America Latina tra globalizzazione,neoliberismo e stagnazione economica

FRANCISCO LUIZ CORSI

1. Introduzione

Nell’ultimo decennio si è delineata in America Latina una tendenza alla bassa crescita economica, accompagnata dal peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di un segmento considerevole della classe lavoratrice. In parte, questo quadro è derivato dall’insuccesso dei progetti di sviluppo che hanno prevalso fino alla fine degli anni 70 e dalle strategie neoliberiste che li hanno seguiti. Le politiche neoliberiste, implementate dai differenti governi che miravano ad un nuovo inserimento dinamico nell’economia mondiale, finirono per portare all’aumento della vulnerabilità estera e alla fragilizzazione degli Stati nazionali. La promessa delle politiche neoliberiste di una crescita basata sulla distribuzione del reddito e sul miglioramento delle condizioni sociali, che avrebbero diminuito la distanza rispetto alle regioni sviluppate, non si è realizzata. In realtà, ci troviamo molto distanti da un’economia prospera, integrata e auto-regolata dai mercati. Questo non ha smesso di essere una chimera, sebbene non possiamo non riconoscere le trasformazioni avvenute all’epoca. Osserviamo, oggi, una crescente distanza dell’America Latina rispetto alle regioni sviluppate. La miseria, la disoccupazione, la precarizzazione delle relazioni di lavoro, la mancanza di prospettive riguardano grandi segmenti della popolazione della regione. Anche i problemi ecologici sono aumentati. Il deterioramento delle condizioni socio-economiche ha contribuito alla nascita di differenti forme di resistenza sociale, come il movimento Zapatista in Messico, il Movimento dei Lavoratori Sem Terra in Brasile, quello dei Piqueteros in Argentina e dei Cocaleros in Bolivia, emblematici di queste nuove forme di resistenza. Dalla fine del secolo scorso, l’America Latina sembra essere entrata in una fase di “ebollizione sociale”. Affrontando queste questioni il presente articolo cerca di fare un breve bilancio di più di un decennio di implementazione di politiche economiche neoliberiste in America Latina. L’articolo si divide in tre parti oltre a questa introduzione. Nella prima si discute la tendenza alla bassa crescita economica e all’ampliamento delle disuguaglianze economiche e sociali nella attuale fase di mondializzazione del capitalismo. In seguito, si affronta l’evoluzione dell’economia e della politica economica in America Latina, cercando di presentare l’esaurimento delle politiche neoliberiste, egemoniche dall’inizio degli anni 90. Per ultimo, si tracceranno alcuni commenti a mò di conclusione.

2. Globalizzazione e stagnazione economica Negli ultimi 30 anni si è osservato l’aumento della distanza tra le regioni sviluppate e quelle in via di sviluppo. La situazione dell’America Latina non fa eccezione. Dopo un periodo di grande crescita nella cosiddetta fase di sviluppo, la regione è entrata in una periodo di bassa crescita che arriva fino ai giorni nostri. Le politiche neoliberiste, basate sul cosiddetto Consenso di Washington e che sostituirono i progetti di sviluppo3, si sono dimostrate incapaci di garantire la crescita economica e rispondere alla situazione di miseria e avvilimento presente nella regione. I casi dell’Argentina e del Brasile sono emblematici. Tra gli anni 50 e 70, l’accelerata crescita di alcuni paesi latino-americani sembrava suggerire la riduzione di questa distanza. Questo processo, però, è retrocesso nei due decenni successivi, frustrando le speranze di coloro che, all’epoca, consideravano possibile superare il ritardo e la miseria. La stagnazione della crescita economica è intimamente vincolata alla globalizzazione del capitalismo. Arrighi (1997:59) comparando il PNL pro capite di regioni della periferia con il PNL pro capite del nucleo centrale del capitalismo mostra la tendenza all’aumento delle disuguaglianze mondiali. Nel 1960 il PNL pro capite dell’America Latina corrispondeva al 14,4% del PNL pro capite del nucleo organico, è salito al 19,8%, nel 1980, ed è sceso al 10,6% nel 1988. La situazione dell’Africa sub-sahariana è peggiore: nel 1960 il PNL pro capite della regione rappresentava il 5,1% di quello del nucleo centrale ed è sceso al 2,5% nel 1988. Secondo Fiori (1999:13-14), il reddito medio pro capite del 20% più ricco del mondo, nel 1965, era 30 volte superiore a quello del 20% più povero. Nel 1980 questa differenza era di 60 volte. Nel 1979 il reddito pro capite dell’America Latina corrispondeva al 36% del reddito pro capite dei paesi ricchi. Quindici anni dopo, questo numero era sceso al 25% (Fiori, 1999:13-14). La questione dell’incremento delle disuguaglianze sociali su scala mondiale è, senza dubbio, piuttosto complessa e non può, in maniera semplicistica, essere ridotta all’incremento della disuguaglianza tra le regioni povere e quelle ricche del mondo. L’aumento della miseria non si osserva esclusivamente nelle regioni periferiche, ma ha anche acquisito rilevanza in varie regioni negli stessi paesi che compongono il nucleo del sistema capitalista (Altvater, 1995; Hobsbawm, 1995). Le contraddizioni e disuguaglianze che sono presenti in modo marcato in un mondo sempre più integrato, appaiono anche all’interno di ogni paese e di ogni città del mondo, anche al centro del sistema. Il contrasto tra i ricchi e i poveri presente in quasi tutte le città del mondo è, cioè, simile a ciò che si manifesta tra le regioni povere e ricche del pianeta (Corsi, 2002). L’approfondimento della miseria, della disoccupazione e delle disuguaglianze sociali è intimamente vincolato alla relativa fase di stagnazione vissuta dal capitalismo dalla crisi del 1974. Se compariamo la media annuale delle variazioni del PIL dei sette paesi più ricchi del mondo, possiamo verificare una netta tendenza al declino dell’attività economica: 1960-1969, 5,1%; 1969-1979, 3,6%; 1979-90, 3,0% e 1990-2000, 3,1%, mentre tra il 1995 e il 2000 la crescita del PIL è stata dell’1,9% (Brenner, 2003:93)4. È ovvio che ci sono state delle eccezioni, il caso del buon disimpegno dell’economia nord-americana negli anni 90 lo dimostra5. La ragione fondamentale dell’andamento declinante dell’economia mondiale negli ultimi decenni sembra risiedere, come indica Chesnais (1998:18), nella caduta dei tassi di investimento nelle principali economie del mondo a partire dalla metà degli anni 70. La diminuzione del ritmo di accumulazione del capitale mostra che il sistema non riesce a produrre plus-valore capace di sostenere la valorizzazione del capitale, sebbene le grandi imprese abbiano recuperato la produttività a partire dalla metà degli anni 80. Non deve pertanto meravigliare il continuo rigonfiamento dei mercati finanziari globali. Oltrepasserebbe i limiti del presente articolo discutere dettagliatamente le ragioni del basso dinamismo del capitalismo negli ultimi decenni. In modo sintetico, sembra che tale disimpegno derivi da una crisi generale della società capitalista, iniziata alla fine degli anni 60 e che ha aperto una fase di “crisi continuata” (Hobsbawm, 1995). Da una parte, come segnalano Chesnais (1998:18-19) e Brenner (1999, 2003), il capitalismo è entrato in una crisi di superproduzione a partire dall’inizio degli anni 70, che sarebbe diventata cronica6. Il forte incremento della produzione e della capacità produttiva mondiale derivante, in parte, dall’entrata massiccia di prodotti tedeschi e giapponesi sul mercato mondiale a partire dall’inizio degli anni 60, incrementando la concorrenza intercapitalista, ha finito per ledere la produttività delle imprese e ha generato improduttività superiore a quella programmata. Aggravando la situazione, l’impeto del movimento sindacale portava i salari ad innalzarsi, impedendo che i capitalisti riorganizzassero la produttività attraverso la morsa salariale. L’economia nord-americana fu la più colpita. La perdita di competitività ha contribuito in modo straordinario a minare la posizione del dollaro, compromettendo gli accordi di Bretton Woods. In questo modo, alla crisi di sovrapproduzione si sovrappose la crisi del sistema finanziario internazionale. D’altro canto, tra la metà degli anni 60 e la metà degli anni 70, si approfondì il conflitto sociale in Europa, con l’avanzare delle forze di sinistra. Anche gli USA furono spazzati da forti movimenti di contestazione sociale. Fioriva una cultura anticapitalista. Sorsero vari movimenti sociali settoriali, alternativi ai movimenti burocratizzati della sinistra tradizionale, che lottavano per interessi di minoranze specifiche. Nella periferia, gli USA furono sconfitti in Vietnam e i movimenti di sinistra e nazionalisti sembravano prendersi cura della regione. I produttori di petrolio, come conseguenza della guerra dello Yom Kippur, inflissero uno shock ai prezzi del prodotto, eliminando uno dei pilastri che avevano sostenuto la fase aurea della crescita economica capitalista (Fiori, 1999). L’URSS sembrava, in questo contesto, guadagnare terreno. Molti contemporanei sognavano la fine prossima del capitalismo, o per lo meno, dell’egemonia nord-americana. La possibilità di profonde trasformazioni sociali all’epoca era palpabile. Intanto le possibilità di rivoluzione sociale, in poco tempo, si dissolsero. A partire dalla crisi del 1973, la correlazione di forze passò a pendere gradualmente dalla parte dei conservatori. Sebbene non spetti qui discutere di questo punto nel dettaglio, dati i limiti di questo articolo, è necessario, anche se in modo eccessivamente schematico, segnalare l’inizio di una reazione capitalista in quel momento. Nello scontro con i lavoratori, date le circostanze sociali, politiche, culturali ed economiche del momento, i settori capitalisti finirono per avere la meglio e fecero prevalere i propri interessi7. I grandi capitalisti associati principalmente ai governi conservatori di Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania cercarono di riorganizzare il sistema per affrontare la contestazione sociale, l’avanzamento del socialismo sovietico e la crisi economica. La superproduzione non portò ad una crisi che consumasse l’eccesso di capitale, ricomponendo così le sue condizioni di valorizzazione. Tuttavia, l’offensiva della borghesia contro la classe lavoratrice si è fatta presente come nel passato, cercando di ricomporre il tasso di sfruttamento e, in questo modo, la redditività. La ristrutturazione produttiva e la deregolamentazione del mercato del lavoro sono, in parte, aspetti di questa offensiva dei capitalisti contro i lavoratori. Senza dubbio la crisi economica, l’aumento della disoccupazione, la burocratizzazione dei partiti dei lavoratori e dei sindacati, la segmentazione della classe lavoratrice, il fallimento delle strategie riformiste e la disillusione rispetto al socialismo sovietico e successivamente il crollo dell’URSS, contribuirono ad alterare la correlazione di forze a favore della borghesia. Senza questa alterazione sarebbe stata impossibile l’implementazione della ristrutturazione produttiva che, sommata alla bassa crescita, ha finito per generare un enorme esercito industriale di riserva, essenziale per piegare i lavoratori. La risposta che le grandi imprese, le grandi banche, i fondi di investimento e pensione, e importanti governi hanno dato alla crisi, come è ampiamente risaputo, è stata, da un lato, cercare, nel centro del capitalismo, di smantellare il Welfare State, che insieme ai sindacati era considerato dai neoliberisti come la causa principale della crisi del capitalismo. Il risultato fu il redirezionamento dei fondi pubblici, che un tempo erano diretti alle spese sociali, per il sostentamento della valorizzazione finanziaria del capitale, soprattutto attraverso l’ampliamento del debito pubblico (Oliveira, 1998). Nella periferia, come vedremo, si cercò di imporre politiche rivolte al pagamento del debito estero e, successivamente, politiche rivolte all’apertura e alla deregolamentazione delle economie nazionali, il che ha contribuito alla fine delle politiche “di sviluppo” fino ad allora di moda nella regione. È ovvio che i risultati di questi processi non furono omogenei, ma variarono da paese a paese a seconda delle lotte sociali interne, alle strategie adottate dai differenti governi e in base alla situazione geopolitica di ciascun paese. Alcuni paesi, come la Corea, sono riusciti a preservare un margine di manovra maggiore e hanno continuato a implementare i propri progetti di sviluppo. Oggi, sono questi paesi che si trovano in una situazione migliore e ciò si deve, in parte, alle decisioni e alle strategie politiche adottate dai loro governi che sono riusciti a ridurre la propria vulnerabilità estera. D’altra parte, i capitalisti cercarono spazi più ampi e deregolamentati di accumulazione oltre a ristrutturare e riorganizzare la produzione. La costituzione di oligopoli internazionali in importanti settori, l’ampliamento dell’apertura delle economie nazionali, la formazione di mercati regionali, l’utilizzo intenso di nuove tecnologie, l’organizzazione di processi produttivi più flessibili, la riduzione della forza lavoro impiegata, l’introduzione di vincoli vari e relativamente deboli tra il lavoratore e l’impresa, la riallocazione spaziale tra alcuni paesi di vari segmenti produttivi e la marginalizzazione di innumerevoli regioni, caratterizzano il momento attuale. Questi cambiamenti si sono avuti sotto l’egida del liberismo, che risorse dalle ceneri dopo un lungo inverno sotto l’etichetta di neoliberismo. Altro elemento essenziale per intendere la reazione del grande capitale alla crisi, è stato il tentativo di ricomporre, a partire dal governo Reagan, l’egemonia nord-americana, che si trovava in discussione negli anni 70 dopo la sconfitta in Vietnam, a partire dall’avanzare di movimenti nazionalisti e socialisti nel cosiddetto Terzo Mondo e delle forze di sinistra nello stesso nucleo del sistema. La politica del dollaro forte, la deregolamentazione dei mercati, l’intensificazione della guerra fredda, che sarebbe uno dei fattori del successivo collasso dell’Unione Sovietica, e l’attacco alla “indisciplina” di vari paesi sottosviluppati completano questo quadro (Fiori, 1999). In questo contesto, si è aperto uno spazio per l’egemonia di un capitale finanziario produttivo con il consolidamento di un mercato dei cambi, di capitali e di titoli in ambito mondiale (Chesnais, 1996). Questo capitale produttivo, gonfiato sistematicamente dai capitali formatisi nella produzione, ma che non incontrano lì condizioni favorevoli di valorizzazione, è molto sensibile a qualsiasi alterazione nelle variabili reali dell’economia. L’incremento dell’inflazione, gli squilibri più accentuati dei conti esteri o dei conti del governo e la caduta della redditività delle imprese possono causare intensi movimenti di fuga dei capitali, il che costringe gli Stati ad adottare politiche ortodosse, con l’obiettivo di controllare la domanda aggregata ed evitare così pressioni inflazionistiche e squilibri esteri e fiscali che potrebbero portare a repentini cambiamenti del cambio. Questo processo tende a mettere in discussione la capacità degli Stati di controllare le proprie economie. L’esistenza di un mercato finanziario globale, senza coordinamento e senza modello monetario stabile, pone difficili problemi ai paesi sottosviluppati risguardo l’adozione di politiche di sviluppo (Coutinho, 1996). Questo non significa, però, che i paesi debbano adeguarsi passivamente alla cosiddetta globalizzazione né che questo processo colpisca in modo omogeneo e integrato l’insieme del pianeta. La globalizzazione diretta dal capitale finanziario e dalle grandi imprese transnazionali, sotto l’egida del neoliberismo, ha debilitato gli Stati nazionali periferici, sottomettendoli sempre di più a politiche di apertura e deregolamentazione delle loro economie e di smantellamento del settore pubblico. Le politiche rivolte a garantire il pagamento del debito estero e interno si sono tradotte nella riduzione delle risorse per l’educazione, la salute, l’abitazione popolare, etc. Spese che sarebbero vitali per il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Questo processo non può essere considerato come qualcosa di naturale o inevitabile, è stato il frutto dell’azione e di pressioni dei governi degli USA e del G7 come anche del FMI, della Banca Mondiale, del WTO etc. Ha contato anche sull’azione attiva di molti governi dei paesi sottosviluppati, che assunsero il paradigma e la strategia neoliberiste. È stata questa composizione di forze che ha portato diversi paesi ad assumere le politiche del cosiddetto “Consenso di Washington”. Gli Stati nazionali continuano a svolgere un ruolo centrale, nonostante sia cresciuta l’importanza delle istanze sovranazionali che garantiscono la governabilità dell’economia mondiale, come il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale, il G3 e il G7, l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), l’Unione Europea, l’Area del Libero Commercio dell’America del Nord (NAFTA) etc. Le grandi imprese, le grandi banche e i fondi di investimento che dominano gran parte dell’economia mondiale non possono dispensare misure e politiche che garantiscano la sicurezza e la stabilità nei mercati finanziari e commerciali, la protezione dei diritti commerciali e l’ordine sociale. Oltre a ciò, possiedono un vivo interesse nello sfruttare i vantaggi economici e istituzionali offerti dagli Stati. É successo che gli Stati cominciarono ad avere difficoltà crescenti nell’imporre politiche e risultati “in tutte le dimensioni della politica all’interno di un territorio per mezzo della loro autorità”. Sebbene gli Stati facciano parte di un sistema di potere più complesso, essi “hanno una centralità dovuta alla loro relazione con il territorio e la popolazione”, (Hirst e Thompson 1998:292-294). È importante soprattutto per il grande capitale, per il mantenimento dell’ordine sociale. Le funzioni repressive dello Stato continuano ad essere intoccabili tanto nel centro quanto nella periferia. In questo modo, sembra poco probabile l’esistenza di un’economia mondiale senza mercati controllati e regolati dagli Stati e dalle istituzioni internazionali. L’utopia liberale di un’economia basata su mercati auto-regolati continua ad essere un miraggio. Il capitalismo non vive senza una forte presenza statale nell’economia. Si osservano cambiamenti nelle forme di questo intervento. Si verifica, ad esempio, un’alterazione nella natura della spesa pubblica. Si osserva la riduzione delle spese sociali in nome del controllo del deficit pubblico e dell’inflazione, mentre si verifica un’esplosione del debito pubblico, relazionata, in gran parte, al sostenimento della speculazione finanziaria. I mercati, anche quello estero, continuano ad essere regolati dallo Stato, sebbene il libero commercio sia avanzato. La costituzione di un’economia mondiale sempre più integrata, delineatasi a partire dalla seconda metà degli anni 70, ha interessato inizialmente il nucleo del sistema capitalista (Europa occidentale, Giappone e USA) più alcuni altri paesi, in particolar modo le “tigri asiatiche” e la Cina. Fino alla fine degli anni 80 i flussi di capitali, l’introduzione di nuove tecnologie, la ristrutturazione organizzativa della produzione e dei processi di lavoro si sono concentrati in queste regioni (Coutihno, 1996). Molte altre regioni rimasero ai margini di questi processi. La tendenza alla bassa crescita e l’incapacità dell’America Latina di combattere in maniera efficace le disuguaglianze sociali e la profonda miseria di parte considerevole della sua popolazione, deve essere letta all’interno di questo quadro.

3. America Latina: tendenza alla bassa crescita Il disimpegno dei paesi poveri ha accompagnato la tendenza al declino dell’attività delle regioni più sviluppate. Nelle regioni povere, generalmente, le conseguenze sociali ed economiche furono più gravi in virtù della fragile struttura economica e dell’inserimento subordinato di questi paesi nell’economia mondiale. Questo, però, non significa che questa sia l’unica ragione della stagnazione economica di vaste aree della periferia e dell’aumento del divario tra le regioni povere e ricche del mondo. È necessario anche tenere in considerazione fattori sociali, politici e culturali interni a ciascun paese. La situazione della periferia non è, tuttavia, omogenea. Alcuni paesi in via di sviluppo sono passati per una forte crescita, come la Cina, l’India, il Vietnam e la Corea8, mentre la maggioranza è rimasta immersa nella stagnazione o ha presentato una tendenza alla crescita di modeste dimensioni, come la maggioranza dei paesi dell’Africa sub-sahariana e dell’America Latina. Il miglioramento del disimpegno economico in alcuni paesi della periferia, in modo particolare del Sud-est Asiatico, non ha significato necessariamente un miglioramento, nella stessa proporzione, delle condizioni di vita delle loro popolazioni. La Banca Mondiale divide i paesi in via di sviluppo in “più globalizzati” e “meno globalizzati”. I primi avrebbero presentato, nello stesso periodo, una crescita media del PIL di circa il 5% annuo negli anni 90, mentre i secondi avrebbero presentato una crescita negativa media dell’1%. In Cina, uno dei paesi che più sono cresciuti in quel periodo, si è verificato, ad esempio, un ampliamento delle disuguaglianze sociali, nonostante la riduzione del numero dei poveri. Sebbene questo non sia nemmeno menzionato nelle relazioni della Banca Mondiale, è necessario evidenziare che tra i paesi in via di sviluppo la maggioranza di quelli che più sono cresciuti furono proprio quei paesi che non hanno seguito la ricetta neoliberista e che implementano strategie politiche basate su programmi di sviluppo, caratterizzati da ampia partecipazione statale nell’economia e regolazione dei flussi di capitale e di merci. Nel computo generale, la stessa Banca Mondiale riconosce che la situazione dei paesi poveri non è per niente soddisfacente: “Dal 1980 l’evidente divergenza tra i paesi “più globalizzati” e quelli “meno globalizzati” rende il disimpegno combinato delle nazioni in via di sviluppo meno significativo” (Banca Mondiale, 2003:23). L’America Latina, negli ultimi 20 anni, ha presentato una chiara tendenza alla stagnazione. Anche qui il quadro è eterogeneo, con paesi che presentano un ragionevole disimpegno, come il Cile, e altri praticamente stagnanti, come il Brasile9. Il PIL latino-americano è cresciuto in media del 5,5% annuo negli anni 60 e del 5,6% nel decennio successivo. Tra il 1981 e il 1990, questa crescita fu dello 0,9%. Tra il 1990 e il 1997, la crescita media annuale del PIL fu del 3,3% (Cano, 1999:294-311). Questo disimpegno, all’epoca, suggeriva che la ricetta neoliberista stava facendo effetto. La regione starebbe entrando in una fase di crescita economica con bassi tassi di inflazione. Rafforzava questa impressione il miglioramento, in quel periodo, di alcuni indicatori sociali. Nel frattempo, il miglioramento osservato nella prima metà degli anni 90 ha subito una forte inversione. Dal 1997 al 2002, quando l’economia globalizzata è entrata in declino, dopo la crisi asiatica seguita dalle crisi russa, brasiliana e argentina e dalla lenta esplosione della bolla speculativa di Wall Street, secondo i dati presentati dal CEPAL, l’economia latino-americana si è trovata in una nuova fase di stagnazione. Nel periodo a cui si fa riferimento, il PIL della regione è cresciuto in media dell’1%, mentre la crescita demografica è stata dell’1,5%, il che ha causato, in quel periodo, una caduta del PIL pro capite dell’1,45%. Il caso più grave fu quello dell’Argentina, che tra il 1999 e il 2002 ha avuto una contrazione di circa il 20% del PIL, che era del 10,9% nel 2002. Livelli comparabili a quelli della Grande Depressione degli anni 30 (CEPAL, 2003;Folha de São Paulo del 08/08/2003, c.B., pg.1). Il numero di poveri tornò a crescere tra il 1997 e il 2002, dopo un miglioramento durante gli anni 90. Nel 1990, secondo il CEPAL, il 48,3% della popolazione era considerato povero e il numero degli indigenti arrivava al 22,5%. Nel 1999, i poveri erano il 42,1% e gli indigenti il 18,5% della popolazione. Nel 2002, queste cifre raggiunsero rispettivamente il 43,4% e il 18,8%, arrivando ad un totale di 220 milioni, di cui 97 milioni erano indigenti. La retrocessione fu più grave in Argentina e in Uruguay. Nel primo paese, il numero di poveri e indigenti raddoppiò tra il 1999 e il 2002. Nel secondo, nello stesso periodo, la percentuale dei poveri e degli indigenti passò rispettivamente dal 23,7% al 45,4% e dal 6,7% al 20,9% in relazione alla popolazione totale. Ancora secondo il CEPAL, l’11% della popolazione della regione è malnutrita, mentre relativamente ai bambini con meno di 5 anni di età il 9% presenta malnutrizione acuta e il 19,4% denutrizione cronica. Tuttavia, in vari paesi si osserva il miglioramento di altri indicatori come la scolarità, l’aspettativa di vita, l’analfabetismo etc. (CEPAL, 2003). Nel 2004, il numero dei poveri e degli indigenti praticamente non è cambiato, ha raggiunto la cifra di 222 milioni di persone, nonostante la ripresa dell’attività economica nel 2003. In Honduras, per esempio, c’è il 77,3% di poveri e indigenti. Nel 2000, il tasso di disoccupazione urbano nella regione era di circa il 9%. Questi tassi non prendono in considerazione le varie forme di disoccupazione sommersa. La popolazione giovane è la più colpita dalla disoccupazione, presentando un tasso di disoccupati del 20%. Circa il 60% della forza-lavoro si trova nel mercato informale. I tassi di mortalità infantile continuano ad essere alti. In Bolivia, ogni 100 nascite, 83 bambini muoiono, indice molto superiore a quello dei paesi sviluppati. La distribuzione del reddito continua ad essere pessima e ha teso a peggiorare nel periodo neoliberista. Il Brasile è il caso più grave. Nel 1990, l’indice Gini per questo paese era di 0,627, mentre nel 2002 era di 0,639 (CEPAL, 2003, 2004; Mota, 2005). L’Argentina, in questo stesso periodo ha sofferto un forte deterioramento della situazione sociale. Nel 1990 il 53% della sua popolazione, secondo Kliksberg (2001), apparteneva alla classe media. Dieci anni dopo questo numero era sceso al 33% e ha continuato a scendere a causa della forte crisi del 2001-2002. A partire dal 2003, accompagnando la ripresa dell’economia mondiale, si osserva un recupero dell’economia dell’America Latina. Il PIL della regione è cresciuto dell’1,9% nel 2003 dopo aver presentato un declino dello 0,5% nell’anno precedente. La crescita nel 2004 è stata più significativa, ha raggiunto la cifra del 5,8%. I paesi che più sono cresciuti sono stati il Cile, l’Uruguay e l’Argentina. Merita un rilievo questo ultimo paese, che è cresciuto dell’ 8,7% nel 2003 e del 9,0% nell’anno seguente. Sebbene questi numeri siano distorti dalla profonda crisi degli anni precedenti, è necessario osservare che l’Argentina ha chiuso con il paradigma del FMI e ha dichiarato la sospensione del pagamento del debito estero, mostrando che è possibile l’implementazione di politiche alternative a quelle stabilite dal Consenso di Washington. Questo disimpegno dell’Argentina ha contraddetto la previsione della maggioranza schiacciante degli analisti di mercato. Il governo Lula, a sua volta, ha continuato ad implementare la politica del suo predecessore, una politica di subordinazione agli interessi finanziari nazionali ed internazionali. Sebbene il Brasile sia tornato a crescere nel 2004, a partire dall’incremento delle esportazioni, il mantenimento di elevati tassi di interesse combinato alla valorizzazione della moneta nazionale (il “real”) ha già cominciato a soffocare la crescita. La previsione per il 2005 è di una crescita del 3,5% del PIL contro il 4,9% dell’anno precedente. La crescita del 2003 e del 2004 potrebbe stare ad indicare una fase di crescita sostenuta. Non sembrano però esserci motivi consistenti per crederlo. Le previsioni già indicano una crescita meno accelerata per il 2005, intorno al 4,4%. Fin dall’adozione delle politiche economiche definite dal Consenso di Washington per la maggior parte dei paesi dell’America Latina, la regione presenta cicli corti di crescita interrotti da gravi recessioni, conseguenza della grave vulnerabilità rispetto alle oscillazioni dell’economia mondiale. Questa dinamica economica é rigorosamente vincolata alla forma che si è data all’inserimento dell’America Latina nella attuale fase di mondializzazione del capitale. Questo inserimento è avvenuto attraverso la via finanziaria, mentre vari paesi del Sud-est Asiatico si sono inseriti basandosi su un forte dinamismo produttivo. È stata la via d’uscita che le classi dominanti della regione trovano per affrontare la grave crisi causata dall’indebitamento estero. A partire dalla crisi scatenata dalla moratoria messicana nel 1982. Gli alti debiti esteri hanno soffocato le economie di molti paesi emergenti10. Di fronte a questo quadro, si è cercato di imporre politiche rivolte al pagamento dei debiti esteri e, successivamente, politiche rivolte all’apertura e alla deregolamentazione delle economie nazionali, il che ha contribuito alla fine delle politiche di sviluppo fino ad allora di moda nella regione. L’adozione della strategia neoliberista11 e passiva12 dell’inserimento nella nuova situazione mondiale da parte dei vari governi latino-americani, a partire dalla seconda metà degli anni 80, ha ridotto “il ruolo dello Stato alla esclusiva funzione di guardiano degli equilibri macroeconomici. Guardiani che finiscono per essere prigionieri della loro stessa trappola e impotenti, o incapaci di definire priorità e implementare politiche di stimolo settoriale alla competitività, incapaci di offrire protezione sociale alle proprie popolazioni, di fornire i servizi pubblici più elementari, o ancora di garantire finalmente l’ordine e il rispetto delle leggi” (Fiori, 1997:237). Vediamolo più da vicino. Con la crisi del debito estero si è configurata in America Latina una tendenza alla bassa crescita economica, che arriva fino ai giorni nostri. Questo epilogo non può essere inteso senza tenere in considerazione le trasformazioni in corso nell’economia capitalista in questo periodo. In primo luogo, gran parte dei prestiti contratti dai paesi sottosviluppati è avvenuto nei cosiddetti euromercati di dollari a interessi fluttuanti. L’elevata liquidità e i bassi interessi hanno finito per indurre molti governi a indebitarsi in maniera disastrosa. La storia si conosce. Quando alla fine degli anni 70, il governo Reagan, preoccupato per gli enormi deficit esteri nord-americani e cercando di recuperare la supremazia degli USA, allora in scacco, ha implementato una politica di rafforzamento del dollaro attraverso la maggiorazione accentuata dei tassi di interesse, che sono saliti da un livello del 6% annuo a circa il 20%13 mentre contemporaneamente portava a termine, insieme al governo inglese, la deregolamentazione dei mercati finanziari e di capitali la situazione dei paesi periferici si è deteriorata rapidamente. Le rate del debito hanno sofferto un forte aumento, il che portò molti paesi a indebitarsi ancora di più per pagare i debiti contratti precedentemente, generando così una crescita finanziaria degli stessi. Questo processo ha portato la periferia a trovarsi in una situazione di insolvenza generalizzata. Tra il 1980 e il 1990 i debiti della periferia sono cresciuti spaventosamente: in America Latina, da 130 a 319 miliardi di dollari; in Africa, da 97 a 257 miliardi di dollari; in Asia da 87 a 264 miliardi di dollari; nell’Europa dell’Est, da 47 a 140 miliardi di dollari. Parallelamente, si osserva il declino dei prezzi dei prodotti primari rispetto a quelli dei prodotti industrializzati nel mercato mondiale, a causa della crisi aperta dalla politica di alti interessi degli USA. Caduta che già si veniva delineando dal decennio precedente con la crisi di superproduzione. Tra il 1980 e il 1990, i prezzi dei prodotti manifatturieri sono saliti del 36,8%, mentre quelli dei prodotti minerari sono caduti del 37,7% e quelli agricoli del 40%. Questo rendeva oltremodo difficile il pagamento dei debiti esteri (Altvater, 1995:14). Buona parte dei paesi indebitati dell’America Latina è entrata in un periodo di stagnazione. L’Adozione di politiche recessive, ispirate o imposte dal FMI, ha portato le loro economie a evitare il pagamento del debito estero, la lotta all’inflazione e la crisi fiscale dello Stato. L’impiego di politiche recessive, basate sul taglio della spesa pubblica, sulla morsa dei salari, sul taglio del credito, sulla stretta monetaria e sulla svalutazione della moneta, portò alla stagnazione economica e all’aggravamento dell’inflazione e della crisi fiscale dello Stato, sebbene migliorasse la situazione dei conti esteri, permettendo il pagamento degli interessi sui debiti. Si sono preservati, così, gli interessi dei creditori stranieri. In questo modo, diventava impraticabile lo sviluppo di buona parte della periferia, che è diventava esportatrice di capitali verso il centro. Secondo dati presentati da Cano (2001) l’America Latina ha portato verso i paesi centrali, sotto forma di versamenti di interessi e di rateizzazioni del debito estero, negli anni 80, circa 200 miliardi di dollari. Risorse che hanno contribuito a sostenere la valorizzazione del capitale finanziario in quel periodo. Anche paesi, come il Brasile, che già non erano rudimentali esportatori, e avevano quindi un modello di esportazione diversificata, non sono riusciti ad uscire da questo circolo chiuso. Per l’America Latina la situazione ha cominciato apparentemente a cambiare all’inizio degli anni 90, quando il Giappone, l’Europa Occidentale e gli USA sono entrati in crisi, il che per le prime due regioni ha aperto rispettivamente un periodo di stagnazione e di bassa crescita economica. La mancanza di buone opportunità di investimento associata alla caduta dei tassi di interesse dei paesi centrali ha generato un volume significativo di capitali avidi di migliori condizioni di valorizzazione in altre regioni del mondo. L’America Latina allora è tornata a richiamare l’attenzione delle grandi imprese e del capitale finanziario (Coutinho, 1996). In concomitanza con questi avvenimenti, come ha segnalato Fiori (1997), nel FMI, nella Banca Mondiale, nella Banca Interamericana di Sviluppo e nel mondo accademico si discuteva un intenso dibattito circa le politiche di stabilizzazione delle economie latino-americane. Si arrivò alla conclusione che le politiche ortodosse raccomandate dal FMI e adottate nel corso degli anni 80 erano state un fallimento, sebbene avessero evitato un’ondata di sospensioni dei debiti esteri. Erano state insufficienti soprattutto per quello che riguardava la riduzione dell’inflazione e la ripresa della crescita economica. Queste discussioni culminarono nell’incontro di Washington nel 1989. Le conclusioni di questi seminari, conosciuti come il “consenso di Washington”14, proponevano, a fianco di politiche di stabilità economica, un piano di riforme per i paesi della regione. L’esaurimento del modello di sviluppo basato sull’ampia azione dello Stato nell’economia e nei mercati nazionali relativamente chiusi sarebbe, secondo questa visione, la causa principale dei gravi problemi economici affrontati dai paesi latino-americani a partire dagli anni 80. A grandi linee, questo modello di sviluppo sarebbe sfociato in un sistema produttivo inefficiente e non competitivo e in quello che i liberali chiamavano populismo economico. I governi latino-americani avrebbero cioè creato un terreno fertile per la maggiorazione dei salari superiore alla produttività del lavoro, per l’espansione di imprese inefficienti, per l’allocazione inefficiente delle risorse pubbliche, per la corruzione sfrenata etc. Tutto ciò feriva la sacrosanta legge della teoria neoclassica secondo la quale i mercati sarebbero la forma più efficiente di allocare risorse e tenderebbero all’equilibrio. Gli squilibri economici sarebbero, quindi, in ultima analisi, frutto di squilibri del settore pubblico. Vari piani di stabilizzazione implementati in America Latina hanno seguito queste analisi e direttrici. Così, vari paesi latino-americani continuarono ad essere prigionieri delle correnti finanziarie che stavano rendendo difficile lo sviluppo a partire dalla crisi del debito estero degli anni 80. È stato il caso del Messico e dell’Argentina, che hanno adottato piani basati sulle ancore dei cambi. Questa strategia, che causava forti deficit commerciali a causa della valorizzazione delle monete combinata alla maggiore apertura dell’economia, è stata possibile solo grazie all’elevata liquidità internazionale e ai bassi tassi di inflazione nei paesi centrali all’inizio degli anni 90. Queste condizioni congiunturali, che garantivano un flusso voluminoso di risorse estere, erano intrinsecamente instabili (Tavares, 1999). Nel frattempo, ancora una volta la realtà sembra smentire le aspettative ottimistiche dei neoliberisti. Sebbene le strategie neoliberiste siano state ampiamente preponderanti nella regione negli ultimi 15 anni, non sono riuscite a riprendere lo sviluppo promesso. Al contrario, questi paesi vivono una situazione di bassa crescita cronica e di crisi ricorrenti ogni volta che l’economia mondiale entra in un periodo di instabilità15. I programmi di stabilizzazione basati prima di tutto sulle ancore dei cambi e in un secondo momento, quando questa strada si mostrò insostenibile, su elevati tassi di interesse fecero precipitare questi paesi in una trappola, poiché, se da un lato riuscirono a debellare il processo inflazionistico, dall’altro resero difficile la ripresa dello sviluppo. Questo perché implicano alti tassi di interesse, necessari per attrarre un volume crescente di capitali per chiudere gli altrettanto crescenti deficit nei loro conti esteri, derivanti dall’apertura commerciale associata alla valorizzazione delle monete locali, dal pagamento dei servizi del debito estero e dall’incremento dei versamento di guadagni, dividendi, etc. L’entrata massiccia di prodotti importati a prezzi relativamente bassi e stabili ha controllato l’inflazione, ma ha causato enormi deficit nella bilancia commerciale. I risultati di tutto ciò, piuttosto evidenti in Brasile e in Argentina, furono la crescente vulnerabilità delle economie nazionali di fronte alle oscillazioni dell’economia mondiale, l’incremento della dipendenza nei confronti al capitale straniero e la stagnazione economica, che implica crescente disoccupazione e deterioramento della situazione sociale di ampi segmenti della popolazione16. Il nucleo di sostentamento di queste politiche risiede nel mantenimento di elevati tassi di interesse, che ricompensano egregiamente il capitale finanziario. L’innalzamento degli interessi, soprattutto nei periodi di instabilità dell’economia mondiale, è necessario, da un lato, a causa della necessità di evitare fughe di capitali e di attrarre capitali esteri per coprire i deficit nel conto corrente. D’altra parte, gli alti tassi sono necessari per deprimere l’attività economica e contenere, così, le importazioni e incentivare le esportazioni, contribuendo a migliorare i problemi del deficit nei conti esteri. Il mantenimento di tassi di interesse elevati, però, impedisce la crescita economica, gonfia il debito interno e approfondisce la crisi sociale. La logica di questa politica impone la recessione cronica come forma per affrontare l’inflazione e gli squilibri esteri e garantire gli interessi del capitale finanziario. La riduzione significativa degli interessi, stimolando l’attività economica, potrebbe esacerbare lo squilibrio estero, il che probabilmente porterebbe difficoltà nel chiudere i conti esteri e una forte svalutazione del cambio con conseguenze sui prezzi, il che esigerebbe, in accordo con la logica dei neoliberisti, la ripresa di misure di contenimento. La ripresa della crescita economica negli ultimi due anni non sembra aver invertito queste tendenze delineate nel decennio precedente. Fino alla metà degli anni 90, le politiche di aggiustamento neoliberista si sono sostenute in virtù del grande flusso di capitali esteri, che controbilanciavano gli enormi deficit nel conto corrente. A partire, però, dalla crisi asiatica e dalla grande instabilità che ne seguì questi flussi hanno subito una evidente inversione, accentuata anche dall’esaurimento dei processi di privatizzazione. Dal 1999, si osservano risorse liquide in uscita dall’America Latina. In questo anno, il trasferimento liquido di risorse fu di 1,8 miliardi di dollari e non ha più smesso di crescere, raggiungendo, nel 2004, circa 77 miliardi di dollari. I tassi di cambio fluttuanti non sono riusciti a ritornare alla vulnerabilità estera e così le oscillazioni dell’economia mondiale continuano ad avere forte ripercussione interna e ad esigere politiche recessive per affrontare le crisi internazionali. Questo ha riguardato direttamente i tassi di investimento. I tassi formazione lorda di capitale hanno presentato una persistente caduta fin dagli anni 70, sono scesi di circa il 25% durante la metà di quel decennio fino a circa il 20% durante gli anni 90 e tornarono a scendere ancora di più all’inizio di questo decennio (Dupas, 2005:29-30). Qui sembra risiedere la causa principale della tendenza alla crescita mediocre e instabile. Il superamento di questo quadro esige, e tutto sta ad indicarlo, la rottura con le politiche economiche neoliberiste che dominano la regione dagli anni 90. Il crescente scontento sociale non ha permesso fino a questo momento di articolare un progetto alternativo, sebbene indizi in questa direzione vengano alla luce dappertutto in America Latina. Alcuni paesi come la Bolivia e l’Ecuador si trovano in stato di insurrezione permanente. Altri, come la Colombia, in guerra civile cronica. In questo contesto, in America Latina si stanno sviluppando alcuni movimenti che non somigliano né a quello della Vecchia Sinistra, né ai nuovi movimenti dei paesi centrali, come il movimento Zapatista in Messico, il Movimento dei Sem Terra in Brasile, quello dei Cocaleros in Bolivia e quello dei Piqueteros in Argentina. Movimenti che in misura crescente hanno guadagnato spazio nelle lotte sociali, in un momento di relativo riflusso dei movimenti sindacali17. Questi movimenti, secondo Zibechi (2003), si sono caratterizzati per la ricerca di una nuova territorialità, che consisterebbe in una nuova forma di organizzare gli spazi conquistati nelle lotte sociali; per la ricerca di autonomia tanto rispetto allo Stato e ai partiti politici, quanto rispetto alle forme di organizzazione della vita e della produzione; per la rivalutazione delle loro culture e identità; per la capacità di formare le proprie leadership; per l’importanza delle donne nella loro organizzazione e per la preoccupazione di cambiare le relazioni di lavoro e quelle con la natura. La necessità di definire le relazioni con partiti e governi progressisti e forme di azione e organizzazione più includenti e coordinate pongono sfide enormi a questi movimenti. A grandi linee, i recenti movimenti sociali, che non sono necessariamente anticapitalisti, hanno acquisito, nell’ultimo decennio, nuove caratteristiche; agiscono a partire da un’agenda di emancipazione e non si limitano ad opporsi allo Stato e al capitale. Molti di questi movimenti sono propositivi, non realizzano esclusivamente diagnosi della realtà sociale, ma presentano anche proposte alternative, avendo come obiettivo la cosiddetta Partecipazione Cittadina, che consiste in un concetto ampio di cittadinanza fondato su diritti etici universali e su una concezione radicale della democrazia. Si ricerca l’uguaglianza, ma tenendo in considerazione le differenze culturali. Molti di questi movimenti sono piuttosto decentralizzati e agiscono in forma di rete. La capacità di mobilitare grandi masse sembra, però, essere diminuita se li confrontiamo con i movimenti sociali degli anni 70 o 80 (Gohn, 2003). Collegata a questa questione si osserva anche, in alcuni casi, la sostituzione delle popolazioni con organizzazioni che cercano di parlare a loro nome, il che ripropone il problema della rappresentatività nella misura in cui questi movimenti vanno acquisendo rilevanza nazionale o addirittura internazionale. Nel caso del Brasile, gli ampi movimenti di massi della fine degli anni 70 e degli anni 80, che furono essenziali per la fine del regime militare e per impedire l’avanzare del neoliberismo in quel momento, scomparirono negli anni 90. Tuttavia, si osserva lo sviluppo di molteplici movimenti di difesa delle culture locali, di rivendicazione dell’etica nella politica, di difesa dell’ecologia, di rivendicazione di servizi urbani e di abitazione, di difesa di minoranze sessuali, religiose e culturali, di lotta contro le politiche neoliberiste (contro l’ALCA, il Forum Sociale Mondiale, etc.), di lotta per l’educazione, di lotta contro la disoccupazione, di rivendicazione dell’accesso alla terra etc. Molti di questi movimenti hanno creato nuovi canali di partecipazione, in particolar modo attraverso i forum, e “hanno contribuito all’istituzionalizzazione di spazi pubblici importanti, come i differenti consigli creati nelle sfere municipale, statale e nazionale” (Gohn, 2003:23-33). Senza aver alcun dubbio sul fatto che, per la sua rilevanza e per la sua azione combattiva, il Movimento dei Lavoratori Sem Terra (MST) rappresenta il più importante di questi movimenti. Il movimento dei lavoratori urbani, che era stato piuttosto combattivo negli anni 80, in modo particolare sotto la leadership della Centrale Unica dei Lavoratori (CUT) anch’esso è stato attraversato da cambiamenti, ha smesso di essere contestatore e combattivo per assumere un atteggiamento di conciliazione e propositivo. In un ambito più generale, il movimento antiglobalizzazione fin dal Primo Incontro Internazionale per l’Umanità (1996), organizzato dagli zapatisti e passando, tra gli altri, per le manifestazioni di Seattle (1999) e Genova (2001), fino al Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre (2001 e 2002) sta tentando di forgiare un nuovo soggetto (o soggetti) sociali globali e sviluppare un nuovo atteggiamento, una nuova proposta di organizzazione politica, culturale, sociale ed economica alternativa alla situazione vigente, il che non significa necessariamente una proposta di superamento della società capitalista. Questo processo è complesso e contraddittorio, poiché l’eterogeneità sociale dei movimenti che lo compongono (vecchia e nuova sinistra, movimento per i diritti umani e una seria di altri movimenti locali, nazionali e globali) e la necessità di trovare proposte alternative alla situazione attuale e forme organizzative più unificate, senza, tuttavia, annullare i differenti movimenti, rende questo compito difficile. Nel frattempo, questi movimenti di resistenza alla globalizzazione, fino ad ora, non sono riusciti a costruire una alternativa alla società vigente. La loro capacità di superare questi problemi rappresenta una grande sfida e l’interrogativo del prossimo decennio.

4. Considerazioni finali

La crisi dei modelli economici cosiddetti “di sviluppo”, che hanno garantito alti indici di crescita economica in America Latina, ma senza risolvere i gravi problemi sociali della regione, fu evidente con la cosiddetta globalizzazione della società capitalista. Anche le differenti strategie per inserire i paesi latino-americani nel nuovo contesto mondiale, ispirate al neoliberismo, si sono dimostrate incapaci di far fronte ai problemi sociali e hanno contribuito in modo decisivo alla stagnazione economica che ha caratterizzato molti paesi della regione negli ultimi due decenni. Questo quadro non è, ovviamente, omogeneo, esistono molte differenze regionali che devono essere considerate. Lo Stato continua disimpegnando un ruolo centrale nella fase attuale, nonostante i cambiamenti che hanno reso la questione della governabilità più complessa e dipendente dall’azione delle istituzioni internazionali. La via d’uscita, però, non sembra essere, come asseriscono gli ideologi neoliberisti, l’inserimento passivo nel mondo globalizzato. Al contrario, l’utopia liberista di un’economia basata su mercati auto-regolati continua ad essere un miraggio. In realtà, le politiche neoliberiste, che hanno predominato nell’ultimo decennio nella periferia, sembrano essersi rapidamente esaurite. Altre forme di inserimento sembrano plausibili. La costruzione di nuove possibilità passa per i movimenti sociali di resistenza alla globalizzazione, che sono fioriti negli ultimi decenni. “Un altro mondo è possiblie”. Tuttavia, questi movimenti non sono riusciti, fino a questo momento, a forgiare un’alternativa consistente, ma questa alternativa è un processo in costruzione.

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note

1 L’articolo rappresenta una versione modificata da Corsi, 2002 e 2003.

2 Professore di Economia della Facoltà di Filosofia e Scienze dell’Università Statale di San Paolo (UNESP).

3 La Grande Depressione degli anni 30 e la Seconda Guerra Mondiale, provocando una relativa disarticolazione dell’economia mondiale, come i nostri studi avevano suggerito (Corsi, 2000), hanno aperto nuove possibilità di sviluppo per alcuni paesi sottosviluppati che già avevano raggiunto un certo livello di sviluppo capitalista. Questi progetti diretti all’industrializzazione con sovranità nazionale, che hanno proliferato nella periferia del sistema tra gli anni 30 e 70, nella maggioranza dei casi sono venuti a crollare a partire dagli anni 80. Anche i progetti di sviluppo associato al capitale straniero, che fiorirono a partire dalla seconda metà degli anni 50, fallirono nella maggior parte dei casi. Anche il fallimento dei progetti socialisti può essere visto sotto questa ottica, poiché questi, tra gli altri aspetti, rappresentavano alternative di sviluppo al sistema capitalista. Sebbene avessero ottenuto un parziale successo per quello che riguarda l’industrializzazione, lo sviluppo tecnologico e il miglioramento del livello di vita delle loro popolazioni, il fallimento di questi progetti rafforzerebbe, secondo diversi autori, le enormi difficoltà di uno sviluppo economico, sociale, politico e culturale della periferia capitalista fuori dell’ambito della società capitalista globale (Arrighi, 1996; Corsi, 2002).

4 In parte, come risultato di questo quadro di crisi generale, si osserva una rilevante crescita della disoccupazione. Secondo Pochmann (1999:39), si stima che, di una popolazione economicamente attiva di 2,5 miliardi di persone in tutto il mondo, circa il 35% si trova disoccupata o sottoccupata.

5 Tra il 1999 e il 2000 il PIL nord-americano è cresciuto del 3,2%, mentre tra il 1995 e il 2000 è cresciuto del 4,1%. L’esplosione della bolla speculativa, nel 2000, ha portato, però, l’economia a declinare.

6 In un contesto dominato dal processo di trasformazione in oligopoli dei principali settori dell’economia, che furono dominati da imprese giganti -solidi blocchi di capitale- la distruzione del capitale eccedente sembra essere sempre più difficile, prolungando così la durata delle crisi, come già era stato evidente durante la Grande Depressione degli anni 30. Secondo Brenner (1999) la superproduzione ha persistito, fino ad oggi, grazie ad una serie di fattori: 1- L’esistenza di enormi quantità di capitali fissi non totalmente svalutati in vari rami di produzione. Sarebbe irrazionale distruggere questo capitale già pagato mentre fosse possibile ottenere ritorni ragionevoli sul capitale in circolazione. In questo modo le imprese non escono dagli ambiti della superproduzione. 2- Le grandi imprese che dominano i mercati mondiali possiedono vasta esperienza nei loro ambiti e, quindi, un enorme capitale non tangibile (collegamenti con fornitori e consumatori e conoscenze tecnologiche), che le portano a rimanere negli ambiti nei quali attuano e a reinvestire almeno parte dei guadagni in questi stessi settori. 3- L’esistenza di monopoli tecnologici permette alle imprese di ottenere temporaneamente tassi di guadagno elevati, scoraggiando l’uscita dal settore. 4- La relativa stagnazione (ridotti aumenti di investimenti e salari) restringe la crescita più accelerata di nuove linee di prodotti che potrebbero attrarre maggiori quantità di investimenti. 5- Germania e soprattutto Giappone (anni 70 e 80) e i paesi dell’est asiatico (1970-1997), hanno continuato ad investire pesantemente, basandosi sui vantaggi dell’associazione di manodopera a basso costo e alta tecnologia, e assorbirono crescenti segmenti del mercato mondiale, sebbene aggravassero la crisi di superproduzione globale. Tutti questi fattori sembrano aggravare oltremodo la soluzione della crisi di superproduzione.

7 È opportuno, tuttavia, menzionare che molti movimenti settoriali che fiorirono a partire da allora, come il movimento femminista, ottennero significative vittorie.

8 Tra il 1980 e il 2000, il PIL coreano è cresciuto in media il 5,4% annuo. Tra il 1973 e il 2000, l’economia cinese è cresciuta in media l’8,0% annuo. Tra il 1990 e il 1998, il numero di poveri in Cina è sceso da 360 a 214 milioni. Questa riduzione è stata la responsabile della caduta del numero di poveri nel mondo in quel periodo. l’India, negli anni 90, è cresciuta in media il 6% l’anno, non essendo stata raggiunta dalla “crisi asiatica”. Dal 1999 il deficit pubblico si è mantenuto intorno al 10% del PIL e anche così l’inflazione è stata appena del 3% (Banca Mondiale, 2003; Coutinho, 1999; Gonçalves, 2002; Batista Jr., 2003).

9 Il Brasile, per esempio, è cresciuto in media, tra il 1990 e il 1997, l’1,7% annuo, praticamente allo stesso ritmo della popolazione. Dal 1992 al 1999, la distanza salariale tra il 10% più ricco e il 40% più povero è cresciuta da 13 salari minimi a 17 (Alves, 2002). Il Cile, tra il 1989 e il 1998, è cresciuto del 6,35% in media ogni anno (Cano, 2000).

10 Tra il 1970 e il 1980 il debito estero dell’America Latina è passato da 16, a 130 miliardi di dollari americani, in Africa e in Medio Oriente è passato da 9 a 97 miliardi di dollari, in Europa Orientale da 3 a 47 miliardi di dollari, e infine in Asia è passato da 17 a 83 miliardi di dollari (Altvater, 1995:13-14).

11 In America Latina l’adozione di strategie neoliberiste ha inizio già negli anni 70, nel momento dell’insediamento delle dittature militari in Cile e in Argentina (Reyno, 2005).

12 Riguardo alla problematica dell’inserimento passivo nel processo di globalizzazione, vedi Gonçalves, 2002.

13 É opportuno notare che gli interessi pagati dai paesi della regione erano superiori a questi tassi a causa degli elevati spreads derivanti dall’alto rischio di questi prestiti.

14 Questo termine veniva già utilizzato, fin dalla fine degli anni 80, da J. Williamson per indicare il programma liberista di riforme che proponeva per l’America Latina (Fiori, 1997). In linee generali le proposte erano le seguenti: 1) Stabilizzazione macroeconomica attraverso l’adozione di piani monetari che legassero le monete nazionali al dollaro e di politiche monetarie, creditizie e fiscali di contrazione. Uno dei punti centrali sarebbe la questione dell’aggiustamento fiscale, che dovrebbe essere ottenuto attraverso un attivo nella bilancia commerciale. La riforma dei sistemi di previdenza sociale e la riforma amministrativa sarebbero fondamentali per raggiungere questa meta. 2) Introduzione di riforme strutturali mirando all’apertura delle economie nazionali, il che implicava riduzioni di tariffe e deregolamentazione dei mercati finanziari e dei capitali. 3) Riduzione della presenza dello Stato nell’economia, incentrata su un vasto programma di privatizzazione delle imprese statali. Si riteneva che solo dopo aver implementato questo insieme di riforme sarebbe stato possibile riprendere la crescita in modo più sostenibile. Si riteneva anche che per implementare programmi di questa natura, sarebbero stati necessari governi stabili e con larga base di sostenimento politico e sociale, poiché gli oneri delle riforme sarebbero stati pesanti per la maggior parte delle popolazioni dei paesi latino-americani (Fiori, 1997. I prossimi paragrafi si basano su questo lavoro).

15 Il tasso medio di disoccupazione per il settore urbano, in America Latina, è passato dal 5,9% della PEA(?), nel 1990, al 7,9% nel 1998. Queste cifre, però, non tengono conto della precarizzazione del mercato del lavoro, l’informalità è infatti passata dal 40%, nel 1980, al 56% nel 1995. Per questa regione, nel 1980, il livello di povertà corrispondeva al 25% da popolazione urbana e quello dell’indigenza al 9%. Nel 1994, questi numeri erano rispettivamente il 34% e il 12%. Per la popolazione rurale i numeri sono più drammatici: i poveri e gli indigenti, nel 1994, corrispondevano al 55% e al 33% rispettivamente (Cano, 1999:317-318).

16 Il debito estero dell’America Latina tra il 1989 e i 1999 è cresciuto da 450 miliardi di dollari a circa 750 miliardi (Cano, 2001). Nel 2004, il debito era di poco inferiore, circa 727 miliardi di dollari (CEPAL, 2004:481). In molti paesi, si è osservato una crescita esplosiva del debito interno, che ha aggravato la crisi fiscale. A titolo di esempio possiamo citare il debito interno brasiliano, che passò da circa 60 miliardi di “real”, nel 1995, a 685 miliardi nel gennaio del 2002. Oggi, il debito è di circa 850 miliardi di “real”. Questo grave deterioramento del debito è stato dovuto, in grande parte, agli alti tassi di interesse e alla svalutazione della moneta a partire dal 1999. La necessità di ottenere risorse per chiudere la bilancia dei pagamenti e rispettare il debito interno rende fragili i governi di fronte al capitale finanziario globalizzato. A questo capitale interessa garantire il pagamento dei debiti e, di conseguenza, cerca, appoggiato dal FMI e dalla Banca Mondiale, di imporre politiche che garantiscano la stabilità dei prezzi, la libera circolazione dei capitali e la salute delle finanze pubbliche, intesa come la capacità di generare crescenti attivi nella bilancia commerciale. La mancata realizzazione di queste mete pone i paesi periferici alla mercè dei movimenti fluttuanti dei capitali finanziari. La situazione, però, é insostenibile. Nel caso del Brasile, sebbene il governo di Fernando Henrique Cardoso abbia raggiunto attivi di bilancio nell’ordine del 3,5% del PIL negli ultimi anni, le rate del debito pubblico corrispondono a circa il 7% del PIL. La situazione non è cambiata con il governo Lula. Nonostante quest’ultimo abbia rafforzato la politica fiscale, raggiungendo attivi di bilancio nell’ordine del 4,25% del PIL, il debito ha continuato ad aumentare. La situazione non solo è stata peggiore a causa della crescita del 4,9% del PIL nel 2004, che ha stabilizzato la relazione debito/PIL. In questo modo, al contrario di quello che proclamano i difensori dell’attuale politica economica, la traiettoria del debito é ascendente. Stagnazione economica, approfondimento della crisi fiscale e deterioramento della situazione economica e sociale delle popolazioni più carenti é il risultato di questa politica (Singer, 2002; Lacerda, 2002).

17 La nuova ondata di innovazioni tecnologiche associata alle nuove forme di organizzare la produzione e alla bassa crescita economica si sono tradotte nella relativa diminuzione della classe operaia, nella crescita del lavoro intellettuale, nella crescita del lavoro part-time, temporaneo e terziarizzato e nella crescita della disoccupazione. Questi cambiamenti hanno contribuito alla segmentazione della classe lavoratrice e alla diminuzione della sua coscienza e capacità di mobilitazione. Sembra che ci troviamo, come segnala Hobsbawm (1992), di fronte alla fine del movimento dei lavoratori classico. “Oggi, quello che succede non è che la classe lavoratrice si sia estinta, ma la coscienza di classe non rivela più questa unione [...] Il problema non è tanto la oggettiva deproletarizzazione provocata dal declino del TRABALHISMO industriale vecchio stile, ma il declino soggettivo della solidarietà di classe” (Hobsbawm, 1992:182). Questa crisi di identità, derivante da complessi processi politici, sociali, economici e culturali, delineatesi nel dopo guerra, ha come conseguenza la segmentazione, la disorganizzazione e la depoliticizzazione della classe lavoratrice, rendendo difficile l’azione dei lavoratori come classe.