Programmazione economico-sociale versus modelli di crescita quantitativa: possibili strumenti di pianificazione economica per lo sviluppo qualitativo a compatibilità socio-ambientale

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

In questa prima parte dell’inchiesta che proponiamo ai lettori di PROTEO si analizzerà il problema ambientale a un livello generale per proseguire poi nei successivi numeri con una disamina più approfondita dei vari aspetti legati al rapporto produzione-ambiente che oggi si configura nella contraddizione o meglio nel conflitto tra capitalismo e natura 1. La globalizzazione della finanza e il mondo della povertà

La realtà che ci circonda è oggi caratterizzata da una serie di conflitti economici e politici, nascosti dietro il paravento di motivi etnici e religiosi che, a dispetto della cosiddetta uguaglianza che si sarebbe dovuta originare dalla globalizzazione, riproducono in realtà una ripartizione del mondo tra i maggiori e più potenti paesi capitalistici, nell’attuale dimensione della competizione globale fra poli imperialisti. La cosiddetta globalizzazione, che rappresenta l’attuale fase neoliberista della mondializzazione capitalista, che doveva spostare l’identità dell’uomo dal locale al globale, il libero scambio che doveva liberare da qualsiasi vincolo i mercati locali e nazionali per dirigerli verso una dimensione internazionale, hanno in realtà provocato un rapido e ancor più grave aumento della povertà e della differenza esistente tra poveri e ricchi L’internazionalizzazione degli investimenti, la finanziarizzazione dell’economia hanno generato un forte processo di concentrazione dei monopoli. La trasnazionalità delle imprese facilita la delocalizzazione, la possibilità di licenziamento, di attacco al costo del lavoro e la mancata redistribuzione del reddito. Il fordismo è stato facilmente sostituito dal postfordismo e anche il keynesimo è cambiato diventando sempre più a connotazione di keynesismo militare e di guerra. I cambiamenti dell’ambiente causati dall’uomo sono stati costanti nel corso dei secoli ed hanno modificato i paesaggi e intaccato pesantemente le risorse naturali del pianeta. I sostenitori della crescita quantitativa e dello sviluppo capitalistico non hanno tenuto nella giusta considerazione le condizioni socio-ambientali della produzione; la rincorsa al profitto ha trasformato l’uomo in “Capitale Umano” e la natura in “Capitale Naturale”. La totale assenza di valori di equità sociale ha fatto si che nessuno si preoccupasse delle condizioni di vita delle popolazioni dal momento che il capitale per realizzare profitto deve creare accumulazione ed estensione e per fare ciò è necessario produrre e vendere sempre cose nuove. Il capitale cerca, in questo senso, addirittura di ridurre al minimo la proprietà e di affittare tutto quanto possibile (dai macchinari, agli impianti, addirittura al lavoro umano) per realizzare il massimo capitale monetario da investire nei mercati finanziari. I profitti conseguiti con la produzione, la commercializzazione e il consumo di beni e la commercializzazione dei servizi non trovano più sbocchi in investimenti redditizi, in grado di accrescere la produzione e la buona occupazione; ogni anno infatti, i movimenti internazionali di capitali sono trenta volte più alti del valore del commercio mondiale. La crescita delle rendite e dei profitti ha avuto come ripercussione la diminuzione dei salari diretti, indiretti e differiti. Questo ha aumentato la differenza tra le classi sociali e la concentrazione della ricchezza in poche mani. La finanziarizzazione dell’economia è, quindi, una tra le maggiori cause del critico stato dell’economia mondiale, anzi è una scelta del capitale internazionale per tentare di uscire dalla crisi strutturale di accumulazione che lo soffoca ormai da trenta anni. Il processo di finanziarizzazione dell’economia genera una ricchezza fittizia, svincolata dal lavoro e dalla redistribuzione della ricchezza. Eppure lo sviluppo della ricchezza finanziaria, senza lavoro vero, sembra incontrollabile. La nuova fase della globalizzazione neoliberista guidata dalle multinazionali causa un divario sempre più profondo tra pochi ricchi sempre più ricchi e tantissimi poveri sempre più poveri. Il concetto dello crescita senza limiti, l’abbattimento di ogni frontiera sono solo una giustificazione delle appropriazioni indebite che le società più sviluppate operano ai danni di quelle più deboli; basti pensare che il reddito di poche persone più ricche al mondo è maggiore di quello di miliardi di poveri. In realtà la principale conseguenza dello sviluppo capitalistico è la crescita economica quantitativa che porta con sé l’accumulo di capitale, la concorrenza selvaggia, l’aumento senza freni delle disuguaglianze, e lo sfruttamento senza freni delle risorse naturali. Il capitale attraverso lo “sviluppo” in realtà cerca di ottenere il maggior profitto possibile dallo sfruttamento delle risorse naturali e umane. L’economia capitalistica, infatti, riflette una logica di colonizzazione e di mercificazione di tutte le relazioni umane. Il mercato e le sue leggi travolgono tutti gli spazi, i beni comuni. E tutto ciò è indicato come processo di modificazione necessario per lo sviluppo, per il bene comune. La selvaggia economia di mercato, la finanziarizzazione e la sempre crescente disparità tra offerta di beni e bisogni effettivi delle persone sono i risultati di una globalizzazione neoliberista senza freni e senza limiti. Infatti i processi di finanziarizzazione dell’economia permettono ai paesi imperialisti di appropriarsi di quote crescenti di plusvalore e sottomettere ai propri voleri politico-economici il mondo intero, l’intera umanità. In realtà però il cosiddetto “vero sviluppo” non si è mai realizzato; si è avuto solo uno sviluppo legato alla storia dei paesi occidentali che ha mercificato i rapporti tra gli uomini e la natura attraverso lo sfruttamento delle risorse umane e naturali solo per ricavare profitto per pochi. Si sono avute nei secoli tre fasi principali: la colonizzazione dei paesi con la conseguente nascita degli imperi coloniali europei; la fase dello sviluppo che ha permesso agli Stati Uniti di appropriarsi degli ex mercati coloniali europei e infine la globalizzazione ossia il nuovo nome della politica egemonica dei paesi ricchi contro quelli poveri. “Lo sviluppo è l’occidentalizzazione del mondo”. 1 L’attuale globalizzazione neoliberista non è altro che la continuazione nel tempo del cosiddetto mito dello sviluppo definito come il mezzo per permettere a tutti gli esseri umani di godere di un’esistenza degna e soddisfacente. La globalizzazione neoliberista e lo sviluppo, infatti non possono essere separati dal sistema di produzione capitalistico. Lo sviluppo è in sostanza la volontà dei paesi occidentali di dominare il mondo attraverso il mercato, le tecnologie e la scienza, cioè attraverso il modo di produzione capitalistico basato sempre e comunque sullo sfruttamento. Il sistema si fonda quindi da un lato sull’accumulazione di ricchezza e di profitto da parte di pochi e dall’altro sulla crescita a dismisura delle disuguaglianze tra ricchi e poveri. Ogni cosa è quindi subordinata alla volontà di accrescere il profitto; gli uomini, gli animali, la società, la natura, tutto deve sottostare alle regole dello sviluppo del modo di produzione capitalistico. In questi ultimi anni, dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica, i grandi poteri economici hanno imposto prima una globalizzazione unipolare e poi una competizione globale che, nel definire i dettami dell’economia imperialista, ha nel contempo realizzato uno sfruttamento accelerato della natura e del lavoro aumentando vertiginosamente le alterazioni causate dalla produzione selvaggia e senza limiti di uno sviluppismo quantitativo orientato solo dalle regole del profitto del capitale internazionale. Per cercare di porre un freno ad esempio ai cambiamenti climatici derivati da queste modificazioni si chiede una limitazione dei consumi di energia e delle merci. Se questo limite ai consumi risulta inaccettabile ai cittadini del cosiddetto Primo Mondo lo è ancora di più per coloro (sono oltre 4,5 miliardi di persone) dei paesi poveri del Sud del mondo che hanno bisogno giustamente di “consumare” almeno il minimo che permetta loro di vivere decentemente (con acqua corrente, gabinetti, frigoriferi, ecc. ). Nei paesi cosiddetti sviluppati nei quali vivono circa 1, 5 miliardi di persone i bisogni primari e secondari sono quasi sempre soddisfatti e l’abuso di risorse naturali crea notevoli danni alla natura. Cosa succederebbe se i 4,5 miliardi di persone che vivono in povertà nei paesi del Sud del mondo cominciassero a disporre della giusta disponibilità dei beni necessari a soddisfare i loro bisogni? I tagli alla spesa sociale, la diminuzione dell’occupazione e la riduzione degli aiuti e dei sussidi alle popolazioni dei Paesi in Via di Sviluppo, ma anche lo stesso abbattimento dello Stato sociale nei paesi europei, ha fatto si che tra coloro che vivono al di sotto della soglia di povertà si aggiungono agli abitanti dei paesi del Terzo Mondo anche una crescente fascia di coloro che vivono nei paesi del Nord del mondo ma che sono tagliati fuori dal mercato del lavoro. Vi è poi un altro aspetto da considerare: cosa accadrebbe se oggi si arrivasse ad una immediata e cospicua riduzione nella produzione di merci che, seppure in qualche modo possono essere considerate superflue, garantiscono altresì a milioni di lavoratori la possibilità di un salario? Una eventuale diminuzione dello sfruttamento delle risorse naturali poi, procurerebbe una ulteriore ingiustizia nei confronti dei poveri di tutto il mondo in quanto a fronte di una riduzione dei consumi questi sarebbero i primi a subirne le conseguenze.

2. Il conflitto capitale-natura

La sempre maggiore diffusione dell’emergenza ambientale ha portato inoltre alla luce nuovi problemi. Infatti ci si domanda: fino a quando è possibile continuare a sfruttare le risorse della natura, a inquinare e a provocare disastri naturali anche se solo per garantire ai poveri del mondo il minimo necessario alla loro sopravvivenza?

“Viviamo in un pianeta inserito in una delicata ed intricata rete di relazioni ecologiche, sociali, economiche e culturali che regolano le nostre esistenze. Se vogliamo raggiungere uno sviluppo sostenibile, dovremo dimostrare una maggiore responsabilità nei confronti degli ecosistemi dai quali dipende ogni forma di vita, considerandoci parte di una sola comunità umana, e nei confronti delle generazioni che seguiranno la nostra. Il Vertice di Johannesburg 2002 rappresenta un’opportunità per l’impegno di costruire un futuro più sostenibile. ”2

Queste parole di Kofi Annan al Vertice Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile dell’anno 2002 mostrano come sia attuale e improrogabile la elaborazione di leggi nazionali e internazionali che abbiano come scopo la difesa dell’ambiente in cui viviamo.

“Fenomeni come desertificazione, riduzione della fascia di ozono, innalzamento del livello degli oceani, impoverimento della fauna e della flora (terrestri e marine), erosione delle coste, scioglimento dei ghiacciai minacciano gravemente il pianeta. Paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo sono responsabili in ugual misura: l’uso indiscriminato delle risorse ha profondamente danneggiato gli equilibri degli ecosistemi, lo sfruttamento eccessivo ne ha compromesso la capacità di rigenerazione. Trasformare l’attuale modello di sviluppo secondo i principi della sostenibilità sembra essere la soluzione più efficace”3.

La quantità di acqua dolce accessibile agli uomini è inferiore all’1%, il problema dell’energia e dell’accessibilità alle risorse energetiche è sempre più influenzato dall’instabilità del mercato petrolifero; diventa sempre più manifesto il legame tra sviluppo sostenibile e sanità. La stragrande maggioranza delle attività produttive influenza l’ambiente condizionando negativamente il benessere della popolazione mondiale. Si parla allora di “sviluppo sostenibile”, cioè un modello che dovrebbe essere in grado di combinare tre necessità: la crescita, la diminuzione della povertà e la tutela degli ecosistemi. Il raggiungimento della crescita è visto però come necessario per raggiungere gli altri due scopi. La crescita sottintende l’aumento delle quantità prodotte, ma per rinsaldarsi e continuare, deve essere accompagnata dall’alfabetizzazione, dal miglioramento della sanità, delle condizioni di vita. Si è così lanciato tutto un programma compatibile al modo di produzione capitalista attraverso il concetto di “sviluppo sostenibile” come falsa idea di soddisfare i bisogni senza compromettere le risorse naturali, ma ciò se fosse vero entrerebbe in conflitto con le stesse leggi del libero mercato, del liberismo selvaggio. Lo stesso aumento del PIL implica ad esempio una crescita della produzione delle merci e la conseguente accentuazione dell’inquinamento ambientale. L’economia mondiale sta cambiando profondamente: la globalizzazione neoliberista, le privatizzazioni, la liberalizzazione dei commerci e dei mercati di capitali, hanno peggiorato lo standard di vita anche dei paesi a capitalismo maturo e i paesi in via di sviluppo rischiano di arretrare ancora di più: è necessaria quindi una globalizzazione della solidarietà in modo che si equilibri con le regole di uno sviluppo qualitativo, compatibile e sostenibile sul piano sociale, ambientale, dei diritti umani, civili e del lavoro e sia realmente efficace per tutti i paesi. L’idea che un aumento del PIL sia una cosa buona e l’obiettivo da perseguire per tutti i paesi rientra sempre nel concetto di mondo globalizzato neoliberista che ha come valori essenziali quelli del mercato, dell’economicizzazione capitalista del mondo. La rincorsa alla crescita del PIL che tutti i Governi fanno non è altro che una “menzogna statistica” poiché in definitiva l’aumento del PIL non rappresenta sicuramente un miglioramento del livello di vita in tutti i cittadini di un paese. Il PIL è il metro di misura attraverso il quale i vari paesi si confrontano ma occorre chiarire quali sono i limiti di questo indicatore. Innanzitutto il PIL misura tutte le attività che contengono una transazione monetaria trascurando tutte le altre; ad esempio se una persona ha un incidente automobilistico e versa in gravi condizioni in ospedale si ha comunque una crescita del PIL; l’economia di guerra e le guerre guerreggiate di aggressione dei popoli, sostengono la domanda e accrescono il PIL. Un’altra caratteristica del PIL è quella di contabilizzare solo i danni e le riparazioni all’ambiente per cui risulta essere un fattore positivo per la crescita del PIL l’inquinamento dell’ambiente e la successiva depurazione mentre invece chi non inquina e si comporta correttamente porta minore ricchezza al suo paese. Ed ancora ad esempio l’estrazione di minerali o il taglio di alberi producono ricchezza ma non viene contabilizzata la grande perdita causata all’ambiente. 4 L’idea ossessiva della crescita del PIL fa si che tutte le produzioni comprese quelle nocive siano considerate positivamente; ad esempio il capitale investito in una impresa inquinante accresce il PIL così come un investimento in una impresa che opera contro l’inquinamento viene considerato come un valore aggiunto quando invece al contrario la produzione di questa non aumenta il benessere ma al massimo può cercare di mantenerlo. È chiaro che il PIL è un indice-paradosso che premia tutto ciò che accresce il mercato.

3. I cosiddetti indicatori alternativi dello “sviluppo sostenibile”

3. 1 Gli indicatori macroeconomici Se si calcolasse il PIL tenendo conto anche dei danni ecologici il valore di questo dovrebbe essere notevolmente ridotto in ogni paese. E quindi è una mera illusione pensare a uno sviluppo sostenibile perché ogni produzione di merci provoca un impoverimento delle risorse naturali. Ed anche la consapevolezza che gli indicatori monetari come il Prodotto Interno Lordo non sono in grado di rilevare il peggioramento e l’impoverimento delle risorse viene confutata con forza; si è pensato di fare delle correzioni al PIL creando un nuovo indicatore: il “PIL verde” che tenga conto del degrado dell’ambiente attraverso la rilevazione dei costi dovuti ad esempio all’introduzione delle marmitte catalitiche per le automobili, al costo degli inceneritori, ecc. . Il prodotto interno lordo verde (P. I. L. verde) in sostanza è un indicatore che tiene conto delle conseguenze sull’ambiente dello sviluppo economico. Questo indicatore è però molto difficile da calcolare perché ci si trova nella quasi impossibilità di calcolare gli effetti dei cambiamenti climatici o i cambiamenti culturali, scientifici, economici. A volte vengono utilizzati degli indicatori fisici, un esempio potrebbe essere quello del calcolo delle emissioni di anidride carbonica all’anno, o dello “spreco pro-capite”. Un altro esempio è dato dal calcolo del Genuine Progress Indicator (GPI), ossia l’indicatore del progresso genuino (“indice di progresso effettivo” o “indicatore del vero/reale progresso”) che misura la crescita della qualità della vita di una nazione. Si tratta di effettuare una distinzione tra spese positive (ad esempio quelle dei servizi o dei beni) e spese negative (ossia quelle causate dall’inquinamento, dalla criminalità, dagli incidenti). Questo indicatore si differenzia dalla classica misurazione del PIL che calcola tutte le spese come positive. In specifico il GPI detrae i costi sociali connessi all’inquinamento, ai divorzi, alla criminalità e al degrado ambientale mentre aggiunge al valore del PIL il valore del lavoro svolto dal volontariato e quello svolto all’interno della famiglia. Si considera poi la distribuzione del reddito per cui maggiore è l’equità, maggiore è il valore del GPI, maggiore è la disponibilità di tempo libero maggiore è il valore del GPI; viene considerato poi il costo dei beni durevoli, delle infrastrutture ecc. In questo modo il GPI si differenzia dal PIL in quanto ad ogni transazione monetarie non corrisponde un aumento del benessere. Considerato che il PIL pro capite, così come strutturato, risulta essere un indicatore troppo limitato dello sviluppo alcuni studiosi francesi5 hanno individuato un PIL diverso che, tenendo conto di altri fattori sociali come l’istruzione, la sanità, la nutrizione, introduce lo sviluppo umano come fattore da analizzare per la determinazione del PIL. L’indice di sviluppo umano (Human Development Index) dovrebbe distinguere la differenza esistente tra popolazioni “ricche e popolazioni “povere”; questo però sempre attraverso canoni di definizione “occidentali” e quindi a connotato capitalistico in un contesto che non tiene conto di altre civiltà, usi e costumi che creano bisogni diversi. L’UNDP - United Nations Development definisce lo sviluppo umano come “un processo di ampliamento delle possibilità umane che consenta agli individui di godere di una vita lunga e sana, essere istruiti e avere accesso alle risorse necessarie a un livello di vita dignitoso”. Gli obiettivi generali dello sviluppo umano da raggiungere sono ; una crescita economica di tutti e soprattutto delle popolazioni povere; un aumento dell’istruzione, dell’educazione di base, un miglioramento della salute umana, e delle condizioni ambientali. L’indice di sviluppo umano tiene conto del reddito individuale, del livello della sanità, e del livello di istruzione6. Il rapporto 2005 del Human Development Report indica che questo indice è migliorato negli ultimi anni con l’eccezione dei paesi dell’Africa Sub-sahariana (soprattutto a causa dell’AIDS) e dei paesi dell’ex Europa dell’est (a causa dell’economia in declino). Tra i primi paesi si trovano l’Europa, il Nord America e l’Oceania.

3. 2 Gli indicatori statistico-aziendali per la misura dell’impatto ambientale7 L’impiego di questi indicatori si rende indispensabile per effettuare delle scelte oculate e proficue tra le varie alternative possibili relative all’attivazione di una efficienza non solo gestionale ma soprattutto di carattere sociale complessivo, ed in particolare in tutte quelle circostanze in cui l’impresa sia impegnata dal punto di vista ecologico e non è in grado di valutare la reale situazione a causa di dati tecnici non facilmente interpretabili. Diviene quindi necessario per l’impresa avere a disposizione dei mezzi di gestione ed informazione, degli strumenti di misurazione in grado di esprimere in modo chiaro e preciso la composizione dei fattori che devono essere utilizzati nell’attività produttiva, l’impatto che tale attività provoca sull’ambiente e in generale sul contesto sociale, e di estendere questa conoscenza a tutti gli utilizzatori esterni che ne abbiano la necessità. In particolare per le ricadute dell’attività d’impresa sul patrimonio naturale, per far fronte alle suddette esigenze si è soliti distinguere due tipi di indicatori ambientali: gli indicatori di impatto ambientale e gli indicatori di performance ambientale. Si effettua questa distinzione per il diverso significato della misurazione delle attività di un’impresa in relazione al suo impatto sul patrimonio naturale; infatti mentre è possibile misurare in termini di uso delle risorse, delle emissioni, dei rifiuti prodotti ecc. l’attività di un’impresa, per effettuare una rilevazione del suo impatto complessivo sull’ambiente è necessario effettuare delle valutazioni soggettive, delle stime che accertino le conseguenze provocate dalla gestione produttiva. A questo proposito va ricordato che gli indicatori di impatto ambientale analizzano le ricadute dell’attività produttiva sull’ambiente attraverso una determinazione delle grandezze fisiche che si riferiscono alla produzione dello stabilimento, come ad esempio, l’effetto serra, il livello di tossicità per la salute umana, per la fauna, per la flora, ecc. Tali indicatori possono essere determinati da un punto di vista fisico e da un punto di vista monetario.

Gli indicatori fisici calcolano il contributo dell’impresa al cambiamento delle condizioni ambientali a livello sia locale sia globale e costituiscono una ulteriore misura dell’efficienza dell’azienda nella propria gestione delle risorse. Per la costruzione di questi indicatori il metodo più usato a tutt’oggi è quello di collegare i flussi fisici ad alcuni effetti sulla salute umana, sugli ecosistemi e sull’impoverimento delle risorse presenti in natura. Si avrà quindi in primo luogo una classificazione dei flussi fisici sulla base degli effetti che producono sull’ambiente; si procede poi ad una caratterizzazione di questi flussi fisici prendendo in considerazione gli impatti ambientali riguardanti l’effetto serra, la diminuzione della fascia di ozono, la tossicità con i pericoli derivanti agli uomini, alla vegetazione e agli animali, l’energia, i rifiuti, lo smog, ecc. . Infine vi è la valutazione vera e propria, fondamentale se ci si trova in una situazione in cui i risultati dei valori d’impatto contrastano tra loro; in questo caso è necessario saper confrontare i risultati ottenuti per prendere le varie decisioni di gestione.

Gli indicatori monetari invece permettono all’azienda di misurare in termini economici tutte le variazioni causate al patrimonio naturale, per consentire di aggiungere la variabile ambiente nei vari processi decisori, basati di solito solo su considerazioni di natura strettamente economico-aziendali. Gli indicatori di performance ambientale invece forniscono le informazioni qualitative e quantitative che consentono di effettuare una valutazione dell’efficienza, dell’efficacia e del consumo delle risorse al fine di permettere al top management di adottare le strategie migliori atte a rafforzare il più possibile il perseguimento degli obiettivi ambientali, attraverso anche una migliore comunicazione esterna dei risultati (ad esempio agli stakeholders d’impresa). L’uso di questi indicatori in relazione al consumo di materie prime, di energia, ecc. permette all’impresa di valutare la propria efficienza nell’uso delle risorse ambientali (indicatori di processo). L’azienda deve però poter valutare la propria efficienza anche in termini più strettamente economico-finanziari: si serve a questo scopo di indicatori ecofinanziari per correlare gli interventi a favore dell’ambiente con i costi di investimento e di gestione che questi comportano. L’impresa inoltre controlla la propria capacità di raggiungere gli obiettivi di performance ambientale attraverso i cosiddetti indicatori di gestione ambientale che le consentono di misurare continuamente il grado di conformità alla legislazione e alle politiche ambientali ed il grado di integrazione con altre funzioni ambientali. Va sottolineato comunque che, nonostante tutti gli indicatori ambientali d’impresa (e soprattutto quelli di impatto ambientale) presentino un alto livello di complessità ed incertezza nella loro costruzione in termini di validità scientifica, un loro utilizzo integrato consente all’impresa di adottare comportamenti e di orientare le decisioni aziendali verso obiettivi di sensibilità economica e ambientale. In sintesi gli indicatori consentono di rafforzare la politica ambientale attraverso una formulazione di obiettivi più chiara, specifica e settoriale; permettono altresì uno sviluppo del sistema di gestione ambientale, un miglioramento della comunicazione esterna e una riduzione delle emissioni e dei relativi costi di abbattimento e di prevenzione.

La prima considerazione che occorre fare a questo punto del lavoro relativamente all’uso dei diversi strumenti di gestione e controllo di sostenibilità ambientale è che spesso è difficile far comprendere i vantaggi di una produzione ambientalista in quanto a volte si hanno dei vantaggi che non sempre sono evidenti: ad esempio un’impresa che produce con minori scarichi industriali non realizza un effetto tangibile e visibile istantaneamente; occorre allora una politica che utilizzi sia la pubblicità che le pubbliche relazioni per far comprendere pienamente i benefici di una produzione ambientalista e che permetta all’impresa di migliorare la propria immagine.

“In genere si ottengono risultati di maggiore efficacia quando: a) le caratteristiche del prodotto ecologico sono evidenti, riconosciute e significative per un largo strato di consumatori; b) i benefici ambientali del prodotto sono tangibili e possono quindi venir comunicati in maniera semplice e diretta; c) gli sforzi di promozione di marche individuali sono sostenuti da forti iniziative e miglioramenti dell’azienda a livello globale. ”8

Occorre far comprendere al consumatore l’importanza dei vantaggi che derivano dall’adozione di prodotti ecologici, puntando soprattutto ad evidenziare i benefici personali in termini sia di interesse economico che di salute connessi ai cosiddetti articoli “verdi”. Gli operatori del marketing devono in ogni modo responsabilizzare i consumatori, anche quelli meno sensibili, attraverso delle sollecitazioni che tendano a creare delle motivazioni anche in coloro i quali non vedono un vantaggio immediato nell’adozione delle politiche ambientali.

“Una nuova era di marketing è alle porte e impone un sincero impegno nel conciliare i bisogni dell’ambiente con quello dei consumatori. Le aziende che ci riusciranno saranno abbondantemente ricompensate: aumento della quota di mercato, miglioramento dell’immagine, incremento dei profitti, per non parlare della gratificazione personale derivante dall’ispirare il proprio lavoro alla migliore etica possibile sotto il profilo ambientale e sociale... L’immaginazione, la creatività e l’abilità di pensare in modo nuovo saranno cruciali per sviluppare le molte opportunità del consumerismo ambientale. Le aziende che meglio sapranno cogliere la sfida - e quelle che potenzialmente hanno di più da guadagnare - potrebbero addirittura reinventare i loro prodotti alla ricerca di soluzioni che possano condurre all’acquisizione di un vantaggio competitivo di lungo termine”9 4. Le leggi ambientali

Le leggi ambientali dettate dal legislatore o da altre fonti di legislazioni sono norme giuridiche che devono essere seguite dai soggetti siano questi imprese (corretto smaltimento dei rifiuti industriali), privati (corretto smaltimento dei rifiuti urbani), o enti pubblici (corretto rilascio delle autorizzazioni in materia ambientale. Accanto alle leggi ambientali vi sono le cosiddette norme volontarie emanate da organismi nazionali (UNI) o da organismi europei (Comitato Europeo di Normazione o CEN) o da organismi internazionali (ISO) che servono per indirizzare le imprese verso lo svolgimento di una produzione che tenga conto delle necessità ambientali.

“Nell’ambito europeo, sussiste allo stato attuale della legislazione ambientale, la necessità di realizzare un mercato unico attraverso l’armonizzazione delle normative tecniche nazionali con conseguenze imposizioni di Standard tecnologici validi per tutti gli stati membri. Sul piano legislativo, questo scopo diretto a creare i limiti soglia (standard) uguali in tutti i parsi membri della comunità si realizza attraverso strumenti legislativi comunitari quali i regolamenti e le direttive comunitarie...La norma ambientale come norma protezionistica, dovrebbe imporre alla scienza la fissazione di limiti soglia molto rigorosi in modo tale che questi limiti evitino non solo un pericolo attuale dell’inquinamento ma anche un pericolo remoto per le generazioni future. ”10

È evidente che le imprese, nello svolgimento delle loro attività entrano in contatto con l’ambiente esterno che influenza e condiziona le decisioni riguardanti la gestione aziendale. L’impresa è una parte del sistema sociale, è influenzata dall’ambiente esterno e lo influenza a sua volta in quanto riveste un ruolo sia economico sia sociale. Già nel 1987 il rapporto Brutland definiva il concetto di sviluppo sostenibile, considerato come “uno sviluppo che soddisfi le attuali esigenze senza compromettere per le generazioni future la possibilità di soddisfare le proprie esigenze”, sottolineando la necessità sempre più impellente di coinvolgere tutte le parti sociali nella crescita economica. “Lo sviluppo sostenibile si fonda sull’integrazione di 10 componenti: ambiente, economia, socio-cultura (dimensioni dello sviluppo), equità sociale, equità interlocale, equità intertemporale (dimensioni di equità), diversità, sussidiarietà, partnership e networking e partecipazione (principi di sistema). Da segnalare anche la definizione ONU del 1992: “per sviluppo sostenibile si intende un miglioramento di qualità della vita, senza eccedere la capacità di carico degli ecosistemi alla base” e la definizione ICLEI del 1994: “sviluppo che offre servizi ambientali, sociali ed economici di base a tutti i membri di una comunità, senza minacciare l’operabilità dei sistemi naturale, edificato e sociale da cui dipende la fornitura di tali servizi”. 11 L’amministrazione pubblica, l’impresa e la popolazione nel suo complesso devono agire in un’ottica di interdipendenza tra qualità dell’ambiente e sviluppo economico al fine di migliorare la produzione, utilizzando le tecnologie più avanzate nel rispetto delle norme ambientali e del controllo dell’inquinamento. L’obiettivo è comunque quello di “non considerare il mondo come un’eredità lasciata dalle generazioni precedenti, ma come un prestito che ti hanno fatto le generazioni future”12. È ormai chiaro che anche per i processi gestionali nell’ambito aziendale assume sempre più importanza l’elemento ecologico, che può essere considerato una forza esterna che agisce e condiziona lo svolgimento dell’intera produzione dell’impresa. L’ambiente si trasforma così in risorsa strategica, in quanto gli elementi qualificanti di medio-lungo periodo dell’attività d’impresa devono tendere alla redifinizione dei rapporti di potere fra soggetti aziendali che sappiano dar risposte alle aspettative socio-economiche e al miglioramento delle condizioni di vita di quanti lavorano nell’impresa o vengono a contatto con essa. In questo ambito il sistema politico e istituzionale riveste un ruolo determinante poiché può condizionare la strategia aziendale con l’imposizione di vincoli o divieti che tendano a salvaguardare l’ambiente naturale e può creare nuove opportunità alle imprese con la promozione di nuove iniziative. L’attività gestionale deve nel suo complesso, sia riguardo alle relazioni interne sia a quelle esterne, preservare, nell’ottica della salvaguardia ambientale, il patrimonio che l’azienda ha in “prestito” e che è tenuta a gestire accrescendone il valore complessivo. L’impresa incrementa così anche il proprio valore, che poi sarebbe chiamata a ridistribuire secondo regole di equità fra tutte le soggettualità sociali costituenti a vario titolo i fattori produttivi. La valutazione del patrimonio e del reddito d’impresa sarebbero, quindi, ormai ampiamente condizionati dal rispetto delle normative ambientali.

5. Strumenti di controllo e gestione

La ricerca di un bilanciamento fra gli interessi aziendali ed ecologici ha portato all’introduzione nei Paesi della Comunità Europea, di alcuni strumenti di autoregolamentazione e di strumenti economici. Il Regolamento della Comunità Europea ha introdotto nel 1993 (n. 1836) un nuovo strumento di gestione e controllo chiamato E. M. A. S. (Environmental Management and Audit Scheme che può essere seguito volontariamente dalle organizzazioni (aziende, enti pubblici, ecc.) al fine di migliorare le proprie prestazioni ambientali e indicare al pubblico e ad altri soggetti interessati dati e notizie sulla propria gestione ambientale. La seconda versione di EMAS (EMAS II) è stata pubblicata dalla Comunità Europea con il Regolamento 761/2001, modificato successivamente dal Regolamento 196/2006.

“L’obiettivo di EMAS consiste nel promuovere miglioramenti continui delle prestazioni ambientali delle organizzazioni anche mediante: • l’introduzione e l’attuazione da parte delle organizzazioni di un sistema di gestione ambientale; • l’informazione sulle prestazioni ambientali e un dialogo aperto con il pubblico ed altri soggetti interessati anche attraverso la pubblicazione di una dichiarazione ambientale. Il sistema di gestione ambientale richiesto dallo standard Emas è basato sulla norma ISO 14001:2004, di cui sono richiamati tutti i requisiti, mentre il dialogo aperto con il pubblico viene perseguito prescrivendo che le organizzazioni pubblichino (e tengano aggiornata) una Dichiarazione Ambientale in cui sono riportati informazioni e dati salienti dell’organizzazione in merito ai suoi aspetti e impatti ambientali. La Dichiarazione ambientale deve contenere (Allegato II del Regolamento Emas (761/2001/CE): • una descrizione chiara e priva di ambiguità dell’organizzazione che chiede la registrazione EMAS; • la politica ambientale dell’organizzazione e una breve illustrazione del suo sistema di gestione ambientale; • una descrizione di tutti gli aspetti ambientali significativi, diretti e indiretti, che determinano impatti ambientali significativi dell’organizzazione ed una spiegazione della natura degli impatti connessi a tali aspetti; • una descrizione degli obiettivi e target ambientali in relazione agli aspetti e impatti ambientali significativi; • un sommario dei dati disponibili sulle prestazioni dell’organizzazione rispetto ai suoi obiettivi e target ambientali per quanto riguarda gli impatti ambientali significativi; • altri fattori concernenti le prestazioni ambientali, comprese le prestazioni rispetto alle disposizioni di legge; • il nome e il numero di accreditamento del verificatore ambientale e la data di convalida.

Riguardo ai dati ed alle informazioni fornite nella Dichiarazione Ambientale, il regolamento comunitario precisa che essi debbono: • fornire una valutazione accurata delle prestazioni (essere precisi), • essere comprensibili e privi di ambiguità, • consentire un confronto da un anno all’altro, • consentire confronti con requisiti normativi.

Le organizzazioni registrate EMAS possono utilizzare un apposito logo, secondo le procedure ed i requisiti di utilizzo stabiliti dal regolamento comunitario. Per ottenere (e mantenere) il riconoscimento Emas (registrazione), le organizzazioni devono sottoporre il proprio sistema di gestione ambientale ad una valutazione di conformità da parte di un Verificatore Accreditato, e far validare dal medesimo verificatore la Dichiarazione Ambientale (ed i suoi aggiornamenti, solitamente annuali). La procedura di registrazione prevede che la Dichiarazione venga esaminata anche dall’organo competente nazionale per l’Emas, oltre ad un controllo, richiesto dal medesimo organo competente, da parte delle autorità ambientali locali (le ARPA), per un nulla osta di tipo legislativo (rispetto delle leggi, autorizzazioni, ecc. ). In Italia, le registrazioni Emas con accreditamento italiano sono 714 relative ad oltre 900 siti (05/11/2007, da elenco organizzazioni registrate sul sito APAT). Il numero è ancora relativamente basso, in particolare se confrontato con il numero di certificazioni ISO 14001 accreditate in Italia al 31. 10. 2007: 7243 certificati e 11505 siti (fonte Sincert)” 13.

 L’Ecolabel Per quanto riguarda, invece, gli “strumenti volontari” va segnalato l’Ecolabel (Regolamento CE n. 1980/2000) ossia il marchio europeo di qualità ecologica che attraverso una etichetta attesta che il prodotto o il servizio ha un ridotto impatto ambientale nel suo intero ciclo di vita. L’Ecolabel rappresenta in sostanza un’opportunità di marketing in quanto risponde all’esigenza sempre più pressante della produzione di prodotti “puliti”; è anche una strategia di prevenzione sia perché limita l’immissione nel mercato di prodotti che potrebbero causare danni ambientali sia perché essendo un marchio registrato diviene una garanzia delle qualità ambientale del prodotto. L’Ecolabel è inoltre uno strumento di certificazione con lo scopo di garantire la trasparenza necessaria all’immissione sul mercato di prodotti “verdi”; si tratta, quindi, di uno strumento volontario che garantisce una qualità superiore rispetto agli standard legali. Da segnalare che “Il 2007 ha rappresentato un anno record nella storia dell’Ecolabel europeo in Italia con una crescita del numero di licenze pari al 111% rispetto all’anno precedente: si è infatti passati dalle 86 licenze e 1. 384 prodotti e servizi di fine 2006, alle 174 licenze e 2. 474 prodotti e servizi a fine 2007! Il 2008 sarà un anno impegnativo per APAT e il Comitato dal momento che la Commissione Europea ha affidato proprio all’Italia lo sviluppo dei criteri per la concessione del marchio Ecolabel europeo al gruppo di prodotti “Edifici” nonché alcune revisioni di gruppi di prodotti tra i quali “Carta per copie e carta grafica”, “Servizio di ricettività turistica” e “Servizio di campeggio”. In particolare va segnalata l’importanza del marchio Ecolabel per gli edifici. Si tratta di un importante progetto che prevede un approccio integrale alle problematiche ambientali legate alla costruzione, all’uso e allo smaltimento degli edifici, nell’ambito dell’intero ciclo di vita. Questa certificazione ambientale avrà carattere volontario e si affiancherà a quella energetica obbligatoria prevista dal decreto legislativo 311/2006, che consente di informare i cittadini sui consumi di un edificio”14.

 L’Eco-Audit All’interno del quinto programma d’azione, la commissione CEE, nel marzo 1992, approva un regolamento che istituisce uno schema volontario di gestione ed audit ambientale, con lo scopo di promuovere un miglioramento delle performances ambientali nelle attività industriali. L’audit, nato in Canada nei primi anni 70 per garantire la sicurezza e l’igiene nell’ambiente di lavoro, si è esteso successivamente a tutti i temi di sicurezza ambientale. Questo strumento consiste in una valutazione sistematica, obiettiva e documentata (che si attua periodicamente) del funzionamento dell’organizzazione aziendale, con riguardo alle prestazioni ambientali, concordando le politiche dell’impresa con le varie politiche ambientali. 15 Oltre all’eco-audit altri strumenti contribuiscono ad analizzare e a valutare l’impatto complessivo che l’attività produttiva d’impresa ha sul macrosistema socio-ambientale, sono il bilancio sociale e il bilancio ambientale.

 Le normative della serie ISO 14000 Le norme ISO serie 14000 forniscono strumenti manageriali per le organizzazioni che abbiamo la volontà di mettere sotto controllo i propri aspetti ed impatti ambientali e migliorare così le proprie prestazioni in questo campo. Va segnalato che tutti i requisiti ISO 14000 sono di natura volontaria. La decisione di applicare i requisiti ISO 14000 è pertanto una decisione di tipo strategico da prendersi a cura della direzione aziendale. ”L’ISO 14001 è la norma che può essere attuata da qualsiasi tipo di organizzazione che intenda conseguire un miglioramento nell’esercizio delle proprie attività attraverso l’adozione di un sistema di gestione ambientale; tale norma è stata recepita dal nuovo Regolamento EMAS. Ad essa, in un progressivo avvicinamento del sistema internazionale agli schemi europei, si sono aggiunte le norme del sottoinsieme ISO 14030 per la valutazione delle prestazioni ambientali e si sta aggiungendo la norma ISO 14063 per la comunicazione ambientale. Il sottoinsieme ISO 14020 disciplina, invece, diversi tipi di etichette e di dichiarazioni ambientali, standardizzando diversi livelli di informazione al pubblico sulle prestazioni ambientali di prodotti e servizi. Sotto questo punto di vista etichette e dichiarazioni svolgono un ruolo importante ai fini del consumo sostenibile, in quanto definiscono, in maniera credibile e trasparente, un limite che contraddistingue i prodotti più compatibili con l’ambiente da quelli meno compatibili. A queste si aggiunge la ISO 14040 che norma la metodologia da applicare nello studio sul ciclo di vita. ”16

 Il Bilancio Sociale Lo strumento più valido per dare visibilità alle domande ed alla necessità di informazione e trasparenza del consumatore è il Bilancio Sociale. Cioè: “l’utilizzo di un modello di rendicontazione sulle quantità e sulle qualità di relazione tra l’impresa ed i gruppi di riferimento rappresentativi dell’intera collettività, mirante a delineare un quadro omogeneo, puntuale, completo e trasparente della complessa interdipendenza tra i fattori economici e quelli socio-politici connaturati e conseguenti alle scelte fatte”17. Il bilancio sociale è un documento molto difficile da redigere in quanto, tenendo conto di molte variabili socio-economico-ambientali, deve rispondere alle esigenze informative di tutti coloro che hanno “scommesso” sulle sorti dell’impresa e che si aspettano dei ritorni economici dall’azienda. Il bilancio sociale deve quindi informare i diversi ambiti sociali sulle performance sociali che l’impresa adotta e deve in secondo luogo indirizzare le proprie decisioni future in base a queste. L’azienda deve saper gestire il consenso sociale attraverso un miglioramento dell’immagine aziendale in grado di conciliare gli interessi di tutte le classi sociali; al pari del bilancio d’esercizio che deve rispondere a requisiti e regole fissati dalle norme così anche il bilancio sociale deve fornire informazioni “pertinenti, imparziali e chiare. Ognuno di questi originari principi si subarticola in successivi postulati per cui la pertinenza attiene alla tempestività, significatività e periodicità dell’informazione, mentre l’imparzialità riguarda la completezza, prudenza ed accettabilità dell’informazione ed infine la chiarezza richiama i postulati di comprensibilità, concisione e corretta informazione... Tutto ciò in quanto “non ci può essere sviluppo sociale senza progresso economico, ma non può esserci progresso economico senza sviluppo sociale”” 18

 Il Bilancio Ambientale Fin dagli anni ‘70 il problema della contabilizzazione delle esternalità è apparso in tutta la sua importanza, in quanto le imprese che sostengono i costi per la salvaguardia ambientale sono svantaggiate rispetto alle altre poiché presentano un Valore Aggiunto inferiore; diventa quindi necessario inserire nella contabilità la voce dei “costi ambientali”. Rispetto al Bilancio Sociale, il Bilancio Ambientale si occupa di una parte determinata dell’attività aziendale, analizzandola con dei parametri specifici e seguendo linee guida definite da diverse organizzazioni internazionali quali ad esempio: CEFIC (Council of European Chemical Industry); PERI (Public Enviromental Reporting Initiative); FEEM (Fondazione ENI Enrico Mattei).19 In sostanza un bilancio ambientale deve avere una struttura che si avvicini il più possibile a quella del classico bilancio d’esercizio con una parte numerica e una parte descrittiva; è necessario inoltre garantire la trasparenza ambientale dell’azienda; in definitiva deve nascere e consolidarsi all’interno dell’impresa una vera e propria filosofia manageriale in grado di gestire le risorse, la produzione e la qualità. Va ricordato che l’impresa condiziona l’ambiente esterno in due distinti momenti: quando si procura i beni necessari al compimento del processo produttivo con l’estrazione delle materie prime o comunque quando acquista i beni intermedi da altre aziende e in secondo luogo nel momento in cui nell’attuazione del vero e proprio processo di produzione immette nell’ambiente gli scarichi industriali. Se è vero che questo impatto sull’ambiente può essere limitato con delle misure atte a diminuire gli effetti negativi dell’inquinamento, va anche sottolineato che molto spesso le aziende, soprattutto in passato, hanno teso ad adottare un atteggiamento indirizzato soprattutto ad evitare incidenti e a seguire le leggi con la convinzione che comunque il problema ambientale è causa solo di costi aggiuntivi per l’azienda. Il bilancio ambientale deve avere una struttura in grado di dare esatte informazioni dal punto di vista ambientale così come il bilancio d’esercizio fornisce un confronto tra informazioni consuntive tali da consentire delle valutazioni economico-finanziarie sull’agire dell’impresa. La struttura del bilancio ambientale deve essere tale da permettere una stima sugli sviluppi del rapporto esistente tra impresa e ambiente al fine di ottimizzare il risparmio sul “capitale ambiente”; va precisato che mentre il ritorno del capitale finanziario può essere misurato con elementi della stessa natura (denaro contro denaro), per quanto riguarda il capitale ambiente vi è una situazione diversa in quanto il ritorno va misurato in termini di “valore” che l’impresa fornisce alla collettività.

6. Per una teoria dell’economia ecologica politica a partire dalle lotte del sindacalismo di classe in un’alleanza “di resistenza globalizzata anticapitalista”

Gli indicatori presentati, le stesse leggi ambientali, gli strumenti di controllo, il bilancio sociale e ambientale, ecc, però, non risolvono il problema, semplicemente lo posticipano; lo spostano nel tempo perché i costi umani e monetari di oggi dovranno necessariamente ricadere sulle generazioni future; e lo spostano nello spazio perché l’idea che vi siano ancora luoghi nel pianeta nei quali riversare tutti i nostri guasti all’ambiente è una illusione. Lo sviluppo come ci appare oggi è solo l’espressione della civiltà capitalistica che si caratterizza per la sua esclusività se confrontata con altre civiltà del pianeta. L’esistenza di questa società basata sul modo di produzione capitalistico riesce a sopravvivere solo dominando le altre civiltà e sfruttando le risorse umane e naturali del mondo. Le ripetute crisi economiche di questi ultimi anni però, fanno comprendere che è necessario diversificare l’economia perché lo sfruttamento operato dal sistema di produzione capitalistico alla continua ricerca del profitto ha generato disparità e divergenze non solo nei Paesi poveri del mondo ma anche all’interno degli stessi paesi “ricchi”. Il modello produttivo capitalistico è giunto ad una fase in cui sarebbe possibile soddisfare i consumi necessari alla sopravvivenza di tutti gli abitanti del pianeta ma per poter sopravvivere questo sistema ha la necessità di creare sempre nuovi bisogni, nuove necessità. Il Welfare è stato ormai sostituito da un nuovo tipo di intervento pubblico: quello indirizzato alla spesa militare cioè il Warfare del keynesismo militare La spesa pubblica aumenta quindi ma a causa dei sempre maggiori costi per le cosiddette “guerre umanitarie”. USA e UE impiegano oltre 800 miliardi di dollari l’anno per spese militari e basterebbe una parte di queste risorse per eliminare fame ed epidemie dal pianeta. È indispensabile un nuovo modello di sviluppo nel quale le disuguaglianze siano corrette da buone politiche sociali che diano voce alle minoranze e alle emarginazioni create dal sistema di produzione capitalistico. In tal senso le politiche finanziarie e fiscali di ogni paese dovrebbero avere come fine quello di correggere gli squilibri esistenti nella società; questo anche attraverso una forte tassazione dei capitali, una lotta all’evasione fiscale e un riequilibrio del prelievo fiscale che vada a vantaggio dei meno abbienti e non delle imprese come sempre accade. Va aggiunta poi la necessità di sostituire o almeno di integrare l’attuale misura degli indicatori economici, ossia il PIL, che come scritto in precedenza, non è più sufficiente in quanto non tiene conto di parametri in grado di misurare la qualità dell’ambiente e della vita, della salute, dell’istruzione, ecc. Il fallimento dell’economia di mercato rende necessario un ritorno all’intervento pubblico che possa agire da regolatore alla sempre maggiore influenza esercitata delle grandi imprese multinazionali. Uno Stato regolatore che riesca, se non ad eliminare, quanto meno a limitare il più possibile la grande finanziarizzazione dell’economia anche attraverso una tassazione delle rendite finanziarie. Nell’attuale sistema capitalistico le grandi imprese nazionali, finanziarie, trasnazionali, seguendo solo i propri interessi, generano uno sviluppo diseguale. È fondamentale dimostrare che il sistema capitalistico attuale e le teorie che lo legittimano sono ingiuste, e generano povertà, disuguaglianze, e tragici problemi di sopravvivenza È necessario in sostanza il rilancio di forti politiche pubbliche in grado di creare occupazione e superare la precarietà del vivere; si deve investire sul “capitale umano” ricco di cultura solidale per consentire una ripresa dell’occupazione stabile e non precaria o flessibile come oggi si usa definirla. Vanno inoltre rilanciate la ricerca scientifica e le tecnologie per consentire una riconversione delle imprese che tenga conto delle necessità ambientali e sociali fino ad ora del tutto trascurate. È chiaro che dare voce alle esigenze ambientali e sociali non deve comportare d’altro canto ripercussioni negative sulle già precarie condizioni salariali; il timore è infatti, che l’impresa, per conformare le produzioni alle esigenze ambientali senza voler toccare le quote destinate ai profitti e alle rendite vada ad intaccare proprio le quote destinate alle retribuzioni causando un ulteriore impoverimento delle classi più disagiate. I sempre più frequenti casi di “disastri ambientali” che si abbattono sul pianeta ha fatto comprendere agli economisti il fallimento della teoria classica che si basava sul “libero mercato”. Per realizzare un sviluppo realmente egualitario per tutti i paesi del mondo sono molte le cose da fare; tra queste senza dubbio ad esempio: 1) fermare le guerre e l’economia di guerra; 2) la cancellazione del debito dei paesi del Terzo Mondo; 3) diminuire l’uso senza limiti del petrolio; 4) cercare di far crescere il reddito pro-capite nei paesi del Sud del mondo con produzioni qualitative fuori mercato e forte contenuto di compatibilità, eco-sociale solidale 5) diminuire fino ad arrivare all’annullamento in tutto il mondo dell’uso delle centrali nucleari sia a livello civile sia bellico, ecc.

È necessario allora già nell’immediato sviluppare lotte sociali per imporre nei paesi capitalisti la redistribuzione del reddito e della ricchezza a favore dei lavoratori, dei disoccupati, salvaguardare l’ambiente, la salute, sviluppare istruzione, formazione, cultura sociale, a partire da una rinnovata economia ecologica capace di configurarsi come ecologia politica dello sviluppo fuori mercato e alternativo al capitalismo e quindi in grado di superare in chiave socialista le leggi dello sfruttamento dell’uomo e della natura. Solo così si possono fermare sempre, comunque e dovunque le guerre di aggressione e di espansione imperialista, ridistribuire ricchezza verso i Paesi in Via di Sviluppo e del cosiddetto Terzo Mondo, legare il concetto di sviluppo a quello di Welfare, di Stato sociale in modo da realizzare una crescita in grado di creare occupazione stabile e ricchezze da ridistribuire; uno sviluppo qualitativo, quindi, a forte compatibilità sociale e ambientale. È necessario creare quindi da subito un’alleanza di lotta anticapitalista tra le varie forze sociali, un’alleanza “di resistenza globalizzata” in grado di organizzare i lavoratori di tutto il pianeta in modo tale da costruire una alternativa allo stato attuale delle cose che garantisca maggiore equità, maggiore giustizia sociale, salari minimi dignitosi, sanità, alloggi e diritti sociali, economici e civili per tutti, diritto all’autodeterminazione, diritto all’indipendenza economica, sociale e politica.

Molte considerazioni presentate nell’articolo sono presenti in: Vasapollo L. (a cura di) “L’acqua scarseggia ...ma la papera galleggia! Per una critica della politica economica dominante”, Jaca Book, Milano, Settembre 2006

Oltre ai testi citati in nota, si veda la seguente: Bibliografia essenziale Brecher J., Costello T., “Contro il capitale globale. Strategie di resistenza”, Feltrinelli, 2001 Cacciari P., “Pensare la decrescita. Sostenibilità ed equità”, Cantieri Carta/edizioni, Intra Moenia, 2006 Carta riv, Anno 1, n.4, novembre 2005 Latouche S., “Come sopravvivere allo sviluppo”, Bollati, Boringhieri, Torino, 2005 Nebbia G.,”Le merci e i valori. Per una critica ecologica al capitalismo”, Jaca Book, Milano 2002 PNUD, Rapport mondial sur le dèveloppement umani, Economica, Paris, 1992 Zaoual H, “La fine dell’occidentalizzazione del mondo? Dall’unico al multiplo”, in “Disfare lo sviluppo. Per rifare il mondo, Jaca Book ed., Milano, 2005

Ricercatrice socio-economica, Comit. Scient. di CESTES e Dir. redaz. di PROTEO

Univ. “La Sapienza”; Direttore Scientifico CESTES e della rivista PROTEO

Cfr.Latouche S., “Come sopravvivere allo...”, op. cit. pag.28

Segretario Generale ONU: Kofi Annan, Johannesburg - Sud Africa, 26 agosto - 4 settembre 2002

http://87.241.41.49_/index.php?id_sezione=380

“Concepito quale strumento di misurazione della capacità produttiva del periodo bellico, il PIL è diventato negli anni una sorta di metro del benessere di una nazione: la sua crescita suscita plauso, la sua stagnazione genera preoccupazione. Ciò accade per diverse ragioni, anche condivisibili, tra le quali i riflessi sull’occupazione. Eppure, lo stesso Simon Kuznets, il suo principale ideatore, ha sottolineato più volte l’errore insito nella formula “più PIL = più benessere”. Poiché il PIL aumenta ogni volta che si verifica una transazione nell’economia, inevitabilmente la sua crescita tende a essere connessa a spese che, in alcuni casi, rappresentano un indizio di malessere più che di benessere, come quelle associate ad esempio, a disastri ecologici, alla lotta alla criminalità, ai divorzi. Spese sostenute per la bonifica di un oil spill, oppure per la cura di un tumore da inquinamento, pur facendo crescere il PIL, sono sintomi di un danno per l’ambiente e per l’uomo. Su questo fronte, anche per il più bravo degli avvocati difensori, è difficile soccorrere il PIL. Una crescita della spesa per il Prozac, pur stimolando il PIL, non implica una maggiore felicità. Cfr.”http://www.lavoce.info/news/view.php?cms_pk=927 PNUD, Rapport mondial sur le dèveloppement umani, Economica, Paris, 1992

“Il concetto di sviluppo umano viene elaborato, alla fine degli anni ‘80, dal programma delle nazioni unite per lo sviluppo UNDP, al fine di superare ed ampliare l’accezione tradizionale di sviluppo incentrata solo sulla crescita economica. Lo sviluppo umano coinvolge e riguarda alcuni ambiti fondamentali dello sviluppo economico e sociale: la promozione dei diritti umani e l’appoggio alle istituzioni locali con particolare riguardo al diritto alla convivenza pacifica, la difesa dell’ambiente e lo sviluppo sostenibile delle risorse territoriali, lo sviluppo dei servizi sanitari e sociali con attenzione prioritaria ai problemi più diffusi ed ai gruppi più vulnerabili, il miglioramento dell’educazione della popolazione, con particolare attenzione all’educazione di base, lo sviluppo economico locale, l’alfabetizzazione e l’educazione allo sviluppo, la partecipazione democratica, l’equità delle opportunità di sviluppo e d’inserimento nella vita sociale”, Cfr. http://www.utopie.it/sviluppo_umano.htm

Cfr.L. Vasapollo “Nuovi strumenti statistico-aziendali per la misura della compatibilità sociale d’impresa. Gli indicatori socio-ambientali dell’attività produttiva”, Finanza Italiana, anno V, n.11-12 nov.dic.1997

Ottman J.A. “Green marketing. La sfida ambientale come opportunità per il successo dell’impresa”, IL Sole 24ore Libri, Milano, Aprile 1995, p.142.

Ottman J.A. “Green marketing., op. cit., p.183.

Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Norme_ambientali

Cfr. http://www.networksvilupposostenibile.it/_site/glossario_s.php#sviluppo

Cfr. Longo E. “Ambiente e Impresa. Scenari, organizzazione, normative e controlli”, EtasLibri, Milano, 1993, p.97.

Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/EMAS

Cfr. http://193.206.192.245/giorgio/CrescitaEcolabelItalia2007.pdf

Cfr. http://www.apat.gov.it/site/it-IT/Temi/Mercato_verde/Standards_ISO_14000/

Cfr. http://www.bilanciosociale.it/bilancio_sociale.html

Matacena A. “Impresa e...”, op. cit. p. 131- 134.

Cfr. http://www.bilanciosociale.it/bilancioambientale.html

Cfr. http://www.bilanciosociale.it/bilancioambientale.html