Salari, povertà, redistribuzione

REDAZIONE DI PROTEO

Intervista a Salvatore Cannavò

Partiamo dall’attualità. Il governo Prodi cade quando da più parti si chiedeva di aprire la questione salariale e della redistribuzione. È una coincidenza o la dimostrazione di un governo minato in origine in ogni sua aspirazione almeno riformista? Non credo alla coincidenza. La caduta del governo è stata rimpianta per diversi giorni da Confindustria e dalle imprese in generale, anche perché ha precipitato con sé tutto l’iter di riforma del contratto nazionale a cui stava lavorando il fronte della Concertazione, a partire da Cgil, Cisl e Uil. La stessa redistribuzione di reddito è stata auspicata da diverse centrali finanziarie ed economiche, a partire dalla Banca d’Italia, come forma temporanea di supporto alla crisi in arrivo e come strumento di rivitalizzazione della domanda interna. Direi piuttosto che abbiamo assistito all’ennesima truffa perpetrata a danno dei lavoratori a opera della politica “dei due tempi”: prima il risanamento, poi la redistribuzione. Come si ricorderà, l’alleanza dell’Unione e la presenza della sinistra comunista all’interno della prospettiva di governo nasceva anche sulla promessa di finirla con quella politica e di arrivare per la prima volta a una con testualità tra risanamento economico e “giustizia sociale”. Una truffa bell’e buona, visto che per due anni abbiamo dovuto assistere a una finanziaria che ha spostato ingenti risorse - tra i 15 e i 20 miliardi complessivi - sul lato delle imprese operando, al meglio, per una semplice redistribuzione di reddito nel lavoro salariato penalizzando lavoratori giovani e single a vantaggio delle famiglie. Questa scelta di fondo ha rinviato il possibile “risarcimento” che era promesso per il 2008. Ma anche la promessa mi sembra fosse piuttosto fragile. Si è parlato di possibili, e modesti, aumenti salariali solo in cambio di concessioni significative sul fronte della produttività: dalla riforma del contratto nazionale con valorizzazione dei contratti aziendali (e quindi dei premi di produttività), alla detassazione degli straordinari contenuti nel pacchetto Welfare fino alla proposta avanzata dalla Sinistra di governo riguardo alla detassazione degli aumenti salariali. Una proposta, questa, che colpisce per l’accettazione di un terreno, quello fiscale, sfavorevole ai lavoratori dipendenti in cui la redistribuzione del reddito avviene a scapito dei servizi pubblici finanziati dalla fiscalità generale. Quindi con i soldi dei lavoratori stessi.

La Sinistra Critica ha quasi da subito posto in evidenza i limiti dell’azione di governo. Secondo te quali sono stati quelli principali in materia di redistribuzione e welfare? Come dicevo sopra, innanzitutto la logica concertativi, leggi filopadronale, che ha animato l’azione del governo Prodi e che ha rappresentato il filo conduttore dell’alleanza dell’Unione. Prodi verrà ricordato, probabilmente, per due punti: il cuneo fiscale e il pacchetto Welfare. Il cuneo rappresenta la più grande opera di redistribuzione di reddito a favore delle imprese - circa 5 miliardi a regime - mai operata negli ultimi anni. Stiamo parlando di un’operazione che alla sola Fiat ha fruttato, più o meno, 400 milioni all’anno e che, ad esempio, ha dato 20 milioni alla ThyssenKrupp che certo non li ha spesi per migliorare la sicurezza sul lavoro. Una redistribuzione al rovescio, dunque, in cui a fare le spese è stato il lavoro dipendente. E infatti la curva dei salari è peggiorata. Anche sul Welfare si è proseguito sulla linea tracciata dal pacchetto Treu e dalla legge 30: flessibilità, più o meno regolata, sostegno alle imprese e lavoro come variabile dipendente. A proposito di redistribuzione e welfare, inoltre, va segnalato il danno che sarà prodotto dal pacchetto Welfare in cui è previsto che in caso dei mancati risparmi conseguenti all’accorpamento degli enti previdenziali, circa 3,5 miliardi di euro, verranno aumentati i contributi dei lavoratori dipendenti che sono stati già aumentati dello 0,9% nel 2006. Come si vede la redistribuzione o avviene al contrario oppure tutta all’interno dello stesso lavoro dipendente, in questo caso a scapito dei nuovi lavoratori per permettere l’ammorbidimento dello scalone. La ricerca di Bankitalia ha evidenziato come i salari dipendenti siano fermi dal 2000 e come la ricchezza sia concentrata in una fascia esigua della popolazione (il 10% della popolazione possiede il 43% delle risorse). Secondo te in che misura è possibile ribaltare questi rapporti di forza tra capitale e lavoro e soprattutto quali prospettive ci sono? Non c’è dubbio che noi viviamo una fase di stagnazione delle lotte, di crisi di prospettiva per il movimento operaio a cui non è esente il grado di demoralizzazione provocato dalle vicende politiche. Più in generale, io credo che siamo nella fase del massimo logoramento e usura del movimento operaio organizzato, in larga parte ancora trainato da delegati e quadri formatisi dagli anni 70 in poi e che hanno vissuto solo sconfitte. Guarda al contratto dei metalmeccanici che ha prodotto un vulnus in una categoria, e in un sindacato come la Fiom, che aveva cercato di tenere un argine, sia pure dal punto di vista più generale, e che oggi è costretto ad accettare la logica per cui ad aumento di salario deve essere concessa più flessibilità. Una condizione per l’inversione di tendenza, dunque, è la presa di parola di generazioni nuove che siano anche in grado, per condizione materiale specifica, di superare lo steccato tra lavoratori a tempo intedeterminato e lavoratori precari. Questa mi sembra la pre condizione necessaria per fronteggiare il ricatto che proviene dalle imprese. Non sarà facile e forse ci aspetta una fase ancora pesante, ma l’inversione dei rapporti di forza può avvenire con un surplus di unità della classe - unità anche con i lavoratori migranti - e di unità sul piano internazionale, terreno che è praticamente assente da qualsiasi preoccupazione politica e sindacale e che invece rappresenta l’arma delle imprese per indebolire il suo antagonista. Lo strumento necessario per fare questo è un nuovo sindacato. Il tema è all’ordine del giorno e dovrebbe riguardare sia il sindacalismo di base e anticoncertativo sia le correnti sindacali di classe che ancora permangono in Cgil. Io credo fermamente che questo sia il nodo decisivo della prossima fase e che la permanenza di nicchie, sordità, incapacità di gestire un percorso unitario e innovativo contribuisca ad alimentare la fase di stagnazione e divisione delle lotte.

In particolare, quale forma politica ritieni possibile per incidere nel conflitto in atto e che possibilità ci sono perché non sia ridotta a semplice testimonianza? Se per forma politica si intende soggettività politica, credo che serva una forma che faccia tesoro degli ultimi due anni non tanto come parentesi negativa nella storia della sinistra, ma come sintesi compiuta degli ultimi quindici anni. Si è chiuso un ciclo e per la sinistra di classe si pone un nodo piuttosto semplice: o recuperare una tradizione riformista e compromissoria, tipica della sinistra storica italiana e che riscontriamo plasticamente nel processo di formazione della Sinistra-l’Arcobaleno, oppure cercare di sviluppare una soggettività anticapitalista, centrata sul conflitto e, soprattutto, su nuove possibilità di radicamento e di rapporto, direi organico, con una classe profondamente mutata nei suoi dati materiali e nella percezione che ha di sé. Insomma, serve un processo di ricostruzione della sinistra che non faccia più sconti e che non permetta la compresenza di ambiguità sostanziali, come è stato per Rifondazione comunista, ad esempio. La vicenda del governo Prodi è stata esemplificativa e rappresenta uno spartiacque. Questa sinistra, ovviamente, deve recuperare l’apporto di diverse correnti e tendenze e non pensarsi necessariamente nella forma tradizionale del “partito”. Oggi è più immediato ragionare su una Coalizione o Alleanza anticapitalista che salvaguardi specificità stratificate ma che si ritrovi attorno a un programma condiviso a una forte propensione per l’azione sociale e quindi verso il movimento e, magari, capace di realizzare forme vincenti di rappresentanza istituzionale. L’insieme di questi fattori può evitare la forma di testimonianza che, però, non può essere considerata solo nella sua accezione negativa. Credo che aver votato contro la guerra in Parlamento sia stato un atto di testimonianza ma penso che sia stato necessario e, spero, utile.

Il contratto dei metalmeccanici è stato accolto con consenso quasi unanime. Il segretario Giordano ne ha parlato come una vittoria. Vorrei un tuo giudizio sull’accordo. Come dicevo sopra, si è scambiato un aumento salariale - non molto dissimile da quello proposto da Ferdermeccanica, visto che si è accettato il prolungamento a due anni e mezzo - con la flessibilità. Certo, meno di quello che chiedevano le imprese ma comunque si è dovuto accettare lo scambio e questo penso sia il punto negativo principale. Che a sua volta, però, contiene un fatto politico e cioè il rientro della Fiom nei ranghi della “normale” dialettica interna alla Cgil chiudendo così la fase della “disubbidienza” e della sua sostanziale anomalia. Per Rinaldini e la Fiom si tratta soprattutto di una sconfitta politica che permette al gruppo dirigente della Cgil di affrontare la prossima fase - che sarà una fase “conflittuale” senza governo amico - con maggiore compattezza e forza. E che pone alla sinistra interna alla Cgil, soprattutto alla Rete28Aprile, una discussione strategica rilevante.

Quali politiche sono possibili per un’azione di redistribuzione e che consenta due cose: a) il recupero del potere d’acquisto e b) il contrasto alla povertà? Nella campagna elettorale che si sta per aprire, come Sinistra Critica faremo alcune proposte precise centrate su alcuni criteri base. Il primo è che serve un recupero del potere di acquisto significativo, parliamo di almeno 150-200 euro netti mensili se vogliamo permettere alle famiglie dei lavoratori dipendenti di arrivare a fine mese. Si possono pensare a differenti strumenti come al recupero del fiscal drag - tra l’altro auspicato anche da Bankitalia - ma ci sono almeno due terreni che forse devono essere messi in agenda. Il primo è normativo e presuppone la possibilità di stabilire per legge il salario minimo sotto il quale non si può scendere. A deve essere chiaro che gli aumenti salariali devono provenire dai profitti che in questi anni sono aumentati vertiginosamente e quindi la redistrbuzione principale deve avvenire in questo campo. Per questo crediamo si debba pensare non solo alla tassazione delle rendite finanziarie ma deve tornare d’attualità la Patrimoniale per colpire gli accumuli di reddito e comunque il grosso non può che provenire da una rinnovata capacità vertenziale.

Che rapporti possono esserci tra Sinistra Critica e Cosa Rossa? La Cosa “rosa” è ormai la “Cosa Arcobaleno”, ha una sua precisa strategia e un suo spazio politico che punta a ritagliare un ruolo per una sinistra riformista, di stampo socialdemocratico a sinistra del Partito Democratico. Come dicevo prima, noi pensiamo che a lato di questa sinistra ci sia spazio, e necessità, per una sinistra di classe, anticapitalista, ecologista, femminista, internazionalista. In qualche modo si tratta della attualizzazione della teoria delle “due sinistre”. Detto questo, è chiaro che sul fronte delle iniziative, delle lotte, di un’unità d’azione a partire da piattaforme e obiettivi condivisi si possa sviluppare un lavoro comune. Sarà la realtà politica e sociale del paese a dirci quanti margini di iniziativa in comune ci saranno, non certo una pregiudiziale ideologica o, peggio, settaria.