Blocchi flessibili nella metropoli: un’esperienza concreta di sindacato territoriale

PAOLO DI VETTA

1. Sono accadute molte cose dal 9 novembre 2007, quando si concretizzò l’idea del “blocco precario metropolitano” con l’obiettivo di generalizzare lo sciopero indetto dai sindacati di base in quel giorno. L’idea di fermare la mobilità e di farlo a partire dalla spinta soggettiva di una realtà sociale composita formata da lavoratori precari, persone in emergenza abitativa, studenti medi e universitari, migranti declinava correttamente il concetto di “blocco” provando a cogliere l’occasione offerta dallo sciopero per avviare una sperimentazione concreta di “sindacalismo metropolitano”. Una doppia sperimentazione che, da una parte, interrogava le forme dello sciopero nel tempo della metropoli-fabbrica, della produzione sociale, delle reti economiche che si estendono all’intero territorio urbano. Dall’altra, provava a connettere i diversi soggetti sociali che vivono in prima persona la condizione di precarietà di vita e di lavoro. La mobilitazione in sé non produsse grandi numeri ma fu utile per definire i passaggi successivi, concentrati sul ruolo della rendita e del conflitto tra gli interessi ad essa collegati e il diritto al reddito, alla casa, alla cultura, allo sport, ridefinendo in questo modo anche lotta per la difesa dei “beni comuni”. Il disegno delle città, frutto del rapporto di comando tra “governance” e speculazione immobiliare, diventa incubatore di precarietà, di lavoro flessibile, di costante rottura delle regole urbanistiche. Un’onda che travolge tutto e tutti modificando il territorio e i rapporti tra le persone. Ma la rendita si presenta anche come risposta violenta alla ingovernabilità di soggetti sociali che vivono la città fuori dalle regole del mercato e del profitto. Esattamente ciò che accade in quei quartieri con una spiccata vocazione alla socialità, alla produzione culturale, e artistica con una forte presenza di studenti e precari della formazione. La rendita diventa la risposta del capitale che vuole mette a valore queste eccedenze sociali e produttive. 2. Dovendo prevalere l’interesse privato, nonostante la crisi, si piega ciò che è pubblico e che rappresenta un bene comune - sia esso un diritto o un ettaro destinato a verde - alla necessità prevalente: salvaguardare la rendita. In quest’ottica diventa normale finanziare le banche in crisi e proporre a chi ha bisogno di una casa l’housing sociale. Un paradosso inaccettabile: per tutelare gli istituti di credito si diventa statalisti, mentre le ricette liberiste e di salvaguardia della concorrenza si applicano a ciò che rimane del welfare. Un vero capolavoro del capitale. Questo processo di saccheggio trasforma milioni di persone in precari, individui con reddito insufficiente, morosi, insolventi, “inaffidabili”. Quelli che non arrivano a fine mese, che hanno figli e il frigo vuoto, che la pensione non basta, che con tre impieghi non arrivano a mille euro, che sono costretti a vivere con poco o pochissimo, che rivolgono il loro livore verso quella parte di società che vedono come concorrente al ribasso o facile capro espiatorio: migranti, soggetti del disagio sociale, rom, prostitute. Questo diventa terreno di coltura per le politiche securitarie. Secondo l’Istat, la soglia di povertà nel 2007 è risultata pari 986,35 euro. I nuclei composti da due persone che hanno una spesa media mensile pari o inferiore a tale cifra vengono classificati come “relativamente poveri”. In Italia 5 milioni di persone sono in questa condizione. A fianco dei “relativamente poveri” ci sono poi i “poveri assoluti” che rappresentano il 6,8% della popolazione (dati Istat 2004). Infine ci sono i “nuovi poveri”, troppo ricchi per essere considerati dal poco welfare esistente e troppo poveri per sostenere affitti, mutui, tariffe e costo della vita in genere. Sono un esercito silenzioso e invisibile, sconosciuto e sottostimato. La forma del “picchetto metropolitano” contro la rendita e il censimento dal basso degli appartamenti vuoti diventano formidabili strumenti nella lotta contro la precarietà abitativa e reddituale. Iniziato con il presidio degli stabili vuoti appena costruiti in un territorio sommerso dal cemento privato come Bufalotta, questo percorso ha superato i tentativi di criminalizzazione e gli arresti, provando a produrre un salto di qualità nello scontro con la speculazione e con i signori del cemento. Sottrarre ai privati il patrimonio e destinarlo al pubblico. Recuperare reddito attraverso le occupazioni è la nuova sperimentazione di una composizione giovanile precaria che usando la flessibile forma organizzativa dei Bpm continua a sottrarre metri cubi alla speculazione, non rinunciando alla forma dell’inchiesta sociale e dello sportello come forma di allargamento del conflitto e di organizzazione. Lo sgombero dello spazio sociale Horus, nevralgico punto d’incontro dei Bpm, mette ancora in evidenza che la lotta contro la rendita può nuocere gravemente alla salute di chi la organizza. Proprio intorno all’ex Horus club si è svolta una vittoriosa battaglia contro la cementificazione nel Municipio IV: non è un caso che si colpisce un luogo partecipato e importante come questo, negli stessi giorni in cui si stanno definendo i nuovi accordi urbanistici tra il sindaco Alemanno e i costruttori. Per queste ragioni la battaglia per la liberazione dell’Horus diventa un punto strategico per le nostre dinamiche di movimento.

3. La città vetrina, a cominciare dal ruolo della grande distribuzione commerciale che ha ridisegnato la città, assume sempre più la forma di “territorio controllato”, dove regnano “legalità e sicurezza”, soprattutto in un periodo come questo segnato dalla crisi globale liberista. La sfida sta tutta qui. In questo contesto, i processi di precarizzazione continuano ad avanzare, ma non trovano forme di espressione visibili ed adeguate. La sperimentazione organizzativa e comunicativa avviata dai Bpm può dare un contributo originale e utile in questa direzione. Lo slogan “Noi la crisi non la paghiamo”, nato con l’incursione negli stabilimenti Ikea di Porta di Roma, e la proposta di generalizzare lo sciopero del 17 ottobre 2008, hanno creato una suggestione e una connessione reale con il movimento degli studenti. Le stesse parole sono diventate il leit motiv di un movimento straordinario, un’onda che ha cambiato l’agenda politica del governo dimostrando un’indipendenza di organizzazione e di conflitto strategica, definitivamente oltre qualsiasi rappresentanza politica. I Bpm ora devono ragionare sulla possibilità di muoversi in relazione all’onda studentesca, una bomba precaria in fieri, e promuovere in sinergia con quanti più soggetti possibili forme di coordinamento territoriali e cittadine “Noi la crisi non la paghiamo”. La dimensione di precarietà che si respira in questa città è tale che potremmo anche immaginare uno “sciopero metropolitano” organizzato a rete. La forma che i Bpm si sono dati favorisce questo progetto perché mette in relazione l’intervento “territoriale” al lavoro delle reti sociali in movimento. I Bpm come spazio di attivazione, di conflitto generalizzabile, di attitudine alla contaminazione e alla connessione tra pezzi diversi di precarietà. Un modello organizzativo che si deve confrontare con l’esperienza del sindacato di base senza rinunciare alla propria autonomia, anzi deve trovare nella pratica il punto di incontro conflittuale. I Bpm nascono nella sfida ambiziosa contro la rendita di Santarelli e contro la Delibera 218, fanno di questo l’atto fondativo, rompendo anche gli schemi della rappresentanza politica (destra/sinistra) durante la giunta Veltroni. Per queste ragioni trovano naturale chiamare il sindacalismo indipendente e conflittuale alla sperimentazione di vertenze metropolitane. Un percorso che non può vivere di autoreferenzialità e/o cooptazione. Sarebbe utile e necessario, almeno nelle Rdb, dare dignità e rappresentatività al percorso dei Bpm. In questo senso, occorre dare continuità al convegno di fine maggio svoltosi proprio all’Horus occupato che aveva provato a proiettare il lavoro dei Bpm in una dimensione europea. Sarebbe interessante capire se lo sviluppo di esperienze di sindacato metropolitano possano essere considerate adeguate nella lotta contro la rendita e la precarietà, le svolte securitarie e il restringimento degli spazi di libertà. Investire sulla liberazione di Horus ci appare la declinazione migliore di ciò fin qui sostenuto, perché l’attacco portato contro i Bpm attraverso lo sgombero chiama in causa il ruolo della rendita e della speculazione che per prevalere necessitano di garanzie securitarie. Chiudere spazi di autogestione e autorganizzazione, controllare con la vigilanza armata i cantieri di alloggi privati in costruzione o di centri commerciali, intimidire le forme del dissenso dove queste si manifestano, vigilare le stazioni con l’esercito, consente alla attuale governance la difesa di quegli interessi privati che ne garantiscono la sopravvivenza. Per questo affermiamo che la nostra precarietà è la loro rendita, che la partita oggi è tra queste due “categorie” e volendo giocare sulle parole potremmo dire che, tra il capitale e il lavoro la guerra la vince proprio la rendita che con grande flessibilità prova a surfare dentro la crisi senza farsi travolgere dalle onde in arrivo

Blocchi Precari Metropolitani