Profit State e crisi delle democrazie contemporanee

Mauro Fotia

1. Capitalismo finanziario e globalizzazione dell’economia

 

 

Lo scenario economico e politico delle democrazie capitalistiche, dopo i tormentati anni Trenta, si ritrova ad affrontare nuove profonde trasformazioni nei primi anni Settanta, trascinandosele dietro aggravate ogni anno più sino ai nostri giorni.

Due choc petroliferi, il disordine monetario, l’inflazione, il rallentamento del tasso di sviluppo, l’appesantimento del bilancio dello Stato mettono in evidenza un forte peggioramento della performance economica dei maggiori Paesi industriali dell’Occidente.

In particolare, peggiora il trade-off tra disoccupazione e inflazione. L’aumento dei prezzi si accompagna ad un rallentamento della crescita economica di medio periodo e, nel breve termine, a quote più o meno apprezzabili di capacità produttiva inutilizzata. L’inflazione cioè coesiste con la disoccupazione dovuta a difetto di accumulazione di capitale (disoccupazione strutturale) e con la disoccupazione provocata da deficienza di sbocchi (disoccupazione congiunturale). All’accoppiata inflazione strisciante-sviluppo subentra così l’abbinamento dell’inflazione aperta col ristagno (fenomeno detto della stagflazione).

L’intreccio, poi, di queste difficoltà economiche con difficoltà sociali e politiche, specie con quelle derivanti dall’aumento del tasso di conflittualità e della fine anticipata delle legislature, deteriora ulteriormente la situazione.

L’interpretazione di questi fenomeni - e cioè del carattere globale assunto dall’aumento dei prezzi e del suo verificarsi contemporaneamente al ristagno se non alla recessione - diviene materia di grandi controversie tra le diverse scuole economiche.

Tra le spiegazioni più rilevanti, due meritano di essere ricordate per l’importanza assunta nel dibattito scientifico e politico: la neomarxista da un lato, quella neoliberista dall’altro.

La prima spiegazione inserisce il problema della crisi nell’ambito di una più generale teoria dello stato e dei rapporti tra stato e società civile nei sistemi a capitalismo maturo. Nell’analisi di Offe, ad esempio, le tendenze autodistruttive immanenti al capitalismo stesso non sarebbero risolte, ma solo attenuate o temporaneamente rinviate dai cosiddetti “meccanismi di recupero” [1]. Così, se negli anni Trenta l’intervento economico dello stato aveva permesso di trovare una via d’uscita dalle difficoltà della depressione, oggi la contraddizione tornerebbe a riemergere, manifestandosi nei fenomeni sintetizzati da O’Connor nella nota formula della “crisi fiscale dello stato”  [2]. Alla base vi sarebbe l’esigenza dello stato nel capitalismo maturo di assolvere due esigenze tra loro contraddittorie: sostenere da un lato il processo di accumulazione, e ad un tempo garantire la lealtà e il consenso delle classi subalterne. Nella tensione tra spese sociali per il consenso e sostegni all’investimento si produce un vuoto finanziario che genera crisi fiscale ed inflazione, ed alla lunga l’arresto dello stesso processo di accumulazione.

La spiegazione neo-liberista ricerca invece le ragioni della crisi nell’impatto del modello keynesiano di controllo dell’economia con i meccanismi della democrazia politica. Nella concezione di Keynes, essa sostiene, la gestione pubblica dell’economia doveva essere affidata a saggi od esperti al di sopra delle parti, isolati dal processo politico e liberi di assumere le proprie decisioni indipendentemente dalle “pressioni democratiche”: in tale contesto l’intervento dello stato poteva e doveva essere orientato non solo in senso espansivo ma anche restrittivo, a seconda delle circostanze. Al contrario, l’incontro dei principi keynesiani, ed in particolare l’abbandono del vincolo della parità di bilancio, con le istituzioni della democrazia e quindi con la pressione delle domande sociali sarebbe alla base degli squilibri attuali (crescente deficit di bilancio, stagflazione). Se la soluzione indicata dagli autori di approccio neomarxista era sostanzialmente di superare il capitalismo per salvare le democrazia, la soluzione neoliberista suggerisce di ridurre invece gli spazi di democrazia: isolare i governi dalle pressioni popolari, contenere gli interventi economici dello stato, ripristinare il funzionamento del mercato - in primo luogo del mercato del lavoro [3].

Entrambe queste spiegazioni tuttavia non convincono. Esse hanno alla base un meccanismo interpretativo sostanzialmente simile: il tentativo di spiegare una variabile (la crisi degli anni Settanta e i suoi successivi sviluppi) con una costante (l’incompatibilità tra capitalismo e democrazia).

Meriti tuttavia vanno riconosciuti a quegli studiosi che hanno analizzato taluni gruppi di cause e di circostanze attive, nel lungo termine, nel modificare la scena economica mondiale di questo periodo.

Essi hanno individuato la cornice dell’inflazione e della stagflazione, che stanno a monte dei successivi processi di globalizzazione, nella crescente integrazione dei mercati nazionali, sia dal lato dei prodotti che dal lato dei capitali, e nell’introduzione di elementi politici, non riconducibili alla semplice meccanica delle forze di mercato o alle relazioni economiche tra classi sociali o tra segmenti delle borghesie nazionali e degli establishment politici dei diversi Paesi.

L’integrazione dei mercati ha costituito, nella versione più debole che se ne è data, un fattore permissivo della diffusione dell’inflazione
 così come era stato un elemento necessario nel quarto di secolo post-bellico allo sviluppo economico diffuso nell’area occidentale. L’idea che regge questa ipotesi è quella dell’economia dominante (gli USA) da cui provengono stimoli monetari (sotto forma di accresciuta liquidità internazionale, cioè emissione di dollari che poi circoleranno nel resto del mondo) o stimoli reali (cioè domanda effettiva di merci prodotte dagli altri paesi e importate negli USA), che si traducono nell’addizione di potere d’acquisto ingente o incontrollato nei mercati esteri provocando una combinazione variabile di aumento delle produzioni e aumento dei prezzi.

La tesi dell’integrazione economica internazionale e del connesso ruolo predominante degli USA come fonte dell’inflazione nel resto del mondo, ha ricevuto ulteriore sostegno dallo statuto particolare assunto esplicitamente dal dollaro a partire dall’agosto del 1971, da quando cioè ne fu dichiarata anche formalmente l’inconvertibilità. Da quell’epoca è apparso che l’ultimo riferimento della moneta per eccellenza, cioè della moneta internazionale, ad una condizione oggettiva per la sua emissione e circolazione - cioè alle condizioni di produzione di una merce, l’oro - è venuto meno, conferendo un signoraggio illimitato al paese la cui moneta nazionale serve anche come principale mezzo di pagamento internazionale. Al tempo stesso questa “grande trasformazione” sopraggiunta negli anni ’70 si è venuta ad innestare in una situazione profondamente modificata, rispetto al dopoguerra, nei rapporti economici internazionali. Alla supremazia incontrastata degli USA come paese leader nel progresso tecnico, nella produzione di nuove merci, e come centro finanziario egemone, ha fatto seguito la formazione di due poli in Europa (la Germania) ed in Asia (il Giappone) che reggono le fila dei rapporti economici nelle rispettive aree di influenze ed hanno l’ambizione di contrastare o condividere l’egemonia americana. La fase di trapasso da una situazione all’altra - cioè da rapporti economici internazionali fortemente gerarchizzati a rapporti articolati su più aree o potenze economiche concorrenti - non si è ancora compiuta: l’integrazione economica sorretta da un centro dominante si è rovesciata quindi in una condizione di grande instabilità, di cui la spia fenomenica è data dalle fluttuazioni nei valori reciproci delle monete più rappresentative e dall’andamento a singhiozzo del commercio internazionale.

Qui gli studiosi in questione vengono ad introdurre il secondo gruppo di fenomeni che concorrono a delineare la congiuntura attuale come combinazione di inflazione e ristagno presenti in forme più o meno acute sui singoli mercati nazionali, quelli che abbiamo chiamato prima elementi politici.

Gli economisti includono questi fattori sotto il segno dell’accresciuto “potere di mercato”, attribuendovi un carattere permanente, oppure pensando che essi costituiscano la causa di occasionali (anche se costose, sotto il profilo del benessere collettivo) deviazioni di prezzi e dei redditi dai loro valori normali, di lungo periodo. Il riferimento più immediato all’esercizio di un “potere di mercato” come fonte dell’inflazione internazionale, è il cartello dei paesi produttori di petrolio (Opec) che ha provocato alla fine del 1973, col forte aumento (quasi quattro volte) del prezzo del greggio, il rialzo dei costi e dei prezzi in tutte le economie consumatrici di petrolio.

La “tassa degli sceicchi” ha avuto nel breve periodo un duplice effetto sui paesi importatori di greggio: inflazione dei prezzi e deflazione delle quantità prodotte (a causa delle politiche economiche restrittive adottate da questi paesi per creare, nel settore non petrolifero della bilancia dei pagamenti, un surplus con cui pagare le più costose importazioni di petrolio). Nel medio termine, il rincaro del petrolio si è portato dietro il rincaro di tutte le fonti di energie, una parziale sostituzione delle fonti non petrolifere al petrolio nei consumi dei paesi industrializzati, modifiche nei prezzi relativi dei diversi settori dell’economia dal lato della produzione e cambiamenti negli schemi di domanda della popolazione. Ma la tassa esatta dai produttori di petrolio non è stata riscossa, se non per piccola parte, in termini di merci e servizi, cioè mediante un flusso di accresciute esportazioni di manufatti industriali verso i paesi dell’Opec. Per cui il tentativo dei paesi consumatori di costituire un avanzo nel settore non petrolifero della bilancia dei pagamenti, quando è riuscito, si è risolto in guerra commerciale agli altri paesi, cioè nell’aumentare le quote di mercato a spese degli altri. Il disavanzo petrolifero dei paesi industrializzati si è trasformato in un gigantesco investimento finanziario (per lo più a breve termine): i dollari riscossi dai produttori di petrolio sono stati collocati in obbligazioni, depositi bancari, raramente in azioni. Sono serviti a finanziare operazioni che vanno dalla speculazione nei cambi, ai programmi di investimento alle imprese di pubblica utilità, attraverso le banche satatunitensi e le loro filiali europee. Il carattere prevalentemente liquido degli investimenti finanziari fatti da alcuni grandi esportatori di petrolio ha contribuito all’instabilità dei mercati valutari (con tutte le ripercussioni che ciò ha sui flussi di merci e di capitali da paese a paese) ed ha innescato una mina vagante per la solvibilità delle banche detentrici degli averi in dollari, rendendo concreto il rischio di dissesti bancari a catena [4].

I processi di finanziarizzazione rappresentano peraltro la nuova chiave esplicativa della globalizzazione dei giganteschi fenomeni speculativi che caratterizzano l’economia contemporanea. Per questo gli economisti, come i politologi, più attenti si avvalgono di essa per cogliere le disastrose dinamiche dei fenomeni stessi.

Tanto significativamente mostra il volume di Rita Martufi e Luciano Vasapollo, Profit State, redistribuzione dell’accumulazione e reddito sociale minimo, La Città del Sole, Napoli, 1999. Un lavoro estremamente rigoroso e al contempo impegnato che si presenta come il frutto di circa due anni di ricerche compiute dai due giovani autori con l’ausilio del “Centro Studi di Trasformazioni Economico-Sociali” (CESTES), dell’Unione Popolare, dell’Associazione Progetto Diritti e con il determinante contributo della rivista “Proteo”.

Martufi e Vasapollo colgono puntualmente il nucleo centrale del ciclo ridefinitorio dello sviluppo capitalistico, avviatosi sin dagli anni Settanta, ma giunto a compimento nell’ultimo decennio, nella finanziarizzazione di ogni attività economica di rilievo.

Trattasi invero di una trasformazione diretta a realizzare profitti crescenti e con sempre minore fatica, a conquistare rendite di posizione suscettibili di dilatarsi ogni giorno più, senza arresti. Il capitalismo finanziario infatti promuove investimenti scollegati dai processi di produzione reale. Esclusivamente volti, in altre parole, a massimizzare il profitto complessivo concretato da incrementi di dividendi, interessi, capital gain.

Oltretutto, il sistema finanziario globale, che viene a formarsi in conseguenza dei massicci processi di finanziarizzazione di cui parliamo, risulta estremamente instabile.

Dal 19 ottobre 1987, il “lunedì nero”, in cui gli analisti ritengono si sia sfiorato il totale tracollo della Borsa valori di New York, si è sviluppato un modello estremamente variabile, caratterizzato da frequenti e sempre più gravi sconvolgimenti delle principali borse, dal crollo delle divise nazionali in Europa Orientale e America Latina, nonché dalla caduta a picco dei nuovi “mercati finanziari periferici” (quelli di Messico, Bangkok, Cairo, Bombay), fatti precipitare dalle “vendite di realizzo” e dall’improvvisa ritirata dei grandi investitori istituzionali.

I mercati periferici sono così divenuti il nuovo mezzo per ottenere il surplus dai paesi in via di sviluppo.

Si è sviluppato anche un nuovo ambiente finanziario globale: l’ondata di fusioni di imprese verso la fine degli anni Ottanta ha spianato la strada al consolidamento di una nuova generazione di finanzieri raggruppata intorno alle banche di affari, agli investitori istituzionali, alle società di brokeraggio, alle grandi compagnie di assicurazioni.

In questo processo, le funzioni delle banche commerciali si sono fuse con quelle delle banche di investimento e dei mediatori di borsa.

Pur ricoprendo un ruolo importante nei mercati finanziari, questi “amministratori di denaro” si allontanano sempre più dalle funzioni imprenditoriali nell’economia reale. Le loro attività (che sfuggono al controllo statale) includono transazioni speculative in futures e derivati, e la manipolazione dei mercati valutari. I principali attori finanziari sono di solito coinvolti in “depositi di denaro scottante” nei mercati emergenti dell’America Latina e del Sud-Est asiatico, nonché del denaro riciclato e dello sviluppo di banche private specializzate nel consigliare i clienti ricchi nei tanti paradisi fiscali.

Il giro d’affari delle transazioni di valuta estera è nell’ordine di 1.000 milioni di dollari al giorno, di cui solo il 15 per cento corrisponde all’effettivo scambio di merci e flusso di capitale. In questa rete finanziaria globale, il denaro passa a gran velocità da un paradiso fiscale all’altro, nella forma intangibile di trasferimenti elettronici. Le attività affaristiche legali e illegali si intrecciano sempre più e vengono accumulate ingenti ricchezze private non denunciate.

Favorite dai programmi di aggiustamento strutturale e dalla concomitante deregolamentazione del sistema finanziario, le mafie hanno allargato il raggio d’azione al campo dell’attività bancaria internazionale. In diversi paesi in via di sviluppo, i governi sono sotto l’influenza delle organizzazioni criminali. queste si sono impadronite di numerose proprietà statali mediante programmi di privatizzazione presentati dalla Banca mondiale.

 

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2. Neoliberismo globale e precarizzazione della vita sociale

 

Come che sia, non deve perdersi di vista che, da un punto di vista culturale, siffatta rivoluzione non è niente altro che un naturale sviluppo delle logiche capitalistiche, delle loro origini legate all’esaltazione dello spirito individuale d’intrapresa, alla centralità del profitto come motore dello sviluppo, al ritorno, insomma, agli “spiriti animali” dell’economia concorrenziale e del mercato autoregolato. Il capitalismo finanziario in effetti enfatizza l’iniziativa capitalistica, attacca ogni forma di solidarismo, insegue forme economico-sociali di darwinismo capaci di spazzare via dal mercato non solo le imprese più deboli, ma anche quelle che in qualsiasi maniera risultino idonee a contrastare il dominio assoluto dei grandi gruppi, combatte fortemente tutto ciò che esprime relazioni sociali a contenuto valoriale non monetizzabile.

Gli archetipi del capitalismo finanziario sono due: quello anglosassone e quello renano-nipponico. Il primo modello che ha per capostipite gli Stati Uniti e per proseliti, da due decenni, l’Inghilterra, il Canada e l’Australia, è contraddistinto in genere da un forte spirito competitivo, dalla preminenza della tradizione utilitaristica individuale, dalla massimizzazione dei profitti a breve termine, dalla supremazia delle corporation. Il secondo modello, tenuto a battesimo dalla Germania e condiviso pur in diversa misura, oltre che dal Giappone, da vari paesi del nord Europa, si fonda su una combinazione fra iniziativa privata e politiche economiche pubbliche, sulla ricerca di una qualche partecipazione, su un intreccio più o meno stretto fra banche e imprese, sulla programmazione degli investimenti a medio lungo periodo. Il referente finanziario per il modello anglosassone è il mercato borsisitico, per il modello renano-nipponico è il sistema banca-impresa.

Se il primo modello sembra più vantaggioso per efficienza economica e capacità di reazione alle innovazioni, non lo è altrettanto per quanto riguarda la distribuzione del reddito e la solidarietà verso le fasce più deboli della popolazione, e viceversa.

Gli interrogativi sul nostro futuro non riguardano unicamente l’esito di tale competizione: come essa si concluderà e quale dei due modelli, o quale altro ancora, riuscirà a imporsi. C’è da chiedersi infatti se, al di là del successo riportato dal capitalismo in virtù delle sue maggiori capacità di produrre sviluppo, le sue forme di organizzazione e i suoi meccanismi siano ora in grado non solo di garantire un’ulteriore crescita dei paesi più industrializzati ma anche di scongiurare un aggravamento degli squilibri con il resto del mondo, aiutando le aree più deboli a liberarsi del fardello dell’indigenza e da uno stato di avvilimento e di emarginazione.

Quel che è avvenuto negli ultimi anni ha modificato profondamente il quadro di riferimento delle economie più avanzate e, di conseguenza, anche la natura e i termini dei loro rapporti con i paesi in via di sviluppo. La sempre più accesa competizione su scala mondiale ha determinato il decentramento di una quota consistente di attività produttive e di investimenti diretti, dai paesi più avanzati, caratterizzati tanto da una maggior rigidità del mercato del lavoro quanto da una più accentuata dinamica salariale, verso alcune aree periferiche a più basso costo del lavoro dove è possibile inoltre utilizzare in modo assai più duttile e prolungato, per l’assenza di vincoli sindacali, sia le prestazioni della manodopera che le potenzialità degli impianti, e far conto talora su particolari esenzioni in materia fiscale.

In Italia, rilevano gli autori del volume che qui stiamo analizzando, l’archetipo destinato ad attecchire è quello più aggressivo, espresso dal capitalismo finanziario anglosassone. L’ipotesi infatti che sembra affacciarsi di più sul panorama economico-finanziario italiano è quella di un neoliberismo selvaggio, poco preoccupato delle compatibilità socio-politiche del modello di sviluppo economico.

Il quadro teorico entro il quale il capitalismo finanziario si muove a livello mondiale è fornito da una visione ispirata e sorretta dal famigerato pensiero unico di questi anni, vale a dire dal neoliberismo globale.

Per questo i danni provocati sul piano sociale e politico sono incommensurabili. Intanto, gli investimenti finanziari nella grande maggioranza dei casi distruggono ricchezza reale. Riducono gli investimenti produttivi, mettendo in forse l’efficienza delle imprese e determinando di conseguenza un alto tasso di disoccupazione ed un incremento dei costi sociali in genere. Disarticolando inoltre i meccanismi del tessuto produttivo, creano elementi reddituali e patrimoniali a bassa tassazione, se non addirittura facili alla totale evasione ed elusione fiscale. L’Italia in questo senso, osservano Martufi e Vasapollo, in quanto favorita da una Borsa giovane, asfittica, instabile, appare pronta più che altri Paesi a consentire a i nuovi mercenari del capitalismo finanziario di rincorrere l’illusione della ricchezza cartacea. Oltretutto neppure nei casi di forte capitalizzazione borsistica può darsi per assicurato uno sviluppo dell’economia reale. E così accade spesso che la “bisca finanziaria” elargisce premi a quelle imprese capaci di tagliare l’occupazione e diminuire i salari.

Gli alti contenuti di flessibilità lavorativa esigiti dagli investimenti finanziari sono un altro risultato deleterio di questa forma di espansione drogata. Per massimizzare i profitti la strada più facile è la compressione dei redditi da lavoro dipendente, la riduzione dei salari [i].

In questo senso, nel fondo del sistema economico globale s’annida una pesante contraddizione. Essa scaturisce dalla non compatibilità del conflitto esistente tra ricerca di nuovi mercati e diffusione del lavoro a basso costo.

La minimizzazione del costo del lavoro mina l’espansione del mercato dei consumi, poiché l’impoverimento di vasti settori della popolazione mondiale, sotto i colpi della riforme macroeconomiche, conduce ad una drammatica riduzione del potere d’acquisto.

Inoltre, sia nei paesi in via di sviluppo, che in quelli industrializzati, i bassi livelli dei salari si ripercuotono sulla popolazione, provocando un’ulteriore sequela di chiusure di stabilimenti e di fallimenti. Ad ogni stadio di questa crisi, si va incontro alla sovrapproduzione mondiale e al calo della domanda di consumo. Riducendo la capacità di consumo della società, le riforme macroeconomiche applicate su scala mondiale ostacolano in definitiva l’espansione del capitale.

In un sistema che genera sovrapproduzione, le aziende e le società commerciali possono soltanto ampliare i propri mercati, indebolendo o distruggendo simultaneamente le basi produttive interne dei paesi in via di sviluppo, ovvero sganciandosi dalla produzione nazionale orientata al mercato interno. In tale sistema, l’espansione delle esportazioni nei paesi in via di sviluppo si fonda sul calo del potere d’acquisto interno. La povertà fa da introduzione all’offerta. I mercati emergenti vengono aperti con la concomitante sostituzione del sistema produttivo preesistente, le piccole e medie imprese sono costrette a fallire oppure si trovano obbligate a produrre per un distributore mondiale, le imprese statali vengono privatizzate o chiuse, i produttori agricoli indipendenti si impoveriscono [i].

Sul piano sociale generale ne consegue una precarizzazione dell’intero tessuto collettivo ed un forte abbassamento della qualità della vita. Fatti che alimentano diffuse e sempre più drammatiche condizioni di disagio, in particolare fra gli strati più deboli.

 

 

3. Privatizzazioni e sostituzione del Welfare State col Profit State

 

 

Tra le misure economiche idonee a far raggiungere il pieno dominio dei mercati da parte del capitalismo finanziario si distinguono le privatizzazioni. Il fenomeno delle privatizzazioni, caratteristico dell’ultimo ventennio, esprime meglio che ogni altro intervento la necessità dei vari modelli di capitalismo finanziario di mettere in discussione sul piano mondiale
 a partire naturalmente dalle nazioni occidentali ad economia avanzata - le conquiste del movimento operaio. Dando per scontato che le politiche di mediazione economico-sociali di stampo keynesiano sono divenute oramai incompatibili.

Si va dall’offerta pubblica di vendita (OPV), assai seguita nei Paesi occidentali (senza tuttavia escludere Paesi di altri continenti come il Giappone, la Tailandia, la Malesia), all’asta pubblica, praticata nelle nazioni dell’Est europeo, unitamente alla procedura dei “buoni cartolari”, che, dopo esser stati convertiti in azioni, sono stati distribuiti al pubblico a prezzi vantaggiosi, realizzando una sorta di azionariato popolare. Nei Paesi, poi, caratterizzati da una situazione di estrema crisi finanziaria, bisognosa di metodi di dismissioni semplici e rapidi, viene usata la trattativa privata. Tanto è accaduto in nazioni dell’America Latina quali l’Argentina, il Brasile, il Cile, la Bolivia, il Messico. E ancora, in Paesi sia avanzati che in via di sviluppo è stata utilizzata anche la cessione delle azioni ai dipendenti e ai manager dell’azienda stessa (Employees buy out). Infine, seppure a livello locale, negli Stati Uniti, in Canada, in Inghilterra, in Giappone, si è ricorsi al metodo della concessione di attività in appalto ai privati.

Nonostante i processi di ristrutturazione, riconversione, innovazione tecnologica avviati in seno alle imprese privatizzate, spesso l’aumento di efficienza e di produttività è stato illusorio. In realtà, è molto difficile stabilire un nesso tra proprietà dell’azienda e sua efficienza. Senza dire che gli indicatori tipici di efficienza e produttività aziendale non sono quasi mai trasportabili dal privato al pubblico e viceversa sulla base di semplici criteri quantitativi.

In ogni caso fortemente negative sono state le ripercussioni delle privatizzazioni sul piano della vita sociale e di quella politica.

In campo sociale sono conseguiti dannosi processi di privatizzazione del pubblico impiego, di desocializzazione di servizi pubblici di singolare portata civile, come la sanità e l’istruzione, di aziendalizzazione delle funzioni più tipiche del Welfare State.

Finalità ultima cui tutto appare rivolto è quella di abbattere ogni situazione che si riveli non dico conflittuale, ma semplicemente non omologabile alle compatibilità del profitto. Sì da poter dar vita ad un patto sociale complessivo che annienti ogni antagonismo, da innescare un panconsociativismo idoneo ad inglobare per intero tutti i rapporti sociali.

Sul piano politico, infine, il disegno palese da portare a compimento è quello di togliere allo Stato il ruolo di garante e di regolatore dei conflitti. Poiché gli interessi si aggregano ormai per settori, ragionano i teorici del neoliberismo globale, non c’è più l’esigenza di pensare in termini di interessi generali. E dunque lo Stato può liberarsi della sua natura di entità pubblica. La ristrutturazione moderna delle sue istituzioni deve ispirarsi ad una visione privatistica delle realtà politiche [5].

Il che, detto in termini ancora più espliciti, afferma la necessità che lo Stato rivesta il duplice ruolo di trasmettitore in seno al tessuto sociale delle idee forza della competitività del mercato e di fautore del raggiungimento del massimo profitto da parte dei grandi gruppi finanziari. Compito dell’odierno potere politico, lasciano intendere i neoliberisti, non può essere altro che la sostituzione del Welfare State col Profit State. Poco importa se con una siffatta operazione esso viene a rendersi totalmente subalterno al potere economico.

Dopotutto gli assertori come gli operatori della finanziarizzazione dell’economia a livello mondiale sono i nuovi colonizzatori, i nuovi assertori della fabbrica sociale generalizzata, gli apostoli dell’accumulazione flessibile globalizzata. Nessuno può resistere loro. Essi a tutto il resto aggiungono un pressing che si concretizza in un vero e proprio terrorismo sociale. Chi non accetta le ricette del neoliberismo promuove il “disastro mondiale”, rifiuta l’unica strada che può oggi assicurare la “salvezza dell’umanità”.

 

 

4. Strategie di resistenza al capitalismo globale

 

Tutte queste sono conseguenze di un approccio che vede l’espansione del mercato in quanto tale saldata al progresso sociale e alla democrazia. E che guarda alle vaste sacche di povertà, disoccupazione e marginalizzazione sociale da esso prodotte come a fenomeni transitori destinati ad essere riassorbiti in breve tempo nella sua circolarità virtuosa. Questo stesso approccio giudica semplicisticamente l’approdo dell’economia odierna alla globalizzazione come ineluttabile. Senza preoccuparsi di porsi il problema se l’interdipendenza economica fra gli Stati non debba essere negoziata; se non si debbano definire e sostenere forme di sviluppo a livello nazionale; se non vadano corrette, anziché lasciate inasprire, le ineguaglianze di partenza.

Nonostante il perseguimento dell’utopia neoliberista abbia prodotto in poco tempo risultati catastrofici e la sua teorizzazione stia perdendo forza ogni giorno più, la posizione predominante degli scienziati sociali (economisti e politologi) rimane a favore della promozione di un sistema economico globale.-----

Pochi si rendono conto della necessità di ripensare lo sviluppo in termini di modello sociale. Ancora più pochi sono convinti che la crescita non è il risultato naturale della gestione di mercato e delle politiche di generica espansione, ma piuttosto il possibile esito di politiche di trasformazione attentamente valutate nei diversi contesti e nelle dimensioni specifiche.

Naturalmente questi ultimi sono portatori di filosofie economiche e politiche radicalmente contrapposte a quelle dominanti.

Taluni parlano di ripresa del movimento dei lavoratori, di inversione della corsa dei salari (non più verso il basso, ma verso l’alto), di ricostruzione dell’economia dal basso. Le istituzioni nazionali, essi rilevano, non sono adeguate a realizzare questo programma, ma non lo sono neanche, da un lato, le istituzioni globali centralizzate, dall’altro, i sistemi locali frammentati. Un programma di questo tipo deve essere perseguito a più livelli territoriali: locale, regionale, nazionale, sovranazionale, mondiale, senza tuttavia dimenticare i gruppi non territoriali come le comunità etniche o religiose sparse su più territori [i].

Altri puntano piuttosto ad un assetto geoeconomico e geopolitico imperniato sul policentrismo. Ed esemplificando con l’Europa, vi individuano quattro meso-regioni - l’Unione Europea, l’Europa baltica, L’Europa mediterranea, l’Europa danubiana - quali altrettanti “anelli della solidarietà” da coltivare. Con ciò affermando il superamento della centralità dell’Unione Europea, assestata sul vecchio schema centro-periferia ad essa funzionale, e rigettando anche e in primo luogo l’istanza globalistica del “capitalismo triadico” delle transnazionali [i].

Altri ancora confidano sulla ripresa del discorso dello sviluppo delle aree del Terzo Mondo. La logica del capitale unilaterale, secondo costoro, ha accresciuto enormemente la distribuzione ineguale dei redditi fra le classi sociali, sia sul piano interno, sia sul piano dei rapporti tra Paesi avanzati e Paesi in via di sviluppo o sottosviluppati. I gravi rischi dell’assalto etnico, del fondamentalismo religioso e del neofascismo dovrebbero spingere ad avviare concretamente le possibilità di rinascita delle società del Terzo Mondo, arrestando i disegni di sfruttamento da parte del capitalismo mondiale [i].

Pur puntando principalmente sulle aree arretrate, questi studiosi non trascurano la altre aree. Ed in questo senso anche la loro visione si appunta su una regionalizzazione policentrica che offra il contesto nel quale l’interdipendenza sia negoziata e comunque organizzata in modo da offrire a tutti i popoli l’accesso a condizioni di vita sempre più soddisfacenti [6].

Rita Martufi e Luciano Vasapollo ritengono, invece, che la lotta contro la globalizzazione può dispiegare in pieno la sua efficacia solo se viene rilanciata l’iniziativa sociale e politica dei nuovi soggetti del lavoro, del lavoro negato e del non lavoro. Un’iniziativa che deve concretarsi in un’azione quotidiana perché il salario venga riconosciuto come “grandezza sociale”. Il salario è infatti un’entità relazionata a) all’insieme dei mezzi di sussistenza e dunque alle prestazioni pubbliche a carattere assistenziale e previdenziale, b) ai consumi collettivi erogati gratuitamente o a prezzo controllato, c) all’impiego di tempo in lavori non retribuiti (si pensi al lavoro delle casalinghe) e tuttavia esprimenti sul piano della forza lavoro un forte valore sociale.

Coerentemente con questa posizione i nostri autori propugnano la creazione di un “reddito sociale minimo” per tutti i disoccupati. Un reddito che non ha i caratteri dell’elargizione caritatevole del “soccorso agli esclusi”, ma vuol essere il frutto della riappropriazione da parte dello Stato del suo irrinunciabile ruolo di creatore di occupazione e di garante della dignitosa sopravvivenza di tutti coloro che, per una qualsiasi ragione, non ricollegabile a loro colpa, ne sono temporaneamente privi. In tal senso, nell’ottica dei due studiosi, il “reddito sociale minimo” si pone anche come “uno strumento di iniziativa politica che si contrappone alle forme al ribasso di uguaglianza che puntano a ripartire tra i poveri solo la miseria, contrapponendo i giovani agli anziani, gli occupati ai disoccupati, il diritto al lavoro ai diritti al lavoro, gli aumenti occupazionali ai salari ridotti, alla flessibilità, alla grande precarietà, al continuo abbassamento della qualità del lavoro e della qualità della vita” 13.

Tutto ciò implica la riproposizione in forme nuove del conflitto lavoro-capitale. Tale conflitto deve sicuramente dipartirsi da una riunificazione delle diverse soggettività critiche e della loro riqualificazione come nuove figure dell’antagonismo sociale. Ma deve andare oltre. E spingersi verso una nuova fiscalità che procuri allo Stato le risorse necessarie perché agisca coerentemente in una prospettiva di effettiva giustizia sociale.

Su questa strada urgente appare ai nostri autori la lotta all’evasione e all’elusione fiscale. Solo nei confronti della prima, infatti, stime note a tutti stabiliscono perdite a danno dello Stato italiano per circa 300 mila miliardi all’anno. Ma indifferibile risulta anche la tassazione dei capitali. E precisamente la tassazione delle transazioni speculative realizzate nel mercato dei cambi e delle valute (Martufi e Vasapollo si richiamano al riguardo alla famosa Tobin Tax, proposta dal grande keynesiano, premio Nobel per l’economia, James Tobin) e quella su tutte le altre transazioni finanziarie compiute sui mercati borsistici. Le une e le altre in realtà muovono quotidianamente per finalità speculative migliaia di miliardi di dollari [i].

In pratica i due studiosi “impegnati”, secondo la sempre valida accezione gramsciana del termine, in quanto animatori dei ricordati “Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali” e della rivista “Proteo”, danno vita al “Comitato promotore nazionale per il reddito sociale minimo”, promuovono una proposta di legge popolare per l’istituzione del reddito sociale minimo, decidono l’adesione del Cestes all’”Associazione internazionale per una Tobin tax di aiuto ai cittadini” (Attac), mettono in piedi numerose altre iniziative sociali e culturali capaci di sospingere in avanti il sogno di una lotta efficace contro la globalizzazione finanziaria neoliberista ed i dissesti sociali da essa provocati [7].

Si tratta di obiettivi sostanzialmente improntati ad una visione economica neokeynesiana. Dico sostanzialmente perché i due analisti sono caricati aggiuntivamente di un forte volontarismo, che non risulta affatto un velleitarismo utopistico, ma una volontà seriamente radicata nel rigore dell’analisi scientifica e nella concretezza dell’azione di ogni giorno. Certo neppure i neokeynesiani, come osserva Bruno Amoroso, sfuggono oggi al trend della globalizzazione [i]: questo vuol dire che se non rielaborano le loro griglie macroeconomiche in materia di strumenti di intervento a tutela della piena occupazione e dell’indirizzo sociale della produzione, la nuove contraddizioni tra società e capitalismo non saranno intaccate. Ma non è azzardato pensare, che avviato l’arresto del fascino della rivoluzione culturale neoliberista [8], il neokeynesismo comincerà a dare nuovi frutti, idonei ad arrestare il cammino della “locomotiva mondiale” verso il traguardo dello schiacciamento dell’uomo. Solo in questo caso, comunque, potrà realizzarsi finalmente il sogno di Gunnar Myrdal di far transitare la realtà sociale del pianeta dallo “Stato del benessere al Mondo del benessere” [i].

 

 

5. Mitologie intorno ad una democrazia politica globale

 

Martufi e Vasapollo sono due cultori di economia; ma la dimensione socio-politica di questa disciplina è così presente nel loro libro da non consentire dubbi sulla loro consapevolezza dell’intreccio tra aspetti produttivi, sociali, politici e istituzionali esistente in seno ai processi di globalizzazione dell’economia contemporanea. Ancorché mai affiori in essi la pretesa di affrontarne una trattazione sistematica, ogni passaggio del volume ne è impregnato. Ed evidente risulta altresì l’alto grado di autocoscienza nei confronti soprattutto dei problemi politici ed istituzionali.

Quando penso all’idea sostenuta con enfasi da Richard Falk, che stia emergendo, parallelamente ai processi di globalizzazione dell’economia, una global civil society, che renderebbe possibile l’unificazione politica del pianeta e concretamente un governo ed un parlamento mondiali democraticamente eletti [9], mi confermo nella convinzione su quanta parte di astratto ed ingenuo illuminismo affligga ancora certa produzione politologica contemporanea.

Ma Falk non è il solo a peccare di ottimismo illuministico. Seppure in maniera più accorta, coltiva una prospettiva cosmopolitica anche David Held. Questi dichiara espressamente che l’era del post guerra fredda esalti “la possibilità di un nuovo ordine internazionale basato sull’estensione della democrazia nel mondo e su un nuovo spirito di cooperazione e di pace” [i]. Tale possibilità per Held diviene addirittura un’esigenza ineludibile perché imposta da numerose fratture interne ed esterne tra la sfera formale dell’autorità politica rivendicata dagli Stati, e le strutture e le attività del sistema che viene ad imporsi a livello mondiale. Fratture rappresentate a) dal diritto internazionale, b) dall’internazionalizzazione dei processi decisionali politici, c) dall’organizzazione internazionale delle forze militari per la sicurezza, d) dalla globalizzazione della cultura, e) dalla mondializzazione dell’economia [i].

Ora, per parlare solo di alcune di questa rotture, Held non si avvede, ad esempio, che la normazione dell’arena internazionale risiede tutta nelle mani di alcune superpotenze a vocazione egemonica; potenze che controllano le maggiori istituzioni internazionali, a partire dalle Nazioni Unite, conferendo loro un carattere illiberale e gerarchico. Così pure il politologo anglosassone trascura di considerare i gravi dissesti operati dalla globalizzazione dell’economia, evidenziati dallo studio di Martufi e Vasapollo e da noi avanti richiamati. Dissesti consistenti nel potenziamento delle aree geoeconomiche e geopolitiche più ricche e sviluppate del pianeta e nell’emarginazione delle aree più deboli ed arretrate. Egli, infine, attribuisce scarsa o nessuna importanza al rischio segnalato da taluni analisti, consistente nel fatto che un governo politico globale democraticamente ispirato mirerebbe necessariamente ad un “ordine politico ottimale”, che di fatto potrebbe essere assicurato solo attraverso interventi normativi intensi e alla fine autoritari [10].

 

 

6. Conclusione

 

Concludendo, mi pare importante rilevare come il libro di Martufi e Vasapollo si raccolga tutto intorno ad un’idea centrale: la prospettiva di “un’altra società”, qualitativamente diversa e lontana da quella disegnata dal pensiero neoliberista mondiale, non è stata definitivamente abbandonata da tutti gli studiosi ed operatori politici [11].

L’incontro di Firenze dei maggiori leader socialdemocratici europei con Clinton e Cardozo sul tema del riformismo del XXI secolo, come la conferenza del “World trade organization” (Wto) di Seattle, che ha raggruppato nella città della microsoft 135 Paesi, sugli scambi commerciali del futuro, hanno evidenziato, ancora nel recente novembre del 1999, la forte divergenza, fortunatamente persistente, tra visione angloamericana e visione europea della riforma del capitalismo contemporaneo.

Alle mire egemoniche globalistiche degli Stati Uniti d’America si può dunque resistere sul piano dell’analisi scientifica e dell’azione sociale e politica. Il volume dei due studiosi dell’Ateneo romano “La Sapienza” ci dice che non solo si può ma si deve.


[1] Cfr. C. Offe, Lo Stato nel capitalismo maturo, Milano, 1977.

[2] Cfr. J. O’Connor, La crisi fiscale dello Stato, Torino, 1977.

[3] Cfr. S. Brittan, The economic contradictions of democracy, “British Journal of Political Science”, 1975, aprile, pp. 129-159; J.M. Buchanan - R.E.Wagner, Democracy in deficit: the political legacy of lord Keynes, New York, 1977. Una buona messa a punto del dibattito tra neomarxisti e neoliberisti si ha in L. Bordogna - S. Provasi, I rapporti tra politica e mercato nei paesi capitalistici avanzati: varianti nello sviluppo, differenze nella crisi, “Stato e Mercato”, 1981, n.1.

[4] Cfr. M. D’Antonio, L’arcano della “stagflazione”, “Il Contemporaneo”, supplemento di “Rinascita”, 10 nov. 1978, n.44, dedicato a “La crisi attuale del capitalismo”.

[i] M. Chossudovky, La globalizzazione della povertà. L’impatto delle riforme del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale , Torino, 1998, p.9.

[i] M. Chossudovky, o.c., pp. 217-271. V. pure H.P. Martin - H. Schumann, La trappola della globalizzazione. L’attacco alla democrazia e al benessere, Bolzano, 1997. Più specificatamente, per la ragioni che hanno portato il sistema finanziario a divenire sempre più folle e incontrollabile, cfr. S. Strange, Denaro impazzito. I mercati finanziari: presente e futuro, Milano, 1999.

[5] Per l’interconnessione tra economia, società e Stato affermata dai processi di globalizzazione, v. T. Spybey, Globalizzazione e società mondiale, Trieste, 1998. Ma v. anche E.B. Kapstein, Governare l’economia globale. La finanza internazionale e lo stato, Trieste, 1999.

[i] S. Brecher - T. Costello, Contro il capitale globale. Strategie di resistenza, Milano, 1996, pp. 175-220.

[i] B. Amoroso, Della globalizzazione, Molfetta (BA), 1996, pp. 154-168.

[i] S. Amin, Il capitalismo nell’era della globalizzazione. La gestione della società contemporanea, Trieste, 1997, pp. 116-131.

[6] E così Amin si spinge a parlare idealisticamente di “risposta umanista alla sfida della globalizzazione” e di “prospettiva di socialismo globale” (o.c., pp. 25-26). Ma di lui v. anche: Oltre la mondializzazione, Roma, 1999, (in particolare le pp. 57-111).

[i] E. Martufi - L. Vasapollo, o.c., pp. 280-291.

[7] L’ultima parte del libro raccoglie una ricca documentazione inerente a tali iniziative (pp. 295-393).

[i] B. Amoroso, o.c., pp. 152-153.

[8] Per un approccio al pensiero neoliberista e alle sue aporie di fondo, rinvio alla mia Introduzione a M. Fotia - A. Pilieri, Il neoliberismo in Italia, 3° ed., Roma, 1998, pp. 29-91. Ma cfr. anche B. Cartosio, L’autunno degli Stati Uniti. Neoliberismo e declino sociale da Reagan a Clinton, Milano, 1998.

[i] G. Myrdal, Beyond the Welfare State, Greenwood Press, Publishers Wesport, Connecticus: 176, 1960.

[9] Cfr. E. Falk, A global approach to national policy, Cambridge (Mass.), 1975; Idem, Per un governo umano. Verso una nuova politica mondiale, Trieste, 1998.

[i] D. Held, Democrazia e ordine globale. Dallo stato moderno al governo cosmopolitico, Trieste, 1999, p. 268.

[i] D. Held, o.c., capp. 5 e 6.

[10] Cfr. H. Bull, The anarchical society, London, 1977. Ma per l’intera questione v. di Danilo Zolo la perspicua prefazione all’edizione italiana del volume di Held da noi richiamato di Danilo Zolo (pp. XIII-XVI), nonché il volume “Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale”, Milano, 1995 (in particolare le pp. 117-196).

[11] Un libro che mostra in maniera penetrante come l’economia capitalistica debba essere ricondotta al suo statuto di <<evento>> determinato entro una congiuntura e sottratto alla pervasività totalizzante di legge invalicabile e metastorica è quello di P.Barcellona, Il declino dello Stato. Riflessioni di fine secolo sulla crisi del progetto moderno, Bari, 1998.