, a Porto Alegre, alle mobilitazioni contro la guerra fanno da fondamento alla lotta e ne ricevono, anche, un contributo notevole al proprio ulteriore sviluppo. Forse nessuno, o quasi, dei valsusini ha fisicamente partecipato ad alcuno di questi eventi, eppure ognuno di essi ragiona come se ne avesse appreso a menadito i contenuti fin dal loro nascere. In generale il movimento no-global e no-war sta attraversando, per lo meno in Italia, una fase di stasi, forse persino di riflusso, eppure la val di Susa dimostra come la sua breve e intensa stagione abbia lasciato sul terreno dei semi solidi, in grado di generare resistenze prima impossibili. Non tutto il merito va attribuito al movimento, è vero. Il merito principale, se così si può dire, va attribuito al capitalismo, perché nel suo procedere suscita contraddizioni sempre più esplosive e antagoniste. Contro di esse le forme di resistenza sviluppate dal movimento operaio nel secolo precedente dimostrano tutta la loro inadeguatezza. Inadeguate sono le forme del vecchio riformismo politico, che, non a caso, si ritira definitivamente da ogni sia pur pallida apparenza antagonista, limitandosi a ricercare per sé un problematico ruolo di neo-liberismo dal volto umano. Ma inadeguate si dimostrano anche le tendenze rivoluzionarie che si erano sviluppate nel seno di quel movimento operaio. Vuoi perché legate a una concezione dello sfruttamento sul lavoro come contraddizione principale, ed oggi vanno in affanno per la scomparsa (politica, non sociologica) del soggetto operaio. Vuoi perché affezionate a una concezione del rapporto avanguardia-masse in cui era sempre e soltanto l’avanguardia a “portare” la coscienza, la strategia e la tattica a una massa amorfa, capace, al più, di manifestare rabbia in impotenti moti “spontanei”. Vuoi per le due cose insieme. Alla crisi del vecchio movimento operaio, l’agitazione multiforme sviluppatasi con Seattle (ma non originata solo da questo evento) ha iniziato a fornire delle risposte, in termini di critica pratica, di lotta e di organizzazione, che, combinate con il procedere dell’esplosione delle contraddizioni capitalistiche sta dando vita a forme di resistenza, varie e diversificate se guardate a scala globale, ma, non di meno, dense di significato e di potenzialità antagoniste. Il percorso della costruzione di un nuovo antagonismo anti-capitalistico è già in marcia, con tutti i limiti, le difficoltà e le asprezze che ogni nuovo parto contiene in sé. Il suo procedere non è, al momento, tutto prevedibile, né si può sperare che la crescita del movimento - al di là dei rinculi e delle inevitabili fasi di stasi- possa da sola risolvere tutti gli enormi problemi che si trova dinanzi. Il concorso delle forze politiche che si dedichino non solo ai problemi immediati, ma anche a quelli di prospettiva, è, in ultima analisi, decisivo. Per questo aspetto i comunisti dovrebbero, in teoria, essere candidati a fornire un contributo importante. In generale ciò è possibile, purchè, però, si realizzi una condizione fondamentale: che essi sappiano raccogliere, in un certo senso imparare, come il mutare delle condizioni di sviluppo del capitalismo e di quelle di sviluppo dell’antagonismo, sottopongano a critica feroce non tanto la loro precedente esperienza storica, che, per molti versi, era comprensibile e giustificabile date le condizioni esistenti, quanto la convinzione che sia, oggi e nel futuro, sufficiente ripetere al meglio le esperienze fatte negli svolti precedenti del conflitto comunismo/capitalismo. Se era, tanto per dire, giustificato credere che, al di là dell’esito immediato delle lotte, il riformismo classico fosse l’arena per l’accumulo della forza proletaria in forme e contenuti suscettibili di trascrescere sul terreno rivoluzionario (...sempre ché ci fosse l’acconcia guida-partito...), oggi tale prospettiva è definitivamente saltata. Porta con essa in crisi il vecchio schema avanguardia-partito-massa, e pone su basi del tutto nuove anche la questione del ruolo del partito, dello stato, del potere. Imparare dalla nuova realtà comporta una partecipazione a fondo a quel che si inizia a muovere nel senso dell’antagonismo, e comporta uno sforzo profondo di apprendimento, di discussione e di studio. L’una e l’altro sono ugualmente indispensabili, e abbisognano di tutta l’umiltà e la dedizione di chi vuole contribuire davvero ad abbattere lo stato di cose presenti. Il movimento No-Tav è solo una delle tante occasioni in cui l’antagonismo anti-capitalistico ha iniziato a manifestarsi, a sperimentare i suoi percorsi e a costruire esperienza pratica e politica. Non si tratta, dunque, di attribuirgli chissà quale valore particolare. Del pari, il peso che una sua vittoria o sconfitta avrebbe sulla prosecuzione del processo di costruzione dell’antagonismo, pur se significativo non sarà, certo, decisivo. Ciò non di meno, la sua prosecuzione e il suo successo hanno una propria importanza. Esso ha una sola strada per vincere: estendersi e sviluppare la solidarietà attorno ai suoi obiettivi. Può farlo a condizione che riesca a proiettare le sue rivendicazioni al di là della Valle per cercare una solidarietà non di facciata, o tattica, ma fondata sui contenuti della sua stessa lotta: tutela della vita, dell’ambiente, della condizione di lavoro, messa in discussione della democrazia rappresentativa e della logica del profitto. Da parte sua il movimento No-Tav della Val di Susa sta già dedicando le sue energie per realizzare l’ampliamento del fronte di lotta. Un analogo interesse hanno tutti i soggetti che ne condividono gli obiettivi non solo per salvare dalla morte una valle, ma per difendere e salvare tutti gli abitanti della Valle Mondo.

Note

* Comitato lavoratori contro la guerra di Como.