Caccia ai Rom e ai migranti nelle periferie napoletane.

BIAGIO BORRETTI

Razzismo di Stato e mixofobia popolare Per un’introduzione alle banlieue napoletane

1. Aldo Bonomi, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera del 21 settembre, parla di un pericolo di incendio delle nostre periferie. Se non propriamente ricalcando il modello francese della fine del 2005 (di cui si è trattato anche su Proteo) - sostiene l’autore il sociologo -, potremmo comunque trovarci di fronte ad una “guerra civile molecolare dei mille conflitti diffusi”, laddove l’immigrazione oggi in Italia ha assunto rilevanza e composizione differente dai primi anni ’90, divenendo un “problema” che travalica i confini familiari (badanti) o della fabbrica (operai) o dei campi e dei cantieri edili, aggiungiamo noi, per andare ad investire interamente il tessuto sociale delle nostre realtà urbane. Il riferimento diretto dell’intervista è ai fatti di Milano e soprattutto a quelli di Castel Volturno. Alla strage dei 6 immigrati innocenti, massacrati, sacrificati nel vortice di regolamenti interni alle organizzazioni criminali, casalesi da una parte e quella nigeriana dall’altra. Negli stessi mesi in cui in tutt’Italia si consumavano numerosi episodi di violenza ed intolleranza nei confronti di immigrati e zingari (aggressioni, molotov, coltellate, sputi, devastazioni dei campi, omicidi...), la provincia napoletana veniva colpita da una pluralità di simili eventi, esemplificati dai pogrom dei campi rom di Ponticelli e dalle aggressioni alla comunità immigrata di Pianura. In entrambi i casi, vi sono state alcune frazioni delle comunità locali, autoctone, che hanno: scacciato in maniera violenta, furibonda, finanche “nazista” i rom dai campi di Ponticelli, mentre invece a Pianura hanno tentato di far evacuare alcune abitazioni occupate da immigrati oramai da circa 20 anni. Sebbene i contesti di quartiere, con le loro dinamiche, siano differenti, possono essere individuati alcuni elementi comuni a tali manifestazioni di intolleranza e violenza: le esplosioni non sono accadute nei quartieri o nelle zone ricche della città napoletana, laddove il fattore migrante assume connotati differenti e si inserisce nel contesto cittadino in modalità meno “visibili” e critiche. Le esplosioni sono avvenute invece nelle periferie dell’area metropolitana napoletana. Periferie ampiamente degradate, abbandonate dalle istituzioni, dagli enti locali, spesso oggetto di utopistici progetti di risanamento e riqualificazione: mai attuati. Periferie caratterizzate da elevatissimi tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile e femminile, da una percentuale di fallimenti scolastici impressionante (in tutta Napoli si raggiunge il livello del 20%), con tassi di scolarizzazione estremamente bassi, laddove a prevalere è conseguentemente una composizione sociale poco istruita, con scarso accesso ai livelli di istruzione o formazione superiori e con speranze di introdursi, e vendersi, sul mercato della forza-lavoro, estremamente striminzite. Realtà di quartiere mutate progressivamente, ma inesorabilmente, negli ultimi decenni, soprattutto in seguito alla complessiva ristrutturazione della città napoletana che da città fordista tenterà (fallendo: almeno fino ad oggi) di trasformarsi in città dei servizi, postindustriale (da ciò l’ossessivo ed unico interesse delle amministrazioni bassoliniane alla rivalutazione di parte del centro storico e dei “salotti” di Napoli). Quartieri come Ponticelli, zona est di Napoli, area industriale per eccellenza (oltre che Bagnoli), caratterizzati per decenni dalla fortissima presenza di proletari ed operai di fabbrica e delle relative organizzazioni partitiche, sindacali e variamente associative. Il ruolo del Pci in tali contesti sociali era centrale: esso non solo riusciva ad ottenere elevati consensi elettorali, ma assumeva la funzione di coagulo e momento di auto-rappresentazione del quartiere stesso, legato solidaristicamente anche da strutture parallele di natura culturale, sportiva ed artistica. A ciò si aggiungano i numerosi comitati nati negli anni ’70 (si pensi alle lotte legate all’epidemia di colera del ‘73) ed alla presenza di altre organizzazioni partitiche, anch’esse con una certa presenza, come Lotta Continua e Democrazia Proletaria. La de-industrializzazione espelle dalle fabbriche migliaia di operai, che difficilmente riusciranno a riqualificarsi per ripresentarsi sul mercato della forza-lavoro, ma, evento ancora più drammatico, romperà quel vincolo generazionale che faceva sì che il figlio dell’operaio potesse poggiare su una stabilità reddituale del proprio nucleo familiare tale da consentirgli una mobilità sociale verso l’alto - almeno potenziale - potendo accedere agli studi superiori. Il vincolo si rompe, l’offerta di posti di lavoro cala drasticamente, fino a scomparire, al limite, in alcuni quartieri, provocando un vuoto sociale di dimensioni enormi, non affrontato dalle istituzioni locali. La composizione sociale di questi quartieri (si pensi a Barra, San Giovanni a Teduccio, contermini con Ponticelli) viene disgregata, dando vita a nuove composizioni sociali fondate sull’emarginazione e la povertà di massa, laddove le prestazioni di lavoro sommerse, a nero, al limite illegali o criminali diventano quasi gli unici espedienti di sopravvivenza esercitabili in simili contesti. In contemporanea con tali processi e grazie alle vittorie conseguite sul campo durante le varie guerre di camorra, alcuni clan locali, in un deserto sociale che subisce deprivazioni sistematiche sia a livello salariale che di prestazioni sociali come di servizi pubblici, riusciranno a creare i propri feudi, potendo sfruttare in loco un esercito di forza-lavoro (criminale) altamente disponibile, data l’assenza di sbocchi alternativi. Nel caso di Ponticelli, ad esempio, il clan dei Sarno riuscirà ad imporre un controllo generalizzato sul territorio, su ogni attività economica: dai mercatini rionali al commercio, dall’imprenditoria edilizia alla gestione delle case popolari, dal mercato della droga a quello immobiliare, riesce a creare un impero solidissimo. Non scalfito, a differenza di altre famiglie o altri sistemi, da importanti inchieste giudiziarie né da arresti eccellenti o di massa né da pentiti.

2. Le banlieue napoletane negli ultimi tempi sono state interessate da importanti fermenti delle popolazioni locali, che, se letti in maniera corretta, possono indicarci alcuni percorsi di ricerca ed intervento militante. La storia degli ultimi decenni di tali aree urbane, costruite selvaggiamente sull’onda delle emergenze che sistematicamente flagellano la città partenopea, costruite nei periodi d’oro delle colate di cemento laurine o gavianee, e nel post-terremoto, prenderanno forma sulla spinta di fortissime migrazioni dal centro di Napoli di ampie fasce di proletariato, lumpen e ceti medi, attratti dai costi bassi delle case, perché abusive, e dalla necessità di abbandonare edifici fatiscenti o perché sfrattati. Decine di migliaia di persone andranno a popolare i quartieri periferici della città di Napoli, così come la sua provincia. Tuttavia il dislocamento di intere porzioni di popolazione cittadina verso l’esterno, verso i margini del perimetro urbano, non innescherà alcun processo di sviluppo economico delle periferie stesse, costruite (e spesso anche concepite scientemente) come meri dormitori, ove accumulare masse alienate di individui con un’unica funzione: farli riposare, dormire, riprodurre psicofisicamente (non è un caso che tali aree urbane saranno plasmate senza spazi di socializzazione, di pubblico incontro). Sulle periferie1 quindi vengono scaricate tutte - o almeno alcune delle principali - contraddizioni del centro, compresa la disoccupazione, che in alcuni quartieri raggiungerà livelli mediamente superiori al 50% della popolazione attiva. In tale processo di costruzione delle periferie napoletane, negli scorsi decenni, con accelerate sensibili durante gli anni ’90, si inseriranno i flussi migratori provenienti dal resto del mondo (se durante gli anni ’80 Napoli e la sua provincia saranno caratterizzate prevalentemente dai flussi Sud-Nord del mondo, nell’ultimo ventennio, invece, c’è stata un’intensificazione delle migrazioni dall’Est Europa, ucraine e polacche in testa). Nel centro storico napoletano i migranti (emblematico il caso degli srilankesi) andranno ad occupare quelle abitazioni per lo più fatiscenti, dei vecchi palazzi abbandonati dal proletariato e dai ceti medi napoletani migrati in periferia, con prezzi, nonostante tutto, elevati, data l’ubicazione, andando a rimpolpare le casse di piccoli affittuari che inoltre risparmieranno costi sulla registrazione dei contratti, sui contributi, sulle spese per la manutenzione, incamerando, infine, un surplus di rendita dovuto allo sfruttamento della condizione spesso “irregolare” dei locatari. Simili percorsi di segregazione abitativa possono essere rintracciati nelle periferie, laddove i centri storici della cittadina, quando non ristrutturati e rivalutati, e pertanto poco profittevoli per rendita, sono accaparrati da proletari autoctoni e soprattutto allogeni (un caso per tutti: Giugliano in Campania, rilevante per presenza di immigrati, se è vero che già nel 2004 risultava essere il secondo comune della Campania per presenza di immigrati regolari, con 2.530 presenze: qui abitazioni del centro storico, inservibili o che necessiterebbero di profondi interventi di manutenzione, sono affittate a canoni spesso non inferiori ai 200 euro a testa). Alternativamente ai centri storici, altre residenze precarie utilizzate dagli immigrati, quando non possono accedere al mercato normale delle locazioni e quando non finiscono in vere e proprie baracche, sono edifici abbandonati o dismessi, a volte resi, almeno un po’, agibili proprio dagli stessi immigrati (si pensi al caso di Pianura di via dell’Avvenire; per un caso di “occupazione” di case abbandonate si rimanda a Castel Volturno, ove tra l’altro tantissime abitazioni che nei decenni scorsi erano utilizzate a scopi turistici, oggi, inservibili a tali fini e spesso molto precarie, sono fittate ad immigrati). Gli immigrati quindi hanno seguito vari percorsi di insediamento nei territori dell’area metropolitana napoletana, in condizioni di sistematica subalternità, come d’altronde un po’ ovunque. A differenza di altri contesti locali - si pensi al Nord Italia -, tuttavia, nella città di Napoli è sempre prevalso un clima di convivenza ed in alcuni casi perfino di integrazione ed arricchimento reciproco tra autoctoni ed allogeni. È però da far notare che spesso la convivenza non ha rappresentato un reale confronto tra comunità diverse, bensì una relazione di reciproca indifferenza. Nelle periferie, infatti, il migrante è una figura assolutamente “assente” sul piano sociale. C’è ma non si vede. Fa una breve apparizione verso le 4-5 del mattino sulle “rotonde”, quando ancora pochissimi autoctoni lo possono vedere, viene ingoiato in furgoni privati o da mezzi pubblici, si dirige sui cantieri edili, nelle campagne e torna di sera, pochi attimi, di nuovo sulla rotonda, poche centinaia di metri o qualche chilometro percorso a piedi o in bicicletta, e scompare di nuovo. A casa. Da solo. O con qualche amico. La sua presenza sociale è annichilita, negata. Annientata. Vive come mera forza-lavoro, come mero portatore di lavoro vivo. La sua unica funzione si riduce ad essere quella di vettore dell’accumulazione del capitale a mezzo di sfruttamento della sua forza-lavoro. Ogni legame con la società che lo circonda è spezzato, peggio: non è mai stato creato. In questo senso, la società autoctona è assolutamente indifferente alla presenza degli immigrati, alle persone che essi sono. Tutta la loro vita è mediata dal rapporto di lavoro. È per questo che “non danno fastidio”. Non esistono, non chiedono né pretendono niente, non si fanno sentire. Scompaiono dentro abitazioni fatiscenti ben chiuse e coperte allo sguardo dell’autoctono da porte e finestre. È un apartheid di fatto. In contesti di maggiore degrado sociale, urbanistico, ove la convivenza sociale diventa mero esercizio costante di sopravvivenza, di lotta hobbesiana dell’uomo contro l’uomo, in simili contesti, invece, la presenza di immigrati rischia di essere esplosiva, perché “visibile”. Nei quartieri ove sono concentrati il proletariato ed il lumpen napoletani, le condizioni di vita degli autoctoni sono di gran lunga peggiori di quelle dei quartieri più ricchi della città. Gli immigrati devono fare i conti con il degrado urbanisto e la disoccupazione di massa, propria e degli autoctoni. Le condizioni di emarginazione sociale, comuni ad entrambe le comunità, ma stratificate in più livelli, fanno sì che gli autoctoni si percepiscano come comunità decadente, da difendere, dagli eventi di ulteriore degrado che, semplicisticamente e superficialmente (pur individuando reali momenti e circostanze di frizione), ravvedono nel migrante e nelle sue condizioni di vita. È l’ultimo della classe, l’altro, ad essere percepito come “pericolo”, come vettore di degrado, perché magari vive in case più fatiscenti delle proprie, perché non paga la corrente e l’acqua, pur usufruendo di “attacchi” illegali agli allacci pubblici o privati, perché ritenuto fonte di microcriminalità e così via. Scatta perciò un meccanismo di difesa dei propri scarsi beni, degli ultimi scampoli di “cittadinanza” e di “appartenenza” ad una comunità più ampia che sistematicamente, invece, li segrega li nasconde li abbandona. Un meccanismo di difesa che finisce per rifiutare il mescolarsi con gli altri perché appunto “sporchi” “pericolosi” “malati” “spacciatori”...

3. È in tali contesti che a Ponticelli avverranno i pogrom contro i rom, i cui campi saranno incendiati brutalmente. È in simili contesti che a Pianura parti dei residenti di via dell’Avvenire e zone limitrofe scateneranno una violenta protesta contro gli immigrati chiedendone la deportazione, minacciandoli di morte e di “bruciarli vivi... come a Ponticelli”. È in questi contesti che alcune organizzazioni criminali o politiche troveranno l’humus sociale adatto per attecchire con le proprie pratiche o tesi razziste. A Ponticelli, infatti, qualche decina di ragazzi del sistema locale parteciperanno attivamente alla cacciata dei rom dai loro campi, scorrazzando su scooter e lanciando bombe molotov. Svolgeranno, per il sistema, una doppia funzione: la prima e più appariscente è quella legata alla produzione del consenso nel quartiere. Ogni clan che abbia intenzione di gestire in maniera totalizzante ed indiscussa il proprio territorio ha necessità di creare un consenso di fondo. Lo faccia con la re-distribuzione della ricchezza (posti di lavoro, paghe agli affiliati, concessione di appalti e subappalti alle ditte amiche...) o sul piano del controllo del territorio (blocco della microcriminalità) o mediale (risolvendo un “problema concreto” ad alcuni residenti del quartiere), sono solo articolazioni della sua strategia di produzione del consenso. Tuttavia, l’altra funzione svolta dai ragazzi del sistema in tali circostanze, è stata quella di “ripulire” le aree da persone indesiderata. Aree che, nei mesi immediatamente successivi (quando Berlusconi proclama la fine dell’emergenza rifiuti), vengono adibite a discariche abusive ove sversare di tutto per poi bruciarlo: inceneritori a cielo aperto. Aree, soprattutto, interessate dal Piano di Recupero Urbano finalizzato alla riqualificazione dell’intero territorio, con previsioni di spesa e stanziamenti di milioni di euro. La speculazione edilizia controllata dal sistema camorristico locale quindi si innerva su un malcontento di fondo della popolazione residente, facilmente orientabile a difesa di interessi precisi. A Pianura le dinamiche che spingeranno alcune frazioni dei residenti autoctoni a chiedere l’espulsione dal loro territorio della popolazione immigrata, saranno parzialmente simili, ma con un attore questa volta politico che agirà in primissimo piano: Alleanza nazionale. Anche questo quartiere, come Ponticelli, è interessato da importanti progetti di rinnovamento urbanistico (il Contratto di Quartiere) che inciderà su alcuni edifici occupati da immigrati. Il primo caso è quello del “T1”, edificio sgombrato con interventi delle forze dell’ordine e della protezione civile con la motivazione che fosse inagibile, pericolante, e definitivamente liberato dalla presenza di immigrati con un incendio doloso. Ma i fatti che attireranno maggiore attenzione giornalistica nelle prime settimane di settembre, riguardano gli edifici di via dell’Avvenire. Lì alcune antiche e vecchie costruzioni risalenti al ‘700 e da anni abbandonate per poi essere rese minimamente agibili dagli immigrati, sono oggetto da tempo di molteplici frizioni con i residenti italiani. Che si lamentano per l’eccessiva promiscuità, per la sporcizia del posto, per i furti di corrente elettrica ed acqua, per gli schiamazzi prodotti nei fine settimana dai residenti immigrati (prevalentemente provenienti dall’Africa sub-sahariana). Le prime schermaglie, le prime minacce si hanno prima dell’estate (ma già nel 2007 vi era stato un tentativo di sgombero). Alcuni cittadini si organizzano in comitati con l’obiettivo di allontanare gli immigrati, percepiti come la fonte della degradazione (ulteriore) del quartiere: non è raro ascoltare dalla gente del posto simili frasi: “Già stiamo rovinati, se poi ci si mettono anche loro... a vivere in queste condizioni...”. Da varie inchieste ed interviste emerge come vi sia anche una certa consapevolezza di fondo di star conducendo una guerra tra poveri, degli ultimi contro coloro che stano “dietro gli ultimi”. E però l’incapacità di riuscire ad individuare le cause profonde del proprio malessere spingono alcuni residenti locali a tentare, minacciare di “risolvere il problema da soli”. In queste dinamiche di fondo si inserisce l’operato sistematico di An, nelle persone della famiglia Diodato (consiglieri regionale e comunale) ed i suoi sodali, Andrea Santoro, e di altri loschi figuri come Marco Nonno (indagato nel procedimento penale inscritto nel registro della Procura di Napoli per aver pilotato alcune frange della protesta pianurese del gennaio 2008 in concorso con Nugnes, del Pd, ed altri per ricavare un ingiusto profitto da quei fatti). An interviene con manifesti molto duri contro gli immigrati, per il “ripristino dell’ordine” nel quartiere e per “restituire Pianura ai pianuresi”, in classico gergo neofascista. Interverrà anche fisicamente, con propri militanti e lo stesso Diodato, durante gli interventi delle forze dell’ordine ed a sostegno dei comitati locali. Sarà presente anche durante alcuni scontri tra popolazione locale ed immigrati consumati sul finire di settembre, nei quali verrà aggredito, sotto gli occhi delle forze dell’ordine, da più camerati un militante antirazzista, Massimiliano Di Marco, indicato proprio da Diodato come soggetto indesiderato e bollato come “amico degli zingari e dei camorristi”2. Come accennavamo poc’anzi, anche a Pianura nei prossimi anni si prevedono investimenti di decine di milioni di euro, e sebbene l’area di via dell’Avvenire non sia immediatamente interessata dal Contratto di Quartiere, è vero che in base a tutt’altra serie di progetti (filiazioni della 219), essa dovrà essere completamente ristrutturata e rivalorizzata. Anche in questo caso ritorna il déjà vu della speculazione edilizia. Sia i fatti di Ponticelli che di Pianura, sebbene siano chiari gli interessi in ballo (speculazione edilizia, controllo del territorio da parte di clan o della destra post(?)fascista...), non possono essere ricondotti meccanicamente a quelle dinamiche ed anzi vanno inseriti in più ampi processi, certo letti anche alla luce della diffusione su scala nazionale della percezione dell’insicurezza e delle conseguenti tesi sicuritarie. Vanno indagate le modalità ed i flussi comunicazionali, mediali in cui si esprimono le nuove forme di razzismo si Stato, indotto dall’alto, con forti accelerazioni negli ultimi tempi grazie alla nuova compagine governativa. La martellante campagna mediale sui temi dell’insicurezza e della criminalità delle nuove “classi pericolose” (migranti) fa breccia nella società italiana, maxime in periodi di crisi generalizzata e di incapacità, da parte delle istituzioni, di dare serie risposte sul piano occupazionale, della difesa dei diritti sociali, della regressione del sistema di protezione sociale, pensionistico e così via. Le legislazioni repressive nei confronti dei flussi migratori, la loro criminalizzazione, la riduzione a “problema di ordine pubblico” da trattare con più Cpt e maggiore presenza delle forze dell’ordine, tutto il “discorso” dominante, è funzionale alle pratiche di dominio del capitale sul lavoro vivo, diviso al suo interno, disgregato e conflittuale, stratificato ed irriconoscibile a sé stesso in quanto unità. I corpi dei migranti rilevano come mera forza-lavoro nel processo di lavoro e come mero fenomeno criminale nella società civile. I mass media, così come i politici dell’intero arco parlamentare (non esclusi, si badi bene, i “centro-sinistri” del Pd) sono i principali produttori contemporanei di tale clima e di tale discorso dominante. Tutto ciò è assolutamente vero, ma ancora non ci spiega come3, in una città come Napoli, che per tradizione è estranea a fenomeni di intolleranza verso stranieri, si stiano diffondendo contro gli “altri” episodi di rifiuto e finanche persecuzione nei loro confronti. Non ci sembra di essere di fronte ad un caso di diffusione di nuove forme di razzismo “cosciente” nella società civile napoletana, magari declinato in termini nuovi: culturale, differenzialista e così via. Piuttosto, ci sembra che una pluralità di fattori socio-economici e culturali, urbanistici e politici, rischino di condurre gli strati sociali più emarginati ad uno slittamento su pratiche di intolleranza mixofobiche, del rifiuto della mescolanza percepita come elemento di ulteriore degradazione delle proprie già misere condizioni di vita. Il rifiuto dell’altro quindi è un rifiuto che proviene dalle viscere, dallo stomaco, dalla fame, dalla disperazione, dall’essere consapevoli di non avere più nulla, da una lotta spietata di tutti contro tutti, laddove il più debole non viene concepito come alleato naturale, bensì come ulteriore “pericolo”, “attentato” ai propri spazi di vita, sempre più ristretti. Uno slittamento fondato sul risentimento dei “vinti della storia”, di chi subisce, nel cuore dei paesi a capitalismo avanzato, gli svantaggi della mondializzazione congiunto a quelli scaturenti dallo strutturale sottosviluppo meridionale, di chi li vive sulla propria pelle quotidianamente, pur senza essere consapevoli delle “cause ultime”. Tale risentimento rischia di creare, proprio nelle periferie, nelle banlieue nostrane, una massa di individui aperti, disposti a pratiche neorazziste e neodestre pensate come unica soluzione al “problema sotto casa”. Massa di consenso che può dare abbondante linfa sia alla devianza neofascista o comunque di nuove organizzazioni dell’estrema destra o invece essere intruppata nelle molteplici ramificazioni dei sistemi criminali insistenti sul territorio. È contro questo pericolo che bisogna riportare al centro di una militanza di classe la questione del re-insediamento nei quartieri proletari e sottoproletari, con la consapevolezza, tuttavia, di affrontare composizioni di classe assolutamente altre da quelle degli scorsi decenni e decisamente più complicate, complesse, sia da studiare che da coinvolgere in percorsi di pratiche conflittuali più ampie e coscienti su posizioni progressiste e di classe. Non c’è più la classe operaia in questi quartieri, facilmente individuabile e con la quale i rapporti erano agevolati dalle strutture delle organizzazioni “ufficiali” presenti sul territorio. Non c’è più la tuta blu che si riconosceva nel quartiere e poi nella sezione del partito o del sindacato, e nella manifestazioni e negli scioperi. C’è un magma sociale, di comunità scomposte in individui, differenziati tra di essi, ove una prevalente composizione anche solo tendenziale è di difficile individuazione e dove scompaiono sempre più intensamente le differenze tradizionali tra lumpen e proletariato. Ritornare nei quartieri e ritornare a fare lavoro territoriale, creando reti di più momenti organizzativi di contro-poteri, dal basso, realmente democratici, partecipati, che pongano al centro del proprio agire la valorizzazione della persona inserita in nuovi collettivi di lavoro, identità e conflittualità. Una sorta di “ritorno al futuro” che sappia reinventare nuove forme di aggregazione collettiva che sia radicalmente critica nei confronti del potere costituito. In quest’ottica uno dei possibili e più interessanti percorsi di sperimentazione è rappresentato dai primi esperimenti di costruzione del “sindacato metropolitano”, che sappia aprirsi al territorio, dialogare con esso, con la sua pluralità, disomogeneità e disorganizzazione sociale e coscienziale. Perdere tale battaglia, vorrebbe dire, ancora oggi... la vittoria della barbarie.

Ricercatore, Osservatorio Meridionale di CESTES-Proteo

Le periferie della metropoli vanno intese però non soltanto in termini spaziali, geografici, bensì anche in termini socio-economici e culturali. Le periferie possono insistere anche nel centro della città (si pensi ai Quartieri Spagnoli, alla Sanità, a Forcella...).

Nessuno degli aggressori verrà fermato dalla Polizia anzi essi continueranno a stazionare sul posto in maniera minacciosa. E ciò nonostante alcuni poliziotti abbiano assistito agli eventi ed anzi siano intervenuti per dividere le parti.

A meno che non si voglia ricorrere semplicisticamente alla tesi “monocasuale” degli interessi camorristici ed edilizi o di speculazione politica.