Il declino economico come lotta di classe

Giorgio Gattei

1. Vorrei partire da una piccola premessa. Sono 14 anni dal 1992, ma 17 se si parte dal 1989 (e si capisce perché si deve partire dal 1989!) che ci hanno propinato dosi massicce di delocalizzazioni, privatizzazioni, precarizzazioni e via seguitando. Vedendone le conseguenze verrebbe proprio da chiedersi se le abbiano fatte per rovinare l’Italia. E’ ovvio che no, anzi quanti le hanno introdotte (di destra o sinistra non fa fatto) erano convinti che sotto la sferza della concorrenza internazionale e della flessibilità del lavoro l’economia nazionale avrebbe acchiappato il treno dello sviluppo economico, conoscendo così un nuovo miracolo economico. Che però, come adesso ci accorgiamo, non c’è stato. Al contrario il Bel Paese è precipitato nel declino economico (c’è ancora qualcuno che ne dubita?). Ora l’idea che mi sto facendo e che avanzo subito provocatoriamente è che questo declino non sia tanto da considerarsi come un accidente fortuito o una calamità naturale, ma un preciso effetto voluto. Ma da chi mai? No di certo da quanti hanno imposto le misure neoliberistiche (o “mercatistiche”, come direbbe Giulio Tremonti), bensì da coloro che le hanno subite. Insomma, comincio a credere che all’imposizione “più mercato, meno Stato” i lavoratori italiani, chi più e chi meno, abbiano risposto nei fatti di non essere d’accordo. E abbiano provocato con il loro atteggiamento produttivo “inefficiente” (come cercherò di dimostrare) quell’effetto di declino economico che oggi ci tormenta. Per far meglio capire cosa intendo azzarderò un paragone assolutamente sconveniente. Nel pieno della disoccupazione di massa prodotta dalla Grande Crisi apertasi nel 1929 John Maynard Keynes pubblica la sua clamorosa Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta che fonda la legittimità teorica e la necessità pratica dell’intervento dello Stato per recuperare quella disoccupazione. Sul momento il libro fa scandalo ma poi, dopo averne compreso lo spirito, non solo gli economisti si sono messi ad insegnare ma pure gli uomini politici si sono messi a praticare quelle politiche keynesiane che porteranno, negli anni del “miracolo economico”, alla soglia della piena occupazione. Ma perché tanto consenso? Perché Keynes aveva indicato una minaccia politica che solo le sue “ricette” avrebbero potuto eliminare. Keynes aveva capito che il sistema capitalistico, affidato all’anarchia del mercato, produceva disoccupazione e che i disoccupati, come si era appena mostrato in Germania, passavano elettoralmente sulle posizioni del Partito dei Lavoratori Tedeschi Nazional-Socialisti (NSDAP, com’era il nome completo del partito hitleriano) che aveva promesso per l’appunto un impiego a tutti al solo prezzo di concedere la dittatura al Führer. E la democrazia? Ma che c’importa la democrazia, avevano risposto quei disoccupati. A noi servono i posti di lavoro e solo Hitler ce li dà! Così l’avevano votato in massa portandolo al 43,9% nell’ultima elezione del marzo 1933 (dopo si fecero solo plebisciti). Sull’onda dell’esempio tedesco anche in Inghilterra era stato fondato un partito fascista ed è a fronte di tanto pericolo che Keynes prende a scrivere quella Teoria generale che uscirà nel 1936. E quale il messaggio politico sottinteso? Che se la democrazia vuol sopravvivere, bisogna che punti essa pure alla piena occupazione, recuperando il consenso di quei disoccupati che altrimenti si rivolgerebbero alle promesse della dittatura. Al proposito c’è un suo bellissimo testo (del 1933!) che dice più o meno così: immaginiamo due automobili sulla strada una in faccia all’altra. Nessuna delle due potrà passare nemmeno se si cambiassero motori e autisti oppure se si allargasse la strada perché non si ha a che fare con un problema tecnico, ma con una questione di regole di viabilità. Infatti solo se i due autisti si mettono d’accordo per spostarsi reciprocamente ciascuno un poco più sulla propria sinistra, la circolazione potrà riprendere. Si noti che la regola vale soltanto per l’Inghilterra (dove in effetti si tiene la guida a sinistra), ma comunque il senso dell’apologo è chiaro: per Keynes, di fronte al rischio di uno spostamento elettorale delle masse disoccupate verso l’estrema destra, occorreva che anche nelle democrazie si mettessero all’opera politiche pubbliche per l’occupazione che spostassero quelle masse un poco più a sinistra. Solo così quelle democrazie sarebbero sopravissute, e tanto peggio per il libero mercato. Oggi a me pare che si presenti una situazione analoga, sebbene giocata sul piano solo economico e non anche politico non essendoci fortunatamente alcun partito hitleriano alla porte. Mi pare infatti che i lavoratori, danneggiati dalle politiche neoliberistiche, esprimano nei fatti qualcosa di simile a questo messaggio: se non vengono ripristinate le garanzie d’occupazione e di reddito che sono state tolte, scordatevi lo sviluppo! In quanto segue cercherò quindi di dimostrare che il declino economico è l’effetto di questa silenziosa ed inconsapevole, ma non per questo meno evidente, lotta di classe dei lavoratori contro il capitale. E se qui l’enfasi può apparire a qualcuno troppo en marxiste, ritengo che vada bene lo stesso.

2. Dal mio intervento dell’anno scorso (che adesso vedo pubblicato negli atti del seminario Crisi industriale e occupazionale a Milano e in Lombardia da parte del Coordinamento Milanese di Solidarietà “Dalla parte dei Lavoratori”) ne è trascorso del tempo. Ma ho continuato a ragionarci su e mi sono confermato nelle idee allora espresse. Soprattutto mi sono confermato nell’idea che il declino economico dell’Italia è stato indotto dalla perdita di competitività provocata dalla svalutazione del dollaro: ad euro forte, cioè a dollaro debole, le esportazioni nazionali nette (ossia la differenza delle esportazioni dalle importazioni) si sono fatte negative e così quello sviluppo trainato dalla domanda estera, su cui si era contato dalla Grande Svalutazione del 1992 in poi, è miseramente terminato. Ma per sostituirlo con che? Ci vorrebbe uno sviluppo trainato dalla domanda interna che però, dopo oltre un decennio di politiche economiche restrittive (parametri di Maastricht imperando), pare difficile rianimare. Nell’ultima Relazione previsionale e programmatica per il 2006, presentata da Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti nel settembre 2005, si era ipotizzata questa scomposizione della crescita del PIL per il 2006 sul 2005:

Contributo al PIL 2005 2006 PIL + 0.0 + 1.5 Esportazioni nette - 0.4 + 0.0 Spesa pubblica + 0.2 + 0.0 Consumi privati + 0.5 + 0.7 Investimenti e scorte - 0.3 + 0.8 dove non è previsto alcun contributo positivo al PIL da parte delle esportazioni nette, ma nemmeno da parte della spesa pubblica condannata alla diminuzione. Tutto è restato affidato ai consumi e agli investimenti privati (questi ultimi dovrebbero addirittura quadruplicare), con la spesa delle famiglie che sarebbe stata “favorita dal miglioramento del clima di fiducia dei consumatori e dall’andamento positivo del reddito disponibile”, mentre gli investimenti avrebbero beneficiato “dell’incremento atteso di redditività delle imprese e del permanere di condizioni di credito favorevoli”. Erano questi bei propositi subito smentiti dai fatti, non avendo preso in considerazione quei rialzi della “bolletta petrolifera” e dei tassi d’interesse ch’erano già in atto e che pesano come macigni sull’andamento del ciclo economico mondiale dentro il quale l’Italia rischia di fare la solita parte del vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro. Una lettura del declino economico nazionale per insufficienza di domanda effettiva, come quella sopra esposta (e che è ho sostenuto l’anno scorso) è senza dubbio corretta, ma non mi sembra più sufficiente a cogliere l’estrema gravità della crisi strutturale che stiamo vivendo. Infatti ci sono altre statistiche, che considerano l’andamento del PIL dal punto di vista della cosiddetta “contabilità della crescita”, che documentano difficoltà pure dal lato delle componenti dell’offerta. Queste componenti sono l’accumulazione del capitale (più si investe, più si cresce), l’input di lavoro (se ci sono più occupati che più lavorano, più si cresce) e un coefficiente residuale, chiamato “produttività totale dei fattori”, in cui si riassume l’efficienza tecnica della combinazione di capitale e lavoro (più c’è efficienza, più si cresce). In termini di variazioni percentuali, la crescita del PIL risulta così dalla somma delle variazioni dell’accumulazione del capitale K, dell’input di lavoro L e della “efficienza della tecnica” (o produttività totale dei fattori) π:

PIL = K + L + π

All’argomento il Centro Studi della Banca d’Italia ha dedicato nel 2004 una indagine puntuale (con dati che però si fermano al 2001) la cui conclusione è riassunta nel titolo stesso del rapporto: “La crescita dell’economia italiana negli anni novanta tra ritardo tecnologico e rallentamento della produttività”. Vi si documenta come nel corso degli anni Novanta l’economia italiana abbia mancato l’aggancio alla new economy con la conseguenza di “una brusca decelerazione della produttività totale dei fattori annullata nel periodo più recente nel complesso dell’economia (e) diventata lievemente negativa nel comparto manifatturiero”. Se questo è successo fino al 2001, negli anni successivi cosa è successo? Lo mostra una tabella (che traggo da Andrea Ricci, Dopo il liberismo, Fazi editore, 2004, p. 179) che arriva fino al 2003:

Contributo al PIL 1991-1995 1996-2000 2001-2003 Accumulazione del capitale + 0.6 + 0.6 + 0.6 Input di lavoro - 0.4 + 0.5 + 0.8 Produttività totale dei fattori + 1.1 + 0.7 - 0.6 PIL + 1.3 + 1.8 + 0.8

Dico subito che questa tabella è straordinaria perché permette di visualizzare come meglio non si può le tre fasi di politica industriale vissute in Italia dal 1991 in poi. Intanto si vede subito che il contributo dell’accumulazione del capitale è rimasto invariato nel tempo e a un buon livello (a prova che gli investimenti sono stati fatti), affidando quindi la variabilità del PIL all’andamento delle sole altre due componenti: l’occupazione del lavoro e la produttività totale dei fattori. E che ne risulta? Che nel primo periodo (1991-95), all’ombra di quei “governi tecnici” che sull’onda del panico della Grande Svalutazione hanno smantellato la presenza pubblica nell’economia, le imprese private hanno cavalcato la produttività totale dei fattori ma con ricaduta negativa sull’input di lavoro per la “sostituzione di macchine a lavoro” (secondo i dati ISTAT l’occupazione nel periodo si è ridotta da 21.500.000 a 20.300.000 unità). A recupero di questa disoccupazione tecnologica i successivi governi di centro-sinistra (1996-2000) hanno introdotto gli strumenti della “deregolamentazione” del mercato del lavoro e della “moderazione salariale” (dal “pacchetto Treu” alla concertazione sindacale) così che la manodopera, resa più conveniente per le imprese, è potuta tornare a 21.500.000 unità nel 2000. Questa volta però il prezzo è stato pagato nei termini del rallentamento del contributo al PIL della produttività totale dei fattori per la “sostituzione di lavoro a macchine”. Infine nell’ultimo periodo (2001-2003) il governo di centro-destra ha proseguito nella politica di precarizzazione del lavoro inaugurata dal centro-sinistra, così che l’occupazione è salita a 22.500.000 unità nel 2004. Però il peggioramento della produttività totale dei fattori è stato tale da renderne la variazione percentuale negativa, così da annullare letteralmente il contributo positivo dell’accumulazione del capitale (per intenderci: crescono gli investimenti ma, a seguito della perdita d’efficienza produttiva, per il contributo al PIL il loro saldo è zero). Mi pare che stia in questo pessimo risultato, ben più che nelle difficoltà della domanda effettiva di cui dicevo l’anno scorso, la ragione più preoccupante del declino del Bel Paese. Però a questo punto viene da domandarsi: tanto sintomo di malessere di quale causa diretta è conseguenza?

3. Per vederci meglio bisogna isolare, all’interno della produttività totale dei fattori, la produttività del lavoro che risulta (non posso dilungarmi sul procedimento) dalla somma della variazione percentuale dell’accumulazione del capitale e della variazione della produttività totale dei fattori:

πL = K + π

Così il suo calcolo è presto fatto: per il periodo 2001-2003, secondo i dati di cui sopra, anche il suo ammontare è zero! Scomponendo i dati anno per anno (cfr. G. Zanetti, Tratti strutturali dell’economia italiana: rigidità dell’offerta e competitività, “Economia italiana”, 2005, n. 1, p. 30) risultano cifre che ne mostrano la drammatica caduta: e qualcuno ne ha subito ritrovato la causa possibile nella introdotta flessibilità del mercato del lavoro: “la stagnazione in Italia mentre l’occupazione aumenta è una spia che la flessibilità sta creando un’occupazione poco produttiva (così che) più lavoratori creano lo stesso valore” (F. Fubini, All’impresa fa bene lo stress competitivo, “Corriere della Sera”, 15.5.2004). Infatti proprio questo è il nodo. Quando si era proceduto (con ostinazione degna di miglior causa) a rendere flessibile il lavoro, si era sostenuto che i lavoratori con meno garanzie avrebbero lavorato con maggior lena. Ed in effetti una ricaduta in tal senso c’è stata se mediamente le ore di lavoro sono passate nell’industria manifatturiera “dalle 1.581 del 1990 alle 1.620 del 2003” (A. Ricci, cit., p. 180). Contemporaneamente essi sarebbero stati assunti con più facilità dalle imprese, restie invece a stipulare contratti a tempo pieno e indeterminato. L’esito combinato delle decisioni legislative che vanno dal “pacchetto Treu” del 1997 alla legge Maroni del 2003 (che mi pare solo sciacallaggio mediatico chiamarla legge “Biagi”) ha così prodotto la diffusione di contratti di lavoro atipici, con le imprese che licenziano o pensionano lavoratori garantiti per assumere al loro posto manodopera precaria oppure che esternalizzano le proprie mansioni a lavoratori autonomi (che però autonomi non sono affatto) che si fanno “imprenditori di se stessi”. E la trasformazione non è stata di poco conto se si confrontano le stime del CNEL per il 1994 (sono le più antiche che conosco) con quelle di Banca d’Italia per il 2004: Così l’occupazione è cresciuta, ma solo negli impieghi precari. E questo non è stato affatto un bene se all’aumento dei lavoratori delle ore lavorate ha corrisposto una caduta della efficienza del produrre. Il fatto è che a lavorare “in più e di più” non è detto che si lavori meglio; anzi è probabile che si lavori peggio, come per l’appunto è successo. Nel suo ultimo rapporto sull’Italia (OECD, Economic surveys: Italy, giugno 2005) perfino l’OCSE ha dovuto ammettere che proprio quelle riforme del mercato del lavoro, che nelle intenzioni avrebbero dovuto fare miracoli, hanno contribuito al collasso della produttività. A questo punto mi sentirei di sintetizzare così: ben oltre le lamentele sulla perdita di competitività o sul nanismo d’impresa o sulla specializzazione merceologica obsoleta, la vera causa del declino economico dell’Italia sta in una clamorosa crisi delle relazioni industriali che porta alla caduta della produttività del lavoro. E’ ovvio che i capitalisti speculino sulla deregolamentazione del mercato del lavoro per risparmiare quanto più è possibile sul costo della manodopera e continuino a chiedere riduzioni di salario e quant’altro; da parte sua la forza-lavoro subisce queste condizioni peggiorative affollando il mercato del lavoro senza poter protestare più di tanto (soprattutto se non è in condizioni di garanzia). Così il contratto di lavoro si perfeziona al ribasso e l’occupazione aumenta, però al momento dell’erogazione della quantità del “lavoro vivo” contrattato spetta al lavoratore deciderne la qualità, dato che la produttività della propria prestazione non può essergli imposta (lo si può costringere a lavorare di più, ma non lo si può costringere a lavorare meglio). Così a dispetto dell’aumento d’occupazione e di ore lavorate, egli opera in negativo, riduce la propria efficienza produttiva e l’economia inesorabilmente declina. Sta in questa renitenza alla qualità del lavoro, peraltro in una dimensione tale da risultare statisticamente rilevante, la forma più decisa di opposizione ad oltre un decennio di politiche economiche neo-liberistiche che attualmente viene posta in essere.

4. Ma si può provare a dare una veste teorica più precisa a questa opposizione di classe partendo dalla celebre formula marxiana della circolazione del capitale (chiedo un po’ di pazienza, ma ne vale veramente la pena) che si presenta, come è noto, nella forma:

D = M ... P ... M’ = D’

con i capitalisti che con un certo ammontare di denaro iniziale acquistano, per un pari valore, merci (forza-lavoro e beni-capitali) che poi combinano nel processo di produzione per ricavarne altre merci che, vendute al loro valore, realizzano in denaro anche il profitto (essendo D’> D). Non si è però mai pensato di riscrivere questa formula dal punto di vista dei lavoratori. Come la vedono le forze-lavoro? Nei loro confronti quel denaro iniziale è speso come salario con il quale esse poi acquistano, secondo i prezzi a cui vengono vendute, solo una parte delle merci prodotte (diciamo la percentuale ), costituendo il parte rimanente il valore del profitto. La circolazione del capitale prende così la forma:

D = W ... P ... W =  Q p

che individua tre precisi luoghi logici successivi del proprio svolgimento: dapprima il mercato del lavoro dove, in cambio del salario, si perfeziona il contratto lavorativo; poi il luogo della produzione in cui le ore di lavoro contrattate creano materialmente le merci; infine il mercato dei prodotti dove le merci sono acquistate dietro restituzione del salario (abbiamo supposto per comodità che i lavoratori non risparmino nulla). C’è una sola aggiunta importante da fare: la quantità prodotta delle merci è certo funzione delle ore lavorate, ma secondo il livello di produttività espresso da quelle ore di lavoro (ossia dalla quantità delle merci prodotte nell’unità di tempo lavorato), il che si può esprimere con:

Q = πL L

E’ così dentro quei tre luoghi deputati che si succedono i diversi momenti della contesa tra capitalisti e lavoratori dapprima secondo il rapporto di forza contrattuale che sul mercato del lavoro decide il salario e l’orario di lavoro; poi nel luogo della produzione secondo la produttività del lavoro che sulla base delle ore lavorate materializza la quantità delle merci da vendere; infine nel mercato dei prodotti secondo il livello dei prezzi (o grado d’inflazione) che seleziona quanta parte di quelle merci i lavoratori arriveranno ad acquistare con il salario ricevuto. Ora sulla base di queste categorie possiamo andare a ripercorrere velocemente la nostra storia economica passata e presente. Quando la produzione era fordista, la rigidità della catena di montaggio rendeva altrettanto rigido l’utilizzo capitalistico della forza-lavoro (siccome la catena non poteva fermarsi, nemmeno i lavoratori potevano mancare e quindi era giocoforza venir in qualche modo incontro alle loro richieste). Da qui lo spostamento progressivo della forza contrattuale verso la parte operaia, arrivata con l’“autunno caldo” ad imporre salari ed orari quali “variabili indipendenti” della produzione che i capitalisti finirono per accettare a pena della “fermata” della produzione (la storia è troppo nota perché mi ci soffermi, ma ci stanno dentro fatti come gli scioperi “a gatto selvaggio”, lo Statuto dei lavoratori ed il punto unico di contingenza). A tanto “potere operaio”, che non era soltanto conseguenza della consapevolezza politica della classe operaia organizzata ma pure delle condizioni d’erogazione del lavoro “alla catena”, la prima risposta padronale è stata l’inflazione, così da recuperare in termini di salario reale (ossia al momento della vendita delle merci prodotte) quanto sfuggiva in termini di salario monetario all’atto della stipula del contratto di lavoro. Però a quei tempi la forza di classe era così sbilanciata verso il lavoro da consentire ai salariati di recuperare il potere d’acquisto perduto mediante l’indicizzazione della retribuzione grazie al meccanismo della “scala mobile” introdotto nel 1975 e poi perfezionato nel 1977 (come si vede le date non sono casuali). E’ solo dopo il fallimento dell’occupazione di Mirafiori nel 1981 che ha preso il via l’effettiva reazione capitalistica per mezzo di un lento ma costante lavoro di erosione della forza salariale che dal decreto di San Valentino del 1984 (ed esito referendario perso nel 1985) ha prima limitato l’applicazione della scala mobile e poi l’ha definitivamente cancellata con gli accordi di concertazione del 1992-93. Però in questi accordi c’era anche di più: c’era pure l’ammissione della perdita d’egemonia del lavoro “fordista”. Infatti, in cambio della promessa padronale di mantenere il potere d’acquisto dei salari mediante il controllo dei prezzi (l’inflazione “programmata”), il sindacato “concertativo” accettava di porre fine alla rigidità del rapporto di lavoro così da recuperare la disoccupazione tecnologica prodotta nel frattempo dalle novità organizzative della produzione flessibile e delle delocalizzazioni industriali (gli anni ’80 non sono passati invano per il capitale, che vi ha posto le premesse per un proprio straordinario “mutamento di pelle”). Sul momento sembrò anche un equo baratto: entrambe le parti sociali deponevano le armi che avevano in precedenza reciprocamente utilizzato sul mercato del lavoro e sul mercato dei prodotti e che avevano portato soltanto ad una rincorsa frenetica di prezzi e salari. Però a conti fatti si è visto che i capitalisti hanno giocato sporco. Incassata la flessibilità del mercato del lavoro, non hanno affatto contenuto l’inflazione; al contrario, approfittando del change-over dell’euro del 1999, le hanno dato libero sfogo così che alla svolta del nuovo millennio la precarietà dell’occupazione (per flessibilità) e del potere d’acquisto (per inflazione) sembra diventata la caratteristica dei nuovi lavoratori post-fordisti che, rispetto agli anni ’70, si trovano ad aver perso il controllo del mercato del lavoro (dove dominano i compratori, ossia i datori di lavoro) e del mercato dei prodotti (dove spadroneggiano i venditori, ossia i commercianti), mentre loro sono schiacciati sia come venditori di forza-lavoro che come compratori di prodotti. E tuttavia essi continuano a mantenere, al momento della erogazione del “lavoro vivo” che avviene nel luogo della produzione, la decisione sovrana sulla qualità della prestazione lavorativa che non può essergli espropriata. E se la giocano a proprio favore. Ma come?

5. Si dice in teoria che un lavoratore può avere nei confronti della funzione produttiva che deve svolgere un comportamento collaborativo oppure conflittuale, partecipandovi emotivamente con adesione oppure con ostilità. Nel caso concreto, quando le sue attese (di remunerazione, d’avanzamento in carriera, di sicurezza di posto, di riconoscimento sociale) risultano frustrate, il barometro del suo comportamento si muove spontaneamente verso l’ostilità piuttosto che verso la collaborazione. In questo caso la quantità del lavoro viene svolta (dato il rapporto di forza, non può non essere svolta), ma con uno scadimento qualitativo, con una noncuranza che sono testimonianza di tutta la contrarietà del soggetto ad una condizione lavorativa che vive negativamente. Così, di fronte ai bassi salari sul mercato del lavoro e agli aumenti di prezzo sul mercato dei prodotti che vengono subiti passivamente per l’estrema debolezza contrattuale, i lavoratori “post-fordisti”, stabili o precarizzati che siano, reagiscono al fallimento delle proprie attese sia in termini di remunerazione monetaria (il salario sul mercato del lavoro) che reale (il potere d’acquisto sul mercato dei prodotti) con l’unico strumento di lotta che gli è rimasto: la riduzione della produttività del lavoro nel luogo stesso del produrre, ossia all’atto dell’erogazione del “lavoro vivo”. Ma è addirittura possibile dare veste grafica a questo effetto. Premesso che le variabili in gioco sono quattro: il salario monetario, l’ammontare delle ore lavorate, la quantità delle merci prodotte ed il prezzo di vendita di queste merci, esse possono essere ridotte a due soltanto se si considerano il salario reale, quale rapporto del salario monetario sul livello dei prezzi (wR = w/p), e la produttività del lavoro come rapporto della quantità delle merci prodotte sulle ore lavorate (πL = Q/L). All’atto della stipula del contratto di lavoro i lavoratori accettano un dato salario monetario che, sulla base di un livello previsto dei prezzi (pe), ritengono idoneo ad assicurare loro un potere d’acquisto compatibile con lo sforzo produttivo che dovranno svolgere. Quindi il salario reale da loro atteso è determinato da wRe = w/pe che è funzione crescente della produttività del lavoro se ipotizziamo che all’aumentare di questa i lavoratori se ne aspettino una crescita perché prevedono di venir meglio remunerati monetariamente in quanto più efficienti e/o perché si aspettano un calo dei prezzi a seguito dell’aumento della quantità delle merci prodotte. A loro volta i capitalisti concordano con i lavoratori il salario monetario e l’orario di lavoro, ma decidono del tutto autonomamente il livello dei prezzi al quale le merci prodotte saranno vendute. Il salario reale previsto dai lavoratori si misurerà quindi, alla fine del processo di produzione, con il salario reale quale sarà stabilito dal livello effettivo dei prezzi (wR = w/p) che sarà lo stesso per qualsiasi grado di produttività del lavoro non avendo i capitalisti alcun strumento per condizionarla. Ora, se ad un certo grado di produttività del lavoro i prezzi attesi vengono poi a coincidere con quelli effettivamente pagati (pe = p), il salario reale effettivo sarà coincidente con quello previsto dai lavoratori (wR = wRe) confermando quel grado di produttività come conveniente:

Infatti in questo caso i lavoratori vedranno realizzati i propri obiettivi e quindi nel periodo successivo impegneranno nel lavoro quella medesima produttività che ha soddisfatto nel periodo precedente, alle condizioni date sul mercato del lavoro e sul mercato del prodotti, le loro aspettative di potere d’acquisto. Ma se il salario reale effettivo risulta inferiore a quello previsto perché i prezzi determinati dai capitalisti sono maggiori di quelli attesi (wR’ < wRe perché p’ > pe), i lavoratori si sentiranno defraudati e saranno indotti a comportarsi razionalmente nel periodo successivo per riportare in equilibrio le proprie aspettative con il salario reale. E qui le alternative sono due: al rialzo della rivendicazione salariale monetaria così da compensare quell’aumento dei prezzi confermando la produttività del lavoro che ha determinato le loro aspettative di salario reale (wR = wRe perché w’ > w) oppure, se ciò non è possibile per debolezza contrattuale, al ribasso della pretesa di salario reale contraendo opportunamente la produttività del lavoro (wRe = wR perchè πL’ < πL):

In questo secondo caso, siccome la produttività del lavoro è misurata dal rapporto tra la quantità delle merci prodotte e l’ammontare delle ore lavorate, questa sua riduzione si esprimerà attraverso una minore quantità di merci prodotte a parità di ore lavorate oppure in una maggior quantità di ore lavorate per la stessa quantità di merci prodotte. In entrambi i casi siamo di fronte al declino economico indotto dalla reazione dei lavoratori al fallimento delle loro aspettative di potere d’acquisto. Ora io credo che si possa leggere questo effetto come l’espressione della intensità della lotta di classe possibile negli attuali rapporti di forza sui mercati del lavoro e dei prodotti. Infatti se la riduzione della produttività del lavoro è conseguenza della differenza negativa che si apre tra salario reale effettivo ed atteso, allora essa è misura del potere di contrattazione che resta ai lavoratori. E quanto più l’impresa si rivela incapace di contrastarne la diminuzione, tanto più si mostra il loro controllo sull’esecuzione del processo di produzione. Ma, si chiederà, come è possibile far ripartire la produttività del lavoro? Qui si apre un bel dibattito sul quale mi sentirei di dire appena questo. E’ comodo attribuire la caduta della produttività del lavoro all’insufficienza di “capitale umano” di lavoratori occupati che, scarsamente attrezzati di conoscenze, risulterebbero inefficienti. Da qui la soluzione dell’investimento in “formazione” che, arricchendo quei lavoratori, dovrebbe renderli automaticamente più produttivi. In quest’ottica la causa è del tutto oggettiva, mentre il rimedio sta nella sola e piena disponibilità delle imprese di fare investimenti. Ma se, come qui si è argomentato, la caduta della produttività è conseguenza della frustrazione dei lavoratori, siano o meno dotati di conoscenza, allora il rimedio può stare soltanto in un recupero della motivazione al lavoro produttivo e non in quella imposizione al lavoro mediante gli strumenti della precarizzazione e della flessibilità che si è perseguita finora con le politiche neoliberistiche. Queste possono far aumentare l’occupazione, ma per rialzare la produttività degli occupati bisogna che costoro siano non tanto “istruiti” (sebbene l’istruzione non faccia mai male) quanto “felici” nell’esercizio delle proprie mansioni perché soddisfatti nelle proprie aspettative di potere d’acquisto. E’ chiaro allora quanto sarebbe necessario: un controllo dell’inflazione a valle ed un aumento dei salari monetari a monte del processo di produzione. E a tutti coloro che allora si preoccuperebbero delle sorti del profitto, va risposto che in un orizzonte temporale prolungato quel maggiore salario reale sarebbe più che compensato dall’indotto guadagno di produttività dei lavoratori “felici”. Solo nel caso d’imprese interessate ad un solo periodo di produzione (il caso “mordi e fuggi”), il gioco non varrebbe la candela, così da lasciare i prezzi dei prodotti determinati soltanto dal potere monopolistico dell’impresa sul mercato ed i salari monetari imposti sulla base della sola forza contrattuale del padronato. Ma fortunatamente questo non può essere il caso per tutte le imprese del sistema-paese, o almeno non dovrebbe essere il caso.

Professore Università di Bologna.