“No” alla Costituzione europea, sommosse nelle periferie, mobilitazione contro il “CPE”.

Rémy Herrera

I tre tempi della ribellione francese (aspettando il seguito...)

1. Il “no” alla Costituzione europea: maggio 2005

L’Europa che si è costruita, dal 1957, senza tener conto dei suoi cittadini, è quella del grande capitale. Ed è a ciò che i francesi hanno detto “no” all’epoca del referendum sulla costituzionalizzazione del neoliberismo, il 29 maggio 2005. Questo “no” è un voto di classe, del mondo del lavoro: l’80% degli operai, il 67% degli impiegati, il 70% dei piccoli contadini, il 64% dei funzionari, il 66% delle coppie con reddito inferiore ai 1.500 euro, i tre quarti dei non diplomati, il 71% dei disoccupati e.... i giovani si sono mobilitati, massicciamente, per il “no”. Questo voto è il prodotto della coscienza e della resistenza delle classi popolari, la prima vittoria dell’unità dai grandi scioperi del 1995. Ciò che ha dimostrato il dopo-referendum, è il carattere totalmente fittizio della “democrazia” francese. La quasi totalità della classe politica tradizionale portava e supportava il progetto neoliberista europeo. Sono stati sconfitti tutti. Ma tutti sono rimasti al proprio posto: Chirac alla Presidenza della Repubblica, nonostante goda solo del 24% di opinioni favorevoli nei sondaggi del maggio 2005, Sarkozy alla guida del primo partito di destra (UMP), Hollande a quella del primo partito da “sinistra”... con Antonio Negri, sostenitore risoluto del “sì”, personalmente sceso in campo per prestar loro mano forte! Il cambio di governo, con l’arrivo del binomio Villepin-Sarkozy, è poco più della stessa cosa. Nella prospettiva della scadenza presidenziale del 2007, l’uno, Primo ministro, rastrellava “a sinistra” (lottare contro la “frattura sociale”, vecchio tema chiraquien), l’altro, Ministro degli Interni, a destra (ristabilire la sicurezza, asse del programma di Le Pen e dell’estrema destra); i due che convergono verso un più accentuato neoliberismo (attacchi contro il codice del lavoro), più repressione (espulsione degli stranieri clandestini) e, a dispetto delle apparenze, più sottomissione agli Stati Uniti, con l’insediamento di ministri filostatunitensi all’Economia, al Bilancio ed al Commercio Estero (più Sarkozy). Va tratta una serie di lezioni positive dalla vittoria del “no”. L’azione di base, fondamentale per piegare la linea dei sindacati e dei partiti. Uno dei punti forti della campagna è stata la ferma espressione dei militanti della CGT (Confederazione Generale del Lavoro, primo sindacato di lavoratori in Francia) inizialmente favorevole al “sì”, come la maggior parte dei leader sindacali europei, di opporsi alla Costituzione europea. Anche il PCF, la “direzione mutante”, abbandonata la sua posizione di classe per cedere alle lusinghe delle sirene socialdemocratiche, faceva infine la giusta scelta del “no”, d’accordo con la sua base. Risultato: il 98% dei comunisti l’ha condivisa. La linea del PS, simulacro di procedure democratiche e di manipolazione dei militanti, ha condotto invece, all’insuccesso. Questo partito ha votato “sì” al 55% nella consultazione interna per la pressione dei suoi quadri, e “no” al 59% al referendum quando i militanti sono stati liberi di votare secondo la propria coscienza. La vittoria del “no” ha aperto un’opportunità storica di unione del popolo di sinistra, per la prima volta, forse, nel nostro paese. Ma questa unione comporta anche dei rischi. Uno di questi rischi è quello di un blocco della dinamica di trasformazione e di riunificazione attivata dalla vittoria della sinistra. Questo blocco costituirebbe una barriera nel caso di un’alleanza del PCF, nell’ottica del 2007, con la direzione “pro-sì” del PS, “destrizzato”, neo-liberista, atlantista, strategia che permette di salvare un pugno di parlamentari, ma che ha fatto perdere la sua forza al partito. Parimenti in caso di alleanza dei trotzkisti (Lega Comunista Rivoluzionaria) coi “dissidenti” del PS, con colui che gli sconfitti del 29 maggio presentano come il vincitore del “no” di sinistra: Fabius, che, 20 anni fa, consegnò il paese agli speculatori neoliberisti e la cui visione internazionale non va oltre il sostegno ai sionisti ed ai controrivoluzionari cubano-venezuelani. La trappola tesa alla sinistra dal PS è visibile a occhio nudo: umiliato nel 2002 (disfatta di Jospin contro Chirac e Le Pen), diviso dai personalismi, abbandonato dalla base, la direzione del PS aveva puntato sul “sì” (Hollande) e sul “no” (Fabius) mantenendo inalterata la sua prospettiva neoliberista.

2. Le sommosse nelle periferie: ottobre - novembre 2005 Si sono dette e scritte molte cose sulle sommosse nelle periferie francesi, di ottobre e novembre del 2005 ed anche una certa quantità di sciocchezze. I disordini si sono svolti unicamente nei quartieri più poveri delle periferie dei grandi agglomerati del paese. I giovani che si sono ribellati se la sono presa solamente con i beni materiali, non con le persone, salvo per quanto concerne le forze dell’ordine. E molti francesi hanno compreso del resto questa esplosione, ritenendola anche inevitabile, sebbene imprevedibile. Perché nessuno di essi sa che la nostra società (capitalista) non ha niente da offrire a questi giovani: né formazione umanamente arricchita, né impiego stabile, né alloggi decenti, né promozione sociale corretta, né tantomeno riconoscenza. La sola relazione tangibile che questi giovani intrattengono spesso con lo Stato è quella di subire la repressione poliziesca. Molti osservatori hanno letto questa ribellione francese con filtri razziali e di religione, dimenticando, a nostro avviso, l’essenziale: questa ribellione rappresentava, soprattutto, un problema di classe. Si trattava fondamentalmente di una ribellione di giovani delle classi urbane più precarie. E la repressione che si è abbattuta su di loro è stata un modello di repressione di classe, diretta innanzitutto contro i poveri, senza distinzione di origini. Che molti giovani siano di origine straniera (in maggioranza nord-africana e subsahariana) non può fare perdere di vista il fatto che il punto comune di questi ribelli, che siano francesi di origine, immigrati o stranieri, è certo la loro povertà. Questa repressione di classe si spiega, tra le altre cose, con un fatto spesso occultato. Le lotte di questi giovani sono portatrici di un desiderio di alternativa all’ordine attuale. Questa alternativa, non teorizzata, né concettualizzata, ed a volte non del tutto chiara, comunque si pratica. È l’antitesi del progetto anti-sociale della borghesia francese e delle élites europee, simmetricamente inversa all’apartheid urbano-razziale-sociale preconizzata dalla destra. Oggi, l’alternativa che si costruisce, in queste periferie più povere, è quella di una Francia meticcia, multicolore, aperta al mondo, e soprattutto al Sud, di una Francia dalla pelle bruna. Siamo così lontani dall’immagine, trasmessa dai media dominanti, di classi popolari razziste francesi. È del tutto certo che molti dei giovani di questi quartieri poveri di periferia sono disgiunti dalle lotte operaie e dalla memoria della loro storia. La scuola non insegna loro questa materia, né lo fanno del resto i partiti ed i sindacati di sinistra. Ma ciò che è forse più grave, è che molti dei progressisti ignorano la storia delle resistenze delle popolazioni di queste periferie e degli immigrati. Queste lotte non hanno smesso di cercare tuttavia un percorso organizzativo, unitario, indebolite dalle macchine di recupero elettorale e di deviazione delle loro energie, le più efficaci delle quali messe in campo dal Partito socialista. Fare convergere le istanze di tutti questi movimenti variegati non è cosa facile. Ma esistono certo dei punti di convergenza, come per esempio la lotta per il posto di lavoro e contro la precarizzazione. La sinistra deve secondo noi esprimere la sua solidarietà a questo sotto-proletariato sfruttato all’inverosimile. Questi giovani delle periferie precarizzate non rappresentano certamente tutta la base sociale, ma senza di essi, la sinistra non sarà mai più veramente popolare. Ciò che è in gioco, è l’articolazione delle lotte tradizionali dei lavoratori, figli di immigrati o stranieri, con le altre componenti delle classi popolari: precari, disoccupati, sans papiers, senza casa, tutti coloro che ancora sono senza diritti nella nostra società. Questi ribelli senza partito possono divenire gli alleati per la trasformazione progressista, sociale e democratica della Francia.

3. La mobilitazione contro il “CPE” (Contratto di Prima Possibilità di Lavoro): febbraio - aprile 2006 Il CPE, o Contratto di Prima Possibilità di Lavoro, costituisce una delle componenti delle misure di “riforma” del mercato del lavoro recentemente adottata in Francia dalla destra al potere. Riservato ai giovani, mira a sostituire i Contratti a Tempo Indeterminato con impieghi precari e sviliti, nelle imprese con più di 20 dipendenti. I datori di lavoro che ricorrono a questo tipo di contratto si vedono integralmente esonerati dal versamento dei contributi sociali per la durata di tre anni. A fianco del CPE, è sempre in vigore il CNE, il Contratto di Nuova Assunzione che riguarda tutti i lavoratori senza condizione di età, nelle imprese con meno di 20 dipendenti. Dal mese di agosto scorso sono stati firmati circa 300.000 CNE, senza che sia stato creato praticamente nessuno impiego stabile. Offerti sull’altare del dogma dell’abbassamento del costo del lavoro, questi regali hanno consentito al padronato un risparmio di 23 miliardi di euro all’anno, dimostrando nel contempo la loro inefficacia nella creazione di posti di lavoro, contribuendo unicamente ad aumentare il deficit pubblico ed a ridurre la domanda: da qui un’impennata al rialzo della disoccupazione. Il CPE era un contratto che permetteva ai padroni di licenziare i giovani senza giusta causa e senza possibilità di ricorso giuridico nei primi due anni. Tra l’altro il limite dei due anni di contratto diveniva aleatorio perché il giovane poteva essere licenziato in qualsiasi momento durante questi due anni. Questa precarizzazione era in effetti peggio di un Contratto a Tempo Determinato (CDD). A breve termine, il giovane è mantenuto nella più completa incertezza sul domani, nella totale impossibilità di programmarsi la costruzione di una vita degna, di metter su famiglia al riparo dal bisogno, di trovare un alloggio decente, di accedere al credito per l’acquisto di beni durevoli. A medio termine, mentre una serie di CDD possono trasformarsi in CDI, i CPE potevano perpetuarsi senza motivo, né controllo. Al termine del periodo di due anni, un padrone avendo assunto un giovane in CPE poteva, dopo un termine fissato a tre mesi, riprenderlo esattamente nella sua impresa con lo stesso regime. Infine, a più lungo termine, la tendenza più probabile per i padroni sarebbe stata quella che mira a licenziare lavoratori in CDI per sostituirli con giovani in CPE. Si comprende l’obiettivo principale che dissimulava il CPE: si trattava di inasprire la concorrenza tra lavoratori, di precarizzare più giovani possibile utilizzandoli nel tentativo di smantellare lo statuto del lavoro salariato e, in particolare, per attaccare una delle grandi conquiste del diritto del lavoro e del diritto sociale, per rimuovere i limiti imposti alla logica del capitale dalle lotte della classe operaia in materia di protezione contro i licenziamenti arbitrari, grazie all’obbligo imposto al padronato di fornire un motivo ai licenziamenti, grazie al diritto garantito ai dipendenti di disporre di un ricorso alla giustizia in caso di abusi, e grazie all’affermazione del diritto dei lavoratori contro il potere assoluto dei capitalisti. È chiaro che questo dispositivo si inseriva nel processo generale di flessibilizzazione del mercato del lavoro francese, raccomandato dai manutengoli del neoliberismo, alimentato dall’OCSE fino al Financial Time, che sognano da molto tempo di mettere termine alla “eccezione francese.” Come ha reagito a tutto ciò la gioventù di Francia? Ha reagito mobilitandosi, organizzando assemblee generali, riprendendosi la parola che il potere delle classi dominanti le aveva confiscato, informandosi e formandosi sui testi di legge, come al momento della Costituzione europea, poi bloccando le Università ed i licei, le strade, le stazioni e gli aeroporti, scendendo in piazza ed esprimendo democraticamente la sua opposizione più determinata a queste misure di guerra sociale. Manifestando, in massa, in tutta la Francia,: 500.000 manifestanti il 7 febbraio 2006, 1.000.000 il 7 marzo, 1.500.000 il 18 marzo, tra i 2 e i 3.000.000 il 28 marzo, più di 3.000.000 il 4 aprile.... In numerose città di provincia non c’erano state mai mobilitazioni di una tale ampiezza. Contrariamente alle apparenze, il tandem Villepin - Sarkozy funziona piuttosto bene: il primo prende a distruggere il diritto del lavoro, mentre il secondo si occupa di spezzare la resistenza e di intimidire i giovani. Dopo la repressione molto dura delle sommosse in periferia, (arrivata fino alle condanne alla prigione col beneficio della condizionale per i giovani che avevano mostrato il loro sedere alle forze dell’ordine, o all’arresto per gli incendi di cassonetti) parecchie migliaia di processi (forse più di 4.000) sono stati celebrati durante le manifestazioni anti-CPE su tutto il territorio nazionale. Centinaia sono state le sentenze di carcerazione, spesso per direttissima, fino a 8 mesi di detenzione, contro giovani che avevano partecipato agli scontri di piazza.... È dunque questo il progetto della destra per la gioventù francese: la precarietà o la prigione? L’autore di quest’articolo insegna alla Sorbona. I lettori che conoscono il luogo, nel quartiere latino di Parigi, immaginino un momento gli edifici della più vecchia Università della Francia circondati da due file di CRS (agenti delle forze dell’ordine della Compagnia Repubblicana di Sicurezza), le vie Saint Jacques, Cousin e della Sorbona chiuse totalmente, la stessa Sorbona cinta di mura antisommossa, realizzate con numerosi veicoli di polizia, autobus, camion di sgombero... ed un numero abbastanza conseguente di CRS in tenuta di combattimento. Questo spiegamento di forza e la repressione poliziesca non hanno fatto perdere tuttavia l’umorismo agli studenti. Sugli stessi muri che recingono la Sorbona, si poteva leggere: “non nutrire i CRS, per favore” (scritta classica allo zoo, riferita agli animali) o ancora “a causa dei rischi di contagio dovuto all’influenza aviaria, confinamento dei polli”, un “pollo” (in francese poulet n.d.t.) è dispregiativo di poliziotto... Dopo più di due mesi di crisi, due scioperi generali ed una serie di manifestazioni che hanno messo insieme circa 10 milioni di donne ed uomini, Chirac e Villepin annunciavano, lunedì 10 aprile 2006, vigilia di una nuova giornata di mobilitazione annunciata, la “sostituzione” dell’articolo di legge che instaura il CPE con un dispositivo “in favore dell’inserimento professionale dei giovani in difficoltà”. “Su proposta del Primo ministro e dopo avere sentito i Presidenti dei gruppi parlamentari ed i responsabili della maggioranza, il Presidente della Repubblica ha deciso di sostituire l’articolo 8 della legge sull’uguaglianza delle possibilità con un dispositivo in favore dell’inserimento professionale dei giovani in difficoltà”, dichiarava l’Eliseo. Poco più tardi, il Primo ministro dichiarava da Matignon: “Non ci sono le condizioni necessarie di fiducia e di serenità, né da parte dei giovani, né da parte delle aziende, per permettere l’applicazione del Contratto di Prima Possibilità di lavoro”. E aggiungeva: “Ho voluto proporre una soluzione forte (...). Ciò non è stato compreso da tutti, mi dispiace”. Quando gli elettori avevano sanzionato la politica neoliberista del Partito socialista nel 2002, i suoi leader non avevano reagito diversamente: “i francesi non ci hanno compresi!”. Nel maggio 2005, al momento del “no” al neoliberismo costituzionalizzato in Europa, l’ex-fanatico sessantottino (oggi docile deputato tedesco) Cohn-Bendit, il filosofo italiano Negri ed il cabarettista olandese Dave erano tutti venuti a dircelo: i francesi non comprendono niente! I sindacati e le organizzazioni anti-CPE hanno applaudito all’annuncio di questa decisione, ma aspettavano di conoscere il contenuto della nuova proposta di legge. L’Unef, sindacato leader della contestazione, ha mantenuto la giornata di azione di martedì 11 aprile, pure riconoscendo che la soppressione del CPE costituiva una “prima vittoria determinante”. La CGT ha salutato il “ritiro del CPE” come un “successo dell’azione convergente di lavoratori, studenti e dell’unità sindacale”. Ma nonostante le dichiarazioni, il 12-13 aprile ancora 16 Università risultavano in agitazione, tre di esse (Tolosa, Montpellier ed Aix-Marseille) sempre bloccate, e quella di Rennes, punta di diamante della mobilitazione anti-CPE, era ancora chiusa a causa dell’”ambiente insurrezionalista” che vi regnava. I loro studenti rivendicavano la prosecuzione della protesta fino al ritiro del CNE e dell’intera legge detta “dell’uguaglianza delle possibilità” che instaura i contratti di apprendistato fin dai 14 anni d’età e ristabilisce il lavoro notturno a partire dai 15 anni. È solamente un inizio, continuiamo la lotta!

(Traduzione di Enzo Di Brango)

Note

* Ricercatore al CNRS e Professore all’Università di Parigi 1 Pantheon Sorbonne.