TFR: storia e cronaca di uno scippo annunciato

ENZO DI BRANGO

1. Come ti af...fondo la pensione

La previdenza complementare venne istituita nei modi e nelle forme di natura generalizzata subito dopo il varo della prima, vera riforma in senso peggiorativo delle pensioni: la riforma Amato che divenne operativa dal 1° gennaio 1993. Il dibattito politico e sindacale sia sulla previdenza pubblica che su quella complementare fu accesso e rappresentò un’ulteriore tappa progressiva verso lo scollamento tra classe politica e società civile, tra sindacati ufficiali e sindacati di base. C’erano, però, alla base delle valutazioni dell’allora governo in carica due questioni che oggi, con l’esperienza maturata, vale la pena di riproporre. La prima valutazione era rappresentata dal fatto che la riforma “Amato” avrebbe decurtato l’assegno pensionistico in misura progressiva (cioè con più incisività sulle generazioni future), la seconda era che la necessità di dare impulso a politiche sempre più aderenti a logiche neoliberiste rendeva necessario ottenere una sorta di stabilità dei mercati finanziari per consentire ai potentati economici azioni sempre più radicali in materia di economia, senza il timore di sprofondare il paese nella recessione (a questa seconda logica tentò di rispondere, in maniera perversa, anche l’accordo del luglio ’93). La costituzione dei Fondi pensione complementari, quindi, effetto e non causa della riforma previdenziale, a detta del governo Amato doveva garantire ai lavoratori un assegno che avrebbe dovuto colmare il gap che si sarebbe generato tra il calcolo della pensione con il previgente sistema ed il calcolo della pensione con il nuovo sistema; inoltre, per far fronte alla seconda questione, si sarebbero dovuti immettere sui mercati finanziari ingenti capitali la cui natura fosse quella di investimenti a medio e lungo termine in modo tale da stabilizzare la Borsa e sottrarre un consistente numero di SpA dall’incubo della turbolenza dei mercati. Oggi possiamo affermare, senza timore di essere smentiti, che né l’uno né l’altro obiettivo sono stati raggiunti.1 Il miraggio di un assegno complementare decente, tale almeno da assicurare alle giovani generazioni un tasso di sostituzione del 30-35% (quello che effettivamente andranno a perdere a seguito anche delle altre riforme in materia previdenziale nel frattempo intervenute) non è assolutamente un obiettivo alla portata dei Fondi pensione, né il mercato finanziario italiano si è potuto avvalere degli investimenti di questi come garanzia di stabilità.

2. L’assegno complementare

Secondo le stime più rosee un lavoratore assunto oggi, lavorando per 40 anni dovrebbe raggiungere un tasso di sostituzione di poco inferiore al 50%2, mentre con il sistema retributivo avrebbe raggiunto l’80% dell’ultima retribuzione. Ossia, facendo un calcolo ai valori attuali, lasciando il lavoro con uno stipendio di 1.200 euro avrebbe ottenuto una pensione di 960 euro ed una liquidazione lorda di circa 90.000 euro. In realtà al lavoratore, facendo salvo il Tfr, andrà una pensione di scarsi 600 euro. Il Fondo pensione complementare dovrebbe garantire quindi una integrazione di 360 euro mensili ed una liquidazione di pari portata. Supponiamo che questo lavoratore si iscriva, da subito, ad un Fondo complementare per la rendita vitalizia, versando il suo contributo, ottenendone uno di pari entità dal datore di lavoro ed impiegando tutto il suo Tfr. Stimiamo un versamento composto dal contributo mensile paritetico in 30 euro (15 del lavoratore e 15 del datore di lavoro) e dal Tfr: alla fine della sua attività lavorativa il lavoratore in questione avrà un capitale accumulato nel Fondo pari a 104.400 euro. Ora dovremmo aggiungere le rendite derivanti dai mercati finanziari che, ovviamente, non possiamo conoscere a priori. Vogliamo comunque seguire il criterio che spesso oggi si spende per convincere i lavoratori a trasferire il Tfr nei Fondi pensione, ossia che l’arco temporale medio-lungo rappresenti una garanzia di migliori rendimenti rispetto al Tfr in azienda (se vale per le sirene, dovrebbe valere anche per i navigatori...). Da una media ponderata degli ultimi 5 anni possiamo desumere che tale rendimento si aggira intorno al 7%, 1,4/anno (le medie, si sa, fanno sempre riferimento alla “statistica di Trilussa...”) che andremo ad applicare annualmente sul capitale e, quindi, successivamente anche sulle rivalutazioni. Otterremo dopo 40 anni un capitale complessivo di euro 127.000 che, per la tassazione, va così scomposto: 104.400 euro, costituenti il capitale, saranno tassati al 9% (l’aliquota più favorevole), le rendite finanziarie, 22.600 euro, all’11% (art. 17 D.lgs 252/2005). Alla fine il calcolo dell’assegno pensionistico e della liquidazione sarà fatto su un montante di 115.000 euro. Il lavoratore porterà a casa il 50%, 57.500 euro, in forma capitale (come liquidazione) ed avrà un assegno mensile calcolato sulla restante cifra. Noi calcoleremo l’assegno alle tavole attuariali di oggi, non avendone altre certe per cui prendiamo a riferimento l’età presunta di morte (dato Istat) di 77 anni per un lavoratore di sesso maschile e di 83 di sesso femminile. Al lavoratore di sesso maschile verrebbe un assegno mensile di 368 euro, al lavoratore di sesso femminile un assegno di 246 euro. Con questa dinamica certificheremmo una certa par condicio (non tenendo conto che il contributo che il lavoratore versa al Fondo è un costo aggiuntivo che pesa sulla sua busta paga, mese per mese, per quarant’anni) tra il lavoratore a regime retributivo ed uno a regime contributivo, ma solo nel caso che si tratti di un lavoratore di sesso maschile. Stiamo parlando di un’Italia però che non esiste, dell’Italia che ci raccontano Berlusconi, Prodi e Bruno Vespa, un’Italia dove tutti a 25 anni hanno un lavoro a tempo indeterminato, le Borse tirano e gli stipendi ti fanno arrivare tranquillamente alla quarta settimana. Ma dovrebbe essere, nel contempo, un’Italia che nei prossimi quarant’anni non dovrebbe registrare nessun miglioramento circa l’aspettativa di vita, come invece si deve legittimamente sperare, poiché un aumento auspicabile dell’aspettativa di vita determinerebbe una sensibile riduzione dell’assegno pensionistico, sia pubblico che privato. L’altra Italia, quella “maggioranza silenziosa” di cittadini che non ha un lavoro stabile, anzi non ha lavoro o che non potrà lavorare 40 anni perché ha fatto lavori pesanti e/o ha cominciato solo a 35 anni ad uscire dalla precarietà...? Si può purtroppo sostenere, con estremo realismo, che il primo obiettivo a sostegno della tesi di garantire lo stesso livello delle pensioni tra vecchi e nuovi lavoratori è fallito ancor prima di verificare l’andamento del regime delle prestazioni a cui i Fondi negoziali, per la loro “giovane età”, non sono ancora giunti.

3. L’insostenibile tesi della stabilità dei mercati finanziari

Sul secondo obiettivo non c’è molto da spendere; lo scenario è davanti agli occhi di tutti. Abbiamo in Italia un mercato finanziario che, più che essere una Borsa può definirsi una busta di cellophane: “la Borsa italiana - sostiene Luciano Vasapollo - è arretrata proprio per lo scarso numero di società quotate e lo sviluppo dei Fondi pensione, anzi, favorirebbe la domanda di azioni e non l’offerta, destabilizzando ulteriormente il mercato interno e rafforzando le Borse di area anglosassone e nipponica”3. Qualche centinaio di titoli, aggiungiamo noi, pochissimi di livello internazionale, da attrarre poco o per niente investitori di una certa rilevanza. Ed infatti la stragrande maggioranza dei Fondi negoziali, compresi quelli che effettuano investimenti prudenziali e/o etici, non hanno grandi fette del loro capitale sui mercati italiani, anzi. Se non stabilizzano la Borsa italiana, anche la favola della stabilità dei mercati, intesa in senso più generale, se può apparire rispettabile ad una considerazione superficiale, non trova riscontro alcuno nei fatti. È vero che i capitali investiti dai Fondi sono costituiti da riserve finanziarie in genere destinate a collocamenti di medio-lungo termine e quindi potrebbero facilmente essere scambiati per elementi di stabilità, ma essi, nel contempo, non sono fissi ed inamovibili anzi... Tanto è vero che dietro la recente crisi dei mercati asiatici si ipotizza un ruolo di prim’ordine di alcuni Fondi pensione che hanno disinvestito le enormi masse di capitale che gestiscono. È, quindi, facilmente dimostrabile che “i Fondi pensione diventano fattore destabilizzante non solo del corso dei titoli, ma dello stesso assetto economico-sociale e politico dei vari paesi che di volta in volta diventano bersaglio della speculazione finanziaria internazionale, creando seri scompensi sociali in termini di sottrazione di risorse agli impieghi in investimenti reali, quindi aumentando la disoccupazione, abbattendo, nel contempo, le garanzie sociali collettive ”4.

4. Lo scippo definitivo del Tfr

È giusto anche affrontare questo argomento attraverso un aspetto spesso tenuto in scarsa considerazione dagli opinionisti politici. Non si vuole qui proporre un’analisi delle varie posizioni che in questo periodo circolano sulla stampa, nei dibattiti e nelle varie occasioni di confronto dialettico, condividendo il giudizio a suo tempo espresso dalla Rdb-Cub che “il passaggio del Tfr ai Fondi pensione si inserisce nel discorso di attacco al Welfare che va avanti da molti anni e che sembra non avere colore, nel senso che tutti i governi che si sono susseguiti negli ultimi anni, siano essi stati di centro-sinistra o di centro-destra, hanno puntato i riflettori sulla sanità, sulla scuola e sulla previdenza pubblica in particolare, come elementi in cui introdurre riforme che puntavano essenzialmente a un dato, quello di togliere dalla sfera pubblica la gestione di questi importanti pezzi dello stato sociale”5. Si ritiene, invece, non residuale ripercorrere la storia del Tfr attraverso alcune riflessioni che non vanno sottovalutate. L’utilizzo del Trattamento di fine rapporto per finanziare la previdenza complementare scaturisce solo dal 19936, con il Dlgs 124, ma, in effetti i primi Fondi pensione (sia di natura negoziale che aperti) sono sorti nella seconda metà degli anni novanta7. Torniamo indietro nel tempo e proviamo ad immaginare cosa possa essere accaduto al nostro Tfr nel decennio 1986/1995, periodo nel quale non vi erano Fondi pensione operativi. Poniamo, ad esempio, che l’azienda “x” abbia assunto il lavoratore “y” nel mese di gennaio 1986 ed abbia deciso di investire il Tfr di “y” (2.000 euro l’anno) in buoni del tesoro 1/10 anni. Calcolando la rivalutazione del Tfr dovuta al lavoratore, in un decennio si otterrebbe la seguente dinamica: Nella colonna 2 abbiamo riportato il tasso di rendimento del Tfr in azienda (1,5% + 75% dell’inflazione), nella colonna “3” il tasso di rendimento reale dei buoni del tesoro, nella colonna “4” la differenza attiva a favore dell’investitore (l’azienda), nella colonna “5” la dinamica di crescita del Tfr del lavoratore, nella colonna “6” l’utile complessivo maturato sul mercato dai buoni del tesoro, nella colonna “7” quanto di questo utile è andato ad incrementare effettivamente il Tfr del lavoratore (e, quindi, reinvestito in colonna “5”), nella colonna “8” quanto è andato in tasca al datore di lavoro (non più reinvestito). Ora, se anziché un lavoratore, nel 1986 l’azienda ne avesse assunti 10, in 10 anni si sarebbe autofinanziato il costo di un anno di tre lavoratori di fascia medio-bassa: 6.641,86x10= 66.418,60 euro, ossia tre lavoratori dal costo unitario annuo di circa 22.100 Euro. Ossia il 30% della forza lavoro, dopo 10 anni, poteva essere retribuita, per un anno, con gli interessi maturati dall’investimento sul mercato delle liquidità derivanti dal Tfr! E questo solo se parliamo di investimenti, per così dire “tranquilli” (buoni del tesoro). Non è naturale credere che un “capitano d’azienda” si limiterebbe a prodotti prudenziali trattandosi, peraltro, di soldi non propri. Anzi, la prudenza è stata utilizzata nel calcolo esposto dove non si è previsto nemmeno il reinvestimento dell’utile annuo (col. 8). Viene da chiedersi se, per esempio, in fase di rinnovi contrattuali, di calcolo del costo del lavoro, ecc., si sia mai affrontato, tra le parti sociali e datoriali, un ragionamento sull’argomento... Quanto del costo del lavoro si è trasformato in profitto e quindi in plusvalore assoluto per il datore di lavoro? È evidente che il lavoratore, sin dall’istituzione del regime di Tfr, sia stato l’unico ad essere escluso non solo da parte della sua retribuzione ma anche dal suo intero risparmio previdenziale. Infatti “Il Tfr è un emolumento spettante al lavoratore subordinato in caso di cessazione del rapporto di lavoro. È stato introdotto dall’articolo 1 della legge 29.5.1982 n° 297, che ha sostituito il precedente testo dell’articolo 2120 del codice civile riguardante l’indennità di anzianità. Rappresenta, quindi, “un’evoluzione” dell’indennità di anzianità. Quest’ultima venne creata nel 1924 per la sola categoria degli impiegati e successivamente (1941) estesa agli operai. Costituiva un indennizzo per il lavoratore in caso di licenziamento senza colpa (non spettava in caso di dimissioni volontarie o licenziamento per colpa grave) ed al tempo stesso un disincentivo per il datore a licenziare il dipendente. Con il divieto di licenziamento senza giustificato motivo, di cui alla legge 604/66, si ritenne di conservare l’istituto anche se privo della funzione per il quale era stato introdotto inizialmente, attribuendo al lavoratore il diritto all’indennità di anzianità in tutti i casi di cessazione del rapporto, e proprio questa “filosofia” ha dato origine alle due correnti di pensiero:
  Tfr come salario differito del lavoratore;
  Tfr come risparmio previdenziale del lavoratore.

Probabilmente sono vere entrambe (si cfr. al riguardo le sentenze della Corte Cost. n°C70/179, C74/1618, C84/44) che considerano il Tfr alternativamente come una forma di retribuzione differita, di risparmio obbligatorio, di retribuzione soggetta ad uno speciale regime”8. La strana saldatura tra sindacato confederale e Confindustria sulla vicenda complessiva della scelta sulla destinazione del Tfr non si è generata su interessi comuni, a meno che, ancora una volta, gli interessi delle due parti (conflittuali?) siano divenuti coincidenti a spese dei lavoratori. Non si capirebbe (a meno di una capziosità che l’esperienza potrebbe indurre) perché un mancato finanziamento collegato alla rinuncia ad eventuali rendite, che non sono profitti derivati direttamente dalla produzione, si celano dietro le grandi resistenze poste in essere da parte delle associazioni datoriali allo smobilizzo del Tfr per la previdenza complementare, debba aver creato problemi anche al sindacato confederale.... 5. Alcune riflessioni: la parola al conflitto sociale

I Fondi pensione, pertanto, sono solo un effetto della causa, ossia la conseguenza dello smantellamento complessivo del sistema previdenziale italiano perpetrato dal 1992 in poi con molteplici provvedimenti che ne connotano di fatto anche l’estrema provvisorietà. Non esiste, a livello europeo, uno Stato che abbia modificato la previdenza pubblica 5 volte in dodici anni e si appresta alla sesta modifica proprio in questi mesi. Ciò dimostra quanto sia diventato precario ormai non solo il sistema previdenziale ma anche la discussione su di esso. Proprio per un contesto di questo tipo rischia ovviamente di interpretare un ruolo residuale la battaglia contro i Fondi pensione, dato che il marcio è alla fonte. A partire dalla questione del Tfr, abbiamo sempre più chiara la logica di un sistema che tenta, aldilà del pur evidente accaparramento di cospicue somme di liquidità, di escludere dalla sua centralità la figura del lavoratore, anche quando si tratta di decidere di denaro di sua proprietà. Ritorna impellente, quindi, la questione della centralità dell’interesse e dei bisogni dei lavoratori che va riconquistata anche con una battaglia chiara e netta sulla previdenza pubblica, insieme alle non tramontate lotte per il salario diretto, per le condizioni di lavoro, per lo stato sociale, contro la guerra, per la sostenibilità ambientale e per i diritti del lavoro e i diritti civili e sociali in generale. In materia di previdenza, più specificatamente, è nella battaglia sull’esigibilità reale di una pensione pubblica decente che lo scontro lavoro-capitale assume un senso compiuto: non ne avrebbe o avrebbe comunque poco senso concentrare la lotta solo sulla previdenza complementare. In presenza di una previdenza pubblica vera, solvibile, adeguatamente remunerativa i Fondi complementari si estinguerebbero da soli, ovvero rientrerebbero in una logica di “pubblico” come fosse una sorta di nazionalizzazione del cosiddetto “secondo pilastro”. Considerando persa in partenza la battaglia per indurre a riflessione il sindacato confederale, è nella tensione delle lotte di base dei lavoratori che va tentata la ricerca dei contorni del conflitto e l’attivazione di tattiche dall’ampio portato strategico per la riconduzione a “pubblico” di quanto si sta privatizzando con enormi profitti per il capitale.

Comitato di Redazione e Programmazione di Proteo

Su tali temi si veda Rita Martufi, Luciano Vasapollo “Le Pensioni a Fondo”. Mediaprint, Roma 2000.

Cfr. www.repubblica.it/speciale/2007/tfr/quanto_vali_01.html.

Vasapollo, L., intervento all’incontro-dibattito del 12 novembre 2004 in Quaderni Cestes n. 11, suppl. Proteo, Marzo 2005, pag. 14

Ibidem, pag. 15.

Leonardi, P., intervento all’incontro-dibattito del 12 novembre 2004, cit., pag. 3.

Ovviamente a carattere generalizzato, vi erano in precedenza Fondi pensione, cosiddetti “previgenti”, che utilizzavano il Tfr e che operavano in un quadro normativo “autogestito”. La legge istitutiva (D.lgs 21 aprile 1993, n. 124) salvando gli esistenti ha vietato la costituzione di nuovi fondi di quella natura a partire dal novembre 1993.

Il primo a divenire operativo fu Fonchim, il fondo dei chimici, che fu autorizzato all’esercizio il 10 dicembre 1997. Come si vede più di quattro anni dopo il varo del D.lgs 124/93.

Di Brango V. e Pulone P., I Fondi Pensione, C.A.F.I. Editore, Roma 2007, pagg. 93-94.