Il ruolo dell’università nell’attuale fase economico-sociale

Alessandra Ciattini

1. Premessa

 

Ri pare che per comprendere cosa sta effettivamente accadendo all’università italiana, per valutare in maniera adeguata i progetti di riforma di questa istituzione, in parte realizzati e in parte da realizzare, bisogna distinguere due ordini di problemi. Da un lato, si deve collocare il problema ‘università’ nell’ambito delle profonde trasformazioni economiche, innescate da questa nuova fase capitalistica, instauratasi anche a causa del disfacimento dell’Unione Sovietica e dei suoi alleati.

Molto brevemente si può dire che, in questa nuova fase, si sta realizzando un gigantesco trasferimento di risorse, messe insieme dal cosiddetto Stato sociale essenzialmente prelevandole con la tassazione dei redditi da lavoro, da quelle istituzioni sociali che forniscono servizi alle industrie grandi e piccole, che si trovano a competere in un mercato sempre più “globale”.

Che questo sia un processo internazionale e che esso riguardi direttamente l’università, a cui lo stato darà sempre meno risorse, lo ho già illustrato in due precedenti articoli (cfr. Contropiano n° 4 e n° 5), sottilineando come ciò significhi anche escludere dalla formazione universitaria gran parte dei figli dei lavoratori a reddito fisso e dei disoccupati (evito volutamente di utilizzare l’espressione neodarwiniana e mistificante “fasce deboli”).

L’altro aspetto della questione, che cercherò qui di trattare, è invece di ordine culturale e scientifico. Esso contiene la seguente domanda: una università trasformata dalle riforme già messe in atto o in via di realizzazione, ossia in sostanza non più aperta alle masse, e non più in grado di avvalersi in toto del finanziamento pubblico, che tipo di cultura e di scienza produrrà?

Cercherò di illustrare questo secondo aspetto, analizzando per quanto è possibile i provvedimenti legislativi che sono stati presi negli ultimi anni, e che stanno per essere approvati nel prossimo futuro.

Naturalmente questo secondo aspetto è di fondamentale importanza per il ruolo strategico che ha la ricerca scientifica nella società industriale, ma anche per un’altra questione, che a chi si occupa di scienze sociali non può apparire di secondaria importanza.

Come è ovvio ogni sistema sociale elabora un proprio sistema di valori e di credenze, un’ideologia, il cui scopo fondamentale è di creare consenso, di elaborare una visione del mondo che renda accettabile il sistema in vigore (in questo senso, ogni sistema sociale è tendenzialmente omologante). Tale visione del mondo nasce sicuramente dai gangli della vita sociale, ma uno di questi gangli è sicuramente rappresentato dalle elaborazioni culturali prodotte nelle università. Gran parte della ideologia quotidiana è il risultato impoverito e semplificato, diffuso attraverso i mass media, i grandi giornali nazionali, di queste ultime. In questa forma le elaborazioni culturali contribuiscono, dunque, alla costruzione del cosiddetto senso comune, filtro attraverso il quale volenti o nolenti finiamo col vedere le cose. Il senso comune può essere sia uno strumento di sviluppo della coscienza sociale, sia uno strumento del suo ottundimento. Da questo punto di vista la funzione dell’università non è solo quella di un’istituzione specialistica; essa ha anche una funzione più generale, ossia, di dare un contributo fondamentale al modo critico o acritico in cui un certo sistema sociale vede se stesso e si giudica. Per questa ragione la “questione università” non è di esclusiva pertinenza degli addetti ai lavori, ma è piuttosto un problema fondamentale per chi voglia trasformare le forme attuali di coscienza sociale.

Ma c’è anche un’altra ragione per la quale la funzione dell’università è stata e resta centrale. Mi sia concesso spendere qualche parola sull’argomento, troppo spesso trascurato dalla pubblicistica anche di sinistra. L’università è stata e resta ancora oggi il luogo della riproduzione della classe dirigente. Basti un dato per mostrare quanto sia vera questa affermazione: circa il 10% dei parlamentari sono professori universitari. Se ciò non sembrasse sufficiente, potremmo far riferimento ad un articolo di Raffaele Simone, il quale - pur essendo lui stesso docente universitario - descrive in maniera polemica il ruolo politico-sociale dei professori universitari. Egli sottolinea giustamente che questi ultimi occupano al contempo posizioni-chiave nelle istituzioni statali e private (industrie, banche, authorities, ecc.) [1], riescono anche a diventare ministri, consulenti ben pagati dell’amministrazione pubblica, se non addirittura capi di governo come Prodi in Italia e Jospin in Francia.

Simone definisce questi personaggi con l’efficace espressione Professori-Professionisti-Presidenti ed osserva con amarezza che, per dispensare le proprie energie nello svolgere questo faticoso e complicato ruolo, i docenti finiscono col trascurare l’insegnamento e la ricerca, dedicandosi invece a tempo pieno ad attività assai più lucrose e, sicuramente dal loro punto di vista, più gratificanti.

Proprio perché l’università ha la funzione di riprodurre la classe dirigente, coloro che si collocano al vertice della struttura debbono essere accuratamente vagliati e giudicati.

Non a caso proprio recentemente è stata approvata una nuova legge sui concorsi universitari, i cui meccanismi più o meno velati di cooptazione di studiosi “non meritevoli” avevano già in passato suscitato un vivace dibattito. Questa nuova legge taglia la testa al toro e rende la cooptazione esplicita e dichiarata. Infatti, il bando del concorso locale - non più nazionale come in precedenza - indica quali dovranno essere le caratteristiche “didattiche e scientifiche” del vincitore. Di modo ché la facoltà che bandisce il concorso, o meglio i professori ordinari che la governano, potranno stabilire in anticipo chi vincerà, indipendentemente da come i candidati supereranno le prove concorsuali.

Nonostante sia evidente il carattere mistificante di tale concorso molti docenti di fama, e che si considerano democratici e di sinistra, hanno plaudito una legge, la quale a loro parere moralizzerebbe la vita universitaria e renderebbe più rapidi i concorsi.

Il loro atteggiamento diventa del tutto chiaro se si comprende che il docente universitario - di sinistra o di destra - quasi sempre si identifica con i fini dell’istituzione cui appartiene, ed è quindi interessato al mantenimento degli attuali equilibri di potere al suo interno.

 

 

2. Polemiche

 

In questi ultimi tempi i giornali hanno dedicato un qualche spazio alla questione ‘università’, generalmente considerata un problema specialistico non interessante per la massa dei lettori. Ciò è avvenuto in occasione della discussione e della quasi approvazione di una legge riguardante lo stato giuridico dei ricercatori, la figura che sta alla base della piramide universitaria. Non affronto qui il tema per dare un qualche spazio alle rivendicazioni dei ricercatori (categoria cui appartengo), ma per fare un quadro delle diverse posizioni assunte da uomini di cultura appartenenti sia alla destra che alla sinistra. Dirò solo brevemente che la legge, affossata in seguito ad una violenta campagna di stampa, riconosceva ai ricercatori la funzione docente - da essi svolta pienamente di fatto - e li faceva partecipare agli organi collegiali da cui sono stati sempre esclusi. Il capofila di questa battaglia è stato Angelo Panebianco, che ha scritto un fondo sul Corriere della sera (13-12-1999), in cui denunciava indignato l’ope legis. Ma più avanti affermava chiaramente qual’era l’obiettivo vero della sua rabbia: i ricercatori immessi nei consigli di facoltà avrebbero sicuramente messo a rischio delicati equilibri e - se mi è consentita un’interpretazione
 costituito un ostacolo al modo in cui i docenti dei ranghi più elevati hanno fin’adesso governato la vita universitaria, con la relativa distribuzione di posti. Questione quest’ultima assai rilevante, dal momento che - come si è visto - chi giunge all’apice della carriera universitaria, diventerà al contempo membro della classe dirigente.

Il riconoscimento della funzione docente ai ricercatori deve essere inserito nell’ottica della riforma dell’università partita con la legge sull’autonomia, su cui avremo modo di soffermarci, e sulla conseguente trasformazione dell’insegnamento universitario contenuta nel Regolamento dell’autonomia didattica negli atenei. Trasformazione praticabile se sarà disponibile un numero maggiore di insegnanti, giacché essa si fonda sull’istituzione di diplomi universitari di vario livello, i quali dovrebbero avere inoltre la caratteristica di essere professionalizzanti.

Possiamo dire che grosso modo esistono due schieramenti, nei quali si trovano fianco a fianco uomini di destra e di sinistra (ammesso che nel panorama politico odierno queste parole abbiano ancora un significato). Il primo schieramento, capeggiato per la sua notorietà da Angelo Panebianco, ma in cui troviamo anche Giorgio Manacorda (Corriere della sera 7-1-2000), osteggia la riforma universitaria sia per il metodo (l’utilizzazione del collegato alla Finanziaria per leggi importanti come lo stato giuridico dei docenti), sia per il merito. In particolare, si sottolinea giustamente che i nuovi provvedimenti non prendono in considerazione l’attività di ricerca e il suo fondamentale rapporto con la didattica; rapporto che fa ovviamente dell’insegnamento universitario qualcosa di totalmente diverso da quello scolastico. Si ribadisce anche che si finirà col trasformare l’università in una scuola secondaria professionalizzante, anche se poi non si aggiunge che gran parte delle professioni previste dal nuovo ordinamento esistono solo sulla carta.

D’altra parte anche la Confindustria non ha sempre plaudito le riforme, ora che ci è accorti che anche le multinazionali hanno bisogno di laureati con formazione umanistica, che sono sempre stati la nostra specialità.

Anche se queste critiche hanno un fondamento, non dobbiamo dimenticare che esse sono espressione soprattutto delle preoccupazioni dei professori universitari, i quali temono di perdere gran parte dei loro privilegi. Ad esempio, si legge nell’organo del CIPUR (un‘associazione di docenti universitari) che, proprio la peculiarità delle funzioni di questi ultimi (tra la quali si annovera la formazione della classe dirigente) rende inaccettabile la contrattualizzazione, sia pure parziale, del trattamento economico, un altro dei punti cardine dei progetti di riforma.

Certo, in un’università che dovrà sussistere in grande misura grazie ad investitori privati che faranno pesare i loro pareri, in cui la ricerca di base sarà relegata in un ghetto, in cui bisognerà insegnare a tutti i costi agli studenti a saper fare qualcosa, in modo da poterli inserire in qualche modo del mondo del lavoro, il docente perderà la sua specificità, la sua autorevolezza e non potrà più pontificare dall’alto delle testate di prestigio. Non avrà più le carte in regola neppure per fare il consulente dei politici. Non a caso Manacorda, che si dichiara di sinistra, lamenta il pericolo di veder trasformato il docente universitario in maestro delle elementari e considera di destra i progetti di riforma dell’università.

Aggiungo a margine che è stato osservato come, nella maggior parte dei casi, le sovvenzioni private sono pura fantasia; esse sono immaginabili per ricerche che siano di immediata utilità (le quali sono a loro volta assai rare) e non certamente per le spese fisse. Inoltre, dal momento che il budget versato dal MURST non contempla le spese per gli avanzamenti di carriera del personale, se questo denaro non sarà ricavato dalle sovvenzioni private o dalle tasse degli studenti, è evidente che le università - come scrive Cesare Segre (Corriere della sera, 27-1-1999) - sono destinate ad un lento declino, non potendo assumere nuovi lavoratori al posto di chi va in pensione. Oppure - come prevede il Rettore della Sapienza di Roma - a chiedere dei prestiti per inserire nell’organico quanti sono risultati idonei negli ultimi concorsi.

L’altro schieramento, tra i cui esponenti possiamo inserire Guido Martinotti, che ha coordinato un gruppo di lavoro sull’innovazione dell’insegnamento universitario, parte da un’analisi assai superficiale dell’attuale situazione dell’università, considerata antiquata, e dei suoi mali. E sulla base di questa analisi sostiene la necessità di un cambiamento i cui punti centrali: 1) la cosiddetta autonomia, violata in varie occasioni, che significa sostanzialmente l’ingresso di denaro di privati nell’università; 2) la riforma dei contenuti didattici e dei sistemi di valutazione degli studenti; 3) l’istituzione di sistemi di valutazione a vario livello dell’attività del docente universitario; 4) la riforma dello stato giuridico del personale docente.

L’analisi dei fautori della modernità si basa sostanzialmente sul dato di fatto rappresentato dallo scarso numero dei laureati in Italia, e dalla loro lunga permanenza nelle strutture universitarie.

Se si vuole cambiare il dato di fatto, bisogna interrogarsi sulle sue cause. Cosa che i fautori della modernità non possono fare a fondo altrimenti verrebbero alla luce fatti come: la totale crisi della scuola italiana che produce (ahimé) studenti semianalfabeti, la dilagante disoccupazione e sottoccupazione, le quali inducono gli studenti a iscriversi senza una reale motivazione all’università, l’estrema difficoltà in cui si trova il docente universitario che deve trasformare uno studente semianalfabeta in un individuo dotato di una cultura medio-bassa. A ciò dobbiamo aggiungere il basso livello di molti docenti universitari, che sono stati arruolati con un sistema clientelare e lobbistico, sul quale esiste un’ampia letteratura.

Naturalmente non è mia intenzione scaricare le colpe della cattiva preparazione degli studenti sugli insegnanti della scuola; sarebbe ingiusto e semplicistico. La causa di questa grave carenza si trova nei contenuti dell’ideologia pervasiva, di cui si nutre la nostra stessa società. Sarebbe necessario analizzare questo punto in profondità, ma non mi è possibile in questa sede. Mi limito perciò a sottolineare che i nostri giovani hanno spesso personalità narcisistiche, e sono pertanto incapaci sia di affrontare gli inevitabili smacchi sia di sottomettersi ad un impegno serio e duraturo, fondato sulla autodisciplina. Tutto ciò si può dire con una semplice battuta: è stata tolta ai nostri figli quella piccola dose di super-io, che li avrebbe dotati di ambizioni e di progettualità.

Per concludere la riflessione su questo tema mi pare si possa dire che, se l’analisi dei fautori della modernità è effettivamente superficiale, non produttivi saranno certamente i rimedi da loro proposti. Perciò è assai probabile che il risultato sarà - come gridano i “reazionari”
 l’abbassamento di qualità delle nostre università e la loro trasformazione in licei più o meno professionalizzanti, ammesso che esistano effettivamente le professioni per le quali dovremo preparare gli studenti.

Bisogna aggiungere che l’università tradizionale ha funzionato sempre in un altro modo, non certo difendibile. In generale gli studenti veramente seguiti dai docenti sono sempre stati solo quelli che hanno una preparazione seria, derivante in molti casi dalla tradizione familiare o dalla collocazione sociale. Gli altri studenti sono stati assai spesso lasciati a se stessi e, se giungono a laurearsi, è semplicemente perché ormai i docenti non se la sentono di mostrarsi troppo esigenti, o perché sarebbe troppo faticoso impedir loro di avanzare negli studi.

 

-----

3. Quantità e qualità

 

Il Regolamento in materia di autonomia didattica degli Atenei, approvato recentemente, prevede il cosiddetto 3+2. Ciò significa che in tempi rapidi le università dovranno rilasciare titoli di primo e di secondo livello, ossia la laurea e la laurea specialistica. Sono previsti anche il diploma di specializzazione e il dottorato di ricerca, quest’ultimo per coloro che vorrano dedicarsi all’attività scientifica nell’università o in un’altra istituzione.

Prima di esaminare brevemente qualche esempio di laurea universitaria e gli obiettivi formativi che essa si propone di raggiungere, permettetemi di tornare sui cosiddetti crediti (ne avevo già parlato negli articoli su Contropiano). Innanzi tutto, diciamo che alla base della nozione di credito sta l’idea della monetizzazione non tanto del sapere, ma del tempo per ottenere un certo sapere. Secondo il già citato Regolamento, infatti, al credito formativo universitario corrispondono 25 ore di lavoro per studente; in questa prospettiva <<La quantità media di lavoro di apprendimento svolto in un anno da uno studente impegnato a tempo pieno negli studi universitari è convenzionalmente fissata in 60 crediti>>.

Tale impostazione non può che suscitare in chi faccia seriamente il mestiere dell’insegnante due perplesse domande: perché questo trasferimento in ambito didattico ed universitario di termini presi dal linguaggio della finanza? È possibile ed utile stabilire convenzionalmente il tempo di apprendimento?

Alla prima domanda possiamo rispondere illustrando la filosofia che sta alla base di questi provvedimenti. L’apprendimento non è più inteso come un processo formativo, nel corso del quale non si trasmettono solo nozioni, ma anche strumenti e metodi per guardare criticamente le prime; esso è inteso come un processo di accumulazione, simile a quello con cui si accumula il denaro in banca; proprio per questa sua caratteristica le nozioni devono essere trasmesse già confezionate, mantenendo nascosta allo studente la loro genesi, che forse avrebbe riacceso in lui un barlume di atteggiamento critico. Ma quest’ultimo sarebbe un elemento di disturbo, che avrebbe reso più difficoltoso l’apprendimento e meno malleabile lo studente.

Possiamo aggiungere che questo trasferimento del linguaggio finanziario e bancario alla didattica universitaria è anche una grande operazione ideologica, il cui scopo è quello di farci accettare totalmente l’idea che il sapere, giacché è un credito a sua volta spendibile sul mercato del lavoro, deve essere monetizzato e si può dunque aver accesso ad esso solo pagando. Tutto ciò giustifica pienamente lo sviluppo di università private, le cui rette possono esser pagate solo da pochi, ed il ritorno netto e chiaro alla selezione basata sull’appartenenza di classe.

Alla seconda domanda (è possibile ed utile stabilire convenzionalmente il tempo di apprendimento?) debbo rispondere con una banalità. Evidentemente questi consulenti del ministro, profumatamente pagati, non hanno mai studiato, nel senso che non si sono mai fatti prendere appassionatamente da un problema teoretico e scientifico. Non sanno che l’apprendimento è per sua natura sempre perfettibile, e che ogni sua fase ne prepara un’altra più complessa ed articolata. Non sanno neppure che l’apprendimento è un processo strettamente legato alla formazione della personalità dell’individuo, e in questo senso è un processo qualitativo, delicato e assai complicato, che pertanto non può essere quantificato in termini convenzionali.

Ma passiamo ad un altro argomento, in un certo senso divertente, se non avesse esiti drammatici per i nostri figli. Mi riferisco alla cosiddetta Determinazione delle lauree universitarie di primo livello. Ne esaminerò alcune, limitandomi per la mia competenza a quelle umanistiche.

Vediamo ad esempio la laurea in discipline letterarie. I suoi obiettivi sono quelli che sempre ha avuto: possedere una solida formazione di base, metodologica e storica, negli studi linguistici, filologici e letterari... essere in grado di svolgere compiti professionali di vario livello in enti pubblici e privati nei settori dei servizi culturali (es. giornalismo)... A ciò si aggiunge quanto ogni madre preoccupata del futuro di suo figlio sa: conoscere un’altra lingua europea oltre l’italiano e sapersela cavare col computer.

Obiettivi ugualmente ovvi si ritrovano nella laurea di scienze della comunicazione: possedere una buona formazione di base e un ampio spettro di conoscenze e di competenze nei vari settori della comunicazione linguistica, culturale e delle relazioni pubbliche... conoscere almeno due lingue moderne oltre l’italiano... essere capaci di lavorare in gruppo...

Queste dovrebbero essere lauree professionalizzanti e che quindi dovrebbero garantire l’entrata nel mondo del lavoro. Che le cose siano un po’ più complesse lo mostra la crisi del mondo editoriale, in cui è ormai possibile trovare - se si è ben supportati - solo contratti di collaborazione esterna.

Se queste osservazioni sono corrette, l’operazione che sta dietro le varie riforme universitarie presenta varie sfaccettature: da un lato, costituisce uno sforzo per adeguare l’università alle esigenze dell’attuale fase capitalistica (trionfo del sapere nozionistico, crisi di quello critico, finalizzare l’apprendimento solo all’attività pratica e lavorativa e non anche all’ampliamento delle conoscenze); dall’altro è anche una grande operazione ideologica e demagogica, la quale mira a fare dell’ideologia del mercato la chiave interpretativa del mondo in tutti i suoi aspetti, spingendoci anche a nutrire aspettive difficilmente realizzabili in questo contesto.

Vorrei concludere questa parte con una breve osservazione sull’utilizzazione dei quiz a risposte multiple, che stanno entrando prepotentemente nell’università a sostituzione del vituperato esame tradizionale. E’ stato notato che, nei casi in cui la risposta non è chiaramente univoca (es. la data della battaglia di Waterloo), la scelta tra una delle risposte indicate comporta sia la perdita di complessità della spiegazione del fenomeno esaminato (che viene così ricondotto ad un’unica causa), sia il surrettizio invito a cercare di compiacere il compilatore del quiz, rispondendo come avrebbe fatto lui. Come si vede, una ben riuscita manipolazione intellettuale.

 

 

4. Università e medioevo

 

In un’intervista al giornale britannico The Guardian (14 luglio 1998) Federico Zeri osservava che in Italia esistono tre istituzioni che la rodono come un cancro. A suo parere la prima sarebbe l’università, la seconda la burocrazia; quanto alla terza, invece, con sottile ironia egli dichiara che preferisce non menzionarla esplicitamente per paura di offendere i credenti.

Lasciamo da parte la burocrazia e analizziamo, invece, l’analogia tra la prima e la terza istituzione non menzionata dal noto storico dell’arte. Mi pare ovvio che Zeri, nella sua dichiarazione, facesse un implicito riferimento alla chiesa cattolica, sviluppando così un tacito parallelismo tra chiesa e università. Tale parallelismo - a mio parere - è sensato e si fonda sui caratteri medioevali e gerontocratici di entrambe le istituzioni. Caratteri gerontocratici che la riforma dello stato giuridico dei docenti addirittura accentuerà, seppure tenendo presente la politica dei tagli alle istituzioni pubbliche e della precarizzazione del posto di lavoro, quanto mai attuali oggi.

Il risultato sarà molto probabilmente qualcosa di simile a quei film kitch di fantascienza, in cui si cerca bizzarramente di coniugare la scoperte scientifiche del futuro con un ambiente arcaico e medioevale, nel quale si muovono orribili mostri semiumani.

D’altra parte, è abbastanza evidente che l’attuale fase capitalistica richiede trasformazioni politiche in senso autoritario, come ad esempio l’abolizione totale della proporzionale a vantaggio del sistema maggioritario, i cui esiti sono stati l’ampliamento dell’astensione dal voto; atto minimale di partecipazione politica. Se la riforma dello stato giuridico dei docenti sarà approvata, un’analoga trasformazione autoritaria sarà imposta all’università, che non ha certo mai brillato per democraticità, essendo sempre stata organizzata in caste impermeabili tra loro. Era difficile pensarlo, eppure nell’università del futuro vi sarà ancora meno spazio per la democrazia, e questo processo è presentato dai suoi sostenitori come un necessario utilizzo delle “politiche premiali” e il tanto atteso trionfo della cosiddetta meritocrazia.

Molto brevemente dirò che il nuovo stato giuridico prevede in primo luogo l’ulteriore gerarchizzazione delle figure universitarie (professori ordinari e professori tout court), stabilendo che per passare da una classe all’altra (tre per gli ordinari e sei per i professori) si dovranno superare procedure quadriennali di valutazione, i cui meccanismi restano alquanto oscuri. Superata la valutazione si avrà un avanzamento nella carriera e un aumento di stipendio. Le cariche elettive sono attribuite solo alle classi più alte. Avremo un’università zarista, nella quale ogni docente sarà inquadrato in una certa fascia e sottoinquadrato in una certa classe.

Ma l’elemento che lascia più perplessi è il meccanismo stesso della valutazione, il quale sarà gestito ovviamente dai professori giunti all’apice della loro carriera. Dal momento che il “merito” non è una cosa, ma il risultato di un giudizio sempre opinabile, tutto ciò lascia temere il dominio dell’arbitrio, o peggio il dominio delle varie lobby e cordate, sempre pronte ad escludere o a mortificare un docente non allineato. Si può aggiungere anche il sospetto che, in tali condizioni, la libertà di ricerca e di insegnamento condurranno vita stentata.

La nuova legge, tuttora in discussione in Parlamento, pervede anche che i ricercatori siano trasformati in professori di terza fascia (evidentemente gli esperti del ministero hanno sempre in mente la figura della piramide costituita da più strati), i quali saranno però messi immediatamente ad esaurimento.

Ciò significa due cose: una generazione di studiosi (certo non tutti brillanti) entrati all’università subito dopo il 1968, ormai autonomi anche per la loro età ed esperienza scientifica, è buttata a mare senza tanti complimenti. In realtà, questa epurazione - fatta in nome della necessità di ringiovanire il corpo docente - ha un senso politico-economico ben preciso. I vecchi ricercatori dovranno lasciare il posto ai giovani dottori di ricerca, che anche durante il dottorato potranno fare attività didattica, e che poi attenderanno circa otto anni (i contratti di tirocinio) per entrare nell’università, se mai vi riusciranno.

Insomma, si prospetta un’università leggera, in cui nel futuro ci saranno pochi docenti di ruolo, che però avranno in mano tutte le leve del potere, e una massa di docenti precari ricattabili e certo non nelle condizioni di svolgere in piena libertà le loro ricerche. Il risultato sarà un’università oligarchica e gerontocratica, perché se i vecchi ricercatori saranno via via eliminati, i vecchi ordinari resteranno quasi rianimati dalla linfa vitale, che la riforma dello stato giuridico immette nei loro non più scattanti organismi.

Inoltre, non posso fare a meno di citare un piccola perla, la quale riguarda la possibilità che avranno le università di stabilire contratti di diritto privato con personalità di alto rilievo culturale; il che ovviamente significherà che pochi potranno impadronirsi di una parte significativa degli stanziamenti per l’università, in una fase in cui le risorse per la ricerca e per il reclutamento sono state tagliate.

Ma anche alcuni professori di ruolo potranno stipulare con le università un contratto individuale di diritto privato, che riguarderà il trattamento economico accessorio. Per ottenere tale vantaggio il docente dovrà però correlare gli obiettivi della sua attività con quelli relativi alla programmazione dell’ateneo. Anche questo sembra un modo per intervenire dall’esterno sull’attività didattica e di ricerca, incanalandole in certi percorsi preordinati.

Altri elementi che mettono in luce la volontà di <<rafforzare l’organizzazione piramidale della docenza, con un sempre più ferreo controllo dal vertice>> (così si legge in un documento dell’Associazione Nazionale Docenti Universitari) sono: l’attribuzione agli ordinari delle cariche accademiche e il coordinamento dei gruppi di ricerca, l’esclusione delle due seconde fasce della docenza dalla votazione sulla destinazione dei posti relativi alla fascia superiore. Non meno pericolosa è la norma che prevede l’equiparazione economica tra professori, che si dedicano a professioni extrauniversitarie e professori che invece si dedicano solo all’insegnamento ad alla ricerca. I primi, in contraddizione anche col più piatto buonsenso, potranno addirittura accedere a tutte le cariche accademiche dalle quali oggi sono esclusi (rettore, preside, direttore di dipartimento etc.).

 

 

5. La cultura e la scienza della nuova università

 

Quest’ultima norma ci consente di tornare al discorso sviluppato da Simone e riportato in precedenza. Come si vede, infatti, la categoria dei Professori-Professionisti-Presidenti si rafforza e si impadronisce direttamente dell’organizzazione universitaria, per subordinarla a fini politico-economici ad essa esterni.

Si realizzerà così una più stretta interpenetrazione tra mondo delle aziende (non del lavoro), politica e attività universitaria. Interpenetrazione, che proprio per le sue caratteristiche, provocherà fenomeni più ampi e diffusi di corruzione di quelli già accaduti in passato.

Se tale scelta politica è deleteria per questa ragione pratica e morale, essa lo è ugualmente sul piano teoretico. Come è stato scritto da più parti - ma gli anonimi consulenti del ministro non lo hanno recepito - la scienza non può essere identificata con la tecnologia, e pertanto se si volesse legare la ricerca scientifica strettamente a risultati immediatamente pratici, essa finirebbe con l’esserne paralizzata. Ogni applicazione tecnica di certi risultati scientifici deriva dalla sviluppo della cosiddetta ricerca di base, la quale nasce dai vari tentativi che fanno i ricercatori di risolvere determinati problemi teorici, che fanno parte della storia di una certa disciplina.

Se dunque dimentichiamo l’esistenza di tutte queste mediazioni, finiremo col distruggere la stessa ricerca scientifica. A queste osservazioni, c’è da aggiungere un’altra questione. La maggior parte della ricerca svolta nelle facoltà umanistiche ha come fine il cosiddetto “ampliamento delle conoscenze”, e quindi è lontanissima dal produrre qualcosa di appetibile economicamente. Mi pare sia legittimo chiedersi che fine farà questo tipo di ricerca? Chi la finanzierà?

E’ abbastanza ovvio che anche questo tipo di ricerca ha tutta una serie di finalità pratiche e morali, che cercherò di illustrare brevemente. Lo scopo fondamentale delle ricerche storiche, sociologiche, antropologiche letterarie è quello di allargare le nostre conoscenze relative ai fenomeni storico-sociali del passato e del presente, ma nel far ciò esse stimolano anche la nostra coscienza critica, la nostra sensibilità politica e morale verso le attuali condizioni di vita. Queste conoscenze ci forniscono i mezzi per sviluppare forme di coscienza più raffinate, più vicine agli effettivi sviluppi del sapere scientifico e filosofico, per dare un significato più pieno e più denso alla nostra vita individuale e sociale. In definitiva, tali ricerche, trasformando fatti oscuri e sconosciuti in conoscenze acquisite ma pur sempre revocabili, mettono gli individui nelle condizioni di agire da protagonisti nella vicenda storica, e non di essere meri oggetti travolti dalle trasformazioni sociali piovute improvvisamente dall’alto.

Come si vede, la ricerca umanistica dà un apporto significativo e qualitativamente importante al modo di concepire il mondo nel quale viviamo, valorizzando al massimo le potenzialità trasformatrici dell’uomo e le sue possibilità conoscitive. Probabilmente essa potrebbe far riscoprire all’uomo il senso ormai smarrito - si dice - della sua storia, che egli va a ricercare nelle più svariate forme di irrazionalismo filosofico e religioso oggi diffuse. E quest’ultime sono proprio il segno dello stato di abbandono e di emarginazione dorata, nel quale si trova la ricerca umanistica a cui non è dato sviluppare a pieno le sue capacità critiche; essa riesce ad uscire allo scoperto solo quando si trasforma in mistificante ideologia ed accetta di alimentare il piatto ma disperante conformismo attuale, per il quali il mondo di oggi è il migliore dei mondi possibili.


[1] Ricordo che recentemente il Prof. Cassese è stato nominato presidente del Banco di Sicilia. L’articolo di Simone è intitolato “Professore e presidente. Un problema italiano e qualche proposta di soluzione”, e sta ne Il Mulino (luglio-agosto 1998).