La crisi strutturale globale e le implicazioni del mondo capitalista in relazione alla variabile asiatica. Una prospettiva storico-critica

FRANCESCO LUIZ CORSI - GIOVANNI ALVES

Il capitalismo sta vivendo una crisi del sistema finanziario senza precedenti il cui punto massimo è stato raggiunto durante l’agosto del 2007 con il crollo dei mercati negli Stati Uniti. In questo periodo si vedono gli effetti di una lunga crisi strutturale, e questa di oggi è una delle crisi più gravi del sistema capitalista mondiale. Chiaramente, negli ultimi 35 anni vi sono state ache altre fasi della crisi economica mondiale: per esempio nel 1987 e nel 1996, ma nessuna delle due può essere comparata con quella attuale. La crisi economica ha avuto una doppia spinta dopo che gli investimenti bancari della Lehman Brothers sono andati in bancarotta e hanno fatto precipitare il sistema finanziario mondiale. Era già chiara l’esistenza di un enorme quantità di capitali fittizi che hanno aumentato il loro valore, per cui la distanza dalle condizioni di valorizzazioni del capitale nella sfera produttiva è aumentata. Ben presto, molti paesi hanno iniziato a presentare una forte riduzione della loro attività economica, ad esempio il Giappone, i paesi europei e gli Stati Uniti. Con l’aggravarsi della situazione, l’epicentro è diventato il sistema stesso e non più la periferia, come avveniva negli anni ‘90. Il fantasma della crisi del 1929 circonda ancora di più il capitalismo. Comunque, in modo apparentemente diverso dalla crisi del 1929 - che si aggravò, gradualmente fino a raggiungere il massimo tra il 1932 e il 1933 - la crisi attuale sembrerebbe perdere forza in un tempo relativamente breve. Dal secondo trimestre del 2009, si è notato un certo miglioramento di alcuni indicatori, come un aumento dei movimenti speculativi riguardanti il capitale, i titoli azionari, le valute e le materie prime. Abbiamo affrontato una sorta di riduzione dei rischi della crisi, che potrebbe far riprendere l’attività economica già agli inizi dell’anno prossimo, oppure questa riduzione sarebbe solo poca cosa in una crisi di lungo termine? Ci sono chiari elementi che suggeriscono come valida la seconda alternativa, sebbene non esistano elementi consistenti che confermino una risposta definitiva. Le azioni intraprese dai governi centrali, a partire dagli Stati Uniti, sembrano evitare un collasso del sistema finanziario e il crollo monetario. Tra luglio del 2007 e marzo del 2008 gli investimenti bancari statunitensi hanno avuto una perdita pari a 175 miliardi di dollari. In Inghilterra l’insolvenza della Northern Rock, un’importante banca ipotecaria, ha avuto ingenti perdite tanto che il governo è stato obbligato a cedere ad essa 60 miliardi di sterline, garantendo i depositi e la stessa esistenza dell’istituzione. Altri governi europei hanno seguito l’esempio britannico, nelle settimane e nei mesi successivi. All’inizio della crisi, alcuni governi dei paesi più ricchi hanno avviato una serie di misure d’aiuto, totalizzando 390 miliardi di dollari: JP Morgan ha potuto in questo modo acquistare Bear Stearns, che era in bancarotta. Durante lo stesso mese, le banche centrali europee, giapponesi e statunitensi hanno inserito più di 200 miliardi di dollari nel sistema finanziario per bloccare il collasso economico. A luglio del 2008, il governo nord-americano ha salvato dalla bancarotta le agenzie Fannie Mae e Freddie Mac (che fatturavano insieme circa 5 trilioni di dollari) con un investimento pari a 200 miliardi di dollari. Queste agenzie sono tornate al settore pubblico in settembre, a causa della cattiva situazione del sistema finanziario. In quel mese, Lehman Brothers ha avuto un accordo. In seguito l’American Interregional Group (AIG) ha ricevuto 85 miliardi di dollari per continuare ad operare ed è passata sotto il controllo statale che ha acquisito l’80% delle sue azioni. JP Morgan e Bank of America hanno acquisito rispettivamente, con l’aiuto della FED, la Washington Mutual e la Merril Lynch. Davanti a questa catastrofe economica, l’Amministrazione Bush ha varato un piano di aiuti pari a 700 miliardi di dollari per salvare il sistema bancario e i titoli d’azione. Questo pacchetto d’aiuti non si è rivelato efficace per i mercati. A gennaio del 2009, la Bank of America ha avuto bisogno di 117,2 miliardi di dollari e Citigroup, dopo aver annunciato perdite per 8,29 miliardi, ha diviso l’operazione in due. Il fallimento delle banche europee e statunitensi si è diffuso maggiormente dopo queste notizie. I titoli azionari della Barclay, una delle banche più colpite in Inghilterra, hanno perso il 25%. Nei primi mesi del 2009, Citigroup ha perso il 10% del suo valore rispetto all’anno precedente. In Germania, molte banche hanno richiesto aiuti. Si stima che le banche tedesche abbiano investito circa 400 miliardi di dollari in titoli “spazzatura”. Non a caso è già stata approvata una legge che nazionalizza alcune banche. Barack Obama ha varato un pacchetto da destinare all’economia e ha approvato l’elargizione di una somma di denaro da dare alle banche pari a 789.5 miliardi di dollari. Alcuni governi, inoltre, hanno dato il via a dei programmi di costruzione di infrastrutture, per cui stanno aumentando i salari per i disoccupati e le spese sociali per cercare di arginare la crisi. Si stima che circa 21 paesi tra i più sviluppati al mondo avranno un incentivo fiscale di 2 trilioni di dollari. Le politiche keynesiane, basate sull’aumento della spesa pubblica, sulla riduzione delle tasse, sulla crescita del credito, sugli incentivi e sui piani d’investimento, sono molto diffuse. È doveroso soffermarci sulla Cina, un polo economico molto importante1, che ha varato un programma di consumi ed incentivi (BLACKBURN, 2008; BORÇA JR. e TORRES FILHO, 2008; FOLHA DE SÃO PAULO, B7, 18/01/2009 e B4 e B5, 08/02/2009). In questo contesto, è ovvia nei mercati la mancanza di capacità di regolamentare, anche se questo non significa la fine del capitalismo. I governi, che si vantano dei benefici derivati dal libero mercato, hanno nazionalizzato parte di quel sistema finanziario e hanno adottate via via delle misure protettive. L’esercitare pressioni per una maggiore regolamentazione delle finanze globalizzate è stata la soluzione per il problema del capitalismo. Alcune istituzione, come l’FMI e la Banca Mondiale, molto attive nel disciplinare le economie dei paesi poveri con l’obiettivo di difendere gli interessi dei grandi capitali, imponendo severe politiche recessive, sono paralizzate. Questo dimostra la centralizzazione degli Stati nazionali a proposito della difesa degli interessi economici. In altre parole, la crisi finanziaria ha aperto nuovi spazi alle regolamentazioni dei mercati e all’attitudine nazionalista. Gli analisti, soprattutto Fiori (2008), ha spostato l’attenzione sulla possibilità di un “Modello cinese”: nazionalizzazioni, centralità e piani con profittabilità. Comunque, la regolamentazione proposta, soprattutto quella del mercato finanziario, non colpisce gli obiettivi e gli interessi del capitale, finché la regolamentazione dei mercati è in grado di garantire la valorizzazione del capitale, ossia, supporti il sistema riorganizzandolo. In qualsiasi crisi, il capitalismo si ristruttura risolvendo, momentaneamente, le proprie contraddizioni per riporle su un piano superiore, creando le condizioni per una nuova crisi. Sebbene miliardi di dollari come capitale fittizio sotto forma di titoli siano stati bruciati dalla crescente svalutazione del loro valore, lo Stato cerca di ostacolare la liquidità di questi attivi che continuano a danneggiare il sistema. Il suo assorbimento è lento e può far cessare la crisi, così come è successo in Giappone negli ultimi due decenni. Tuttavia, permettendo una rapida liquidità dei capitali fittizi si apriranno possibilità per una crisi economica e sociale catastrofica che potrebbe intensificare le lotte di classe, creando quindi distruzione di capitale. Dall’inizio del 2009 sono stati bruciati circa 30 trilioni di dollari in titoli e azioni (DOWBOR, 2009). Questo ci suggerisce che la mancanza di valorizzazione dei capitali “spazzatura” è insufficiente per arginare la crisi, perché questa finirà solo quando i suddetti capitali non avranno valorizzazione. I 4 trilioni di dollari spesi dai governi dei paesi sviluppati con l’intento di salvare gli speculatori e il sistema stesso, è stato inadeguato. Il processo fallimentare della catena speculativa formato dai titoli statunitensi, dei fondi di investimento e pensione, non ha ancora fatto chiudere le società d’assicurazioni e le banche. I cosiddetti titoli “spazzatura” continuano a danneggiare la situazione delle banche, dei fondi d’investimento, dei fondi pensione, dei titoli e delle compagnie assicurative ma, a causa della mancanza di fondi per il capitale produttivo e per gli investimenti, anche del settore economico produttivo. Molte grandi società sono coinvolte nella speculazione e continueranno, quindi, a perdere grosse quantità di denaro. Nonostante lo spostamento di valute relative, i capitali fittizi della produzione di valore e della finanza rimangono fortemente connessi. La liquidità durante una crisi finanziaria si scontra con la crisi economica che ha cambiato la sua dinamica. Il crollo della produzione, dell’occupazione e degli investimenti alimenta la crisi che in questo modo si espande e si aggrava. Le politiche economiche di ispirazione keynesiana, adottate da molti governi, molto spesso sono una copertura per la crisi che potrebbe anche farla prolungare. Il capitalismo è sopravvissuto a gravi crisi storiche ristrutturandosi in due processi articolati tra loro. Il primo, la ri-strutturazione politica, che all’interno del nucleo del sistema, sotto l’orientamento neoliberista, ha dato il via a un processo di smantellamento dello Stato sociale. La deregulation e l’apertura commerciale e finanziaria delle economie nazionali hanno formato un’altra linea di ristrutturazione. Questi avvenimenti sono strettamente connessi alla crescente internazionalizzazione dei processi di produzione. Il secondo aspetto, ossia la ri-strutturazione del capitale produttivo e tecnologico avviene in un nuovo ordine sociale e spaziale dell’accumulazione; questa ha un ruolo fondamentale nella struttura portante della classe lavoratrice e anche nella ricomposizione dei margini di profitto. Allo stesso tempo, il capitale trova un nuovo spazio nel contesto di una feroce competizione globale, in cui può contare su un basso costo del lavoro e su alti tassi di profitto. Questa espansione è possibile solo grazie all’apertura delle economie nazionali alla diminuzione dei prezzi dei trasporti e allo sviluppo dei processi comunicativi, che permette di coordinare i gruppi transnazionali e di monitorare i processi globali di produzione. Questo riordinamento del processo del capitale sociale, spaziale e territoriale, trasferito nei segmenti regionali, coinvolgendo milioni di lavoratori asiatici, retribuisce con salari davvero bassi. Il ricollocamento spaziale dei settori industriali, soprattutto in Asia, favorito dall’incessante ricerca del valore del capitale, ha aiutato a riorganizzare il processo di accumulazine secondo “lo sforzo internazionale ad aprire nuove frontiere per l’accumulazione in modo che guadagnino peso nell’economia globale e ridisegnino lo spazio del capitalismo”. Ma tutto ciò aggrava il problema degli eccessi di capitale in tutto il mondo. Questa serie di avvenimenti in risposta alla crisi della sovrapproduzione verificatasi sin dagli inizi degli anni ‘70 e che ha assunto un aspetto strutturale, ha ricomposto il tasso di profitto che ha cambiato direzione verso la metà degli anni ‘80. Comunque, il tasso di investimenti nei paesi sviluppati, come afferma Chesnais (1998, p. 9-18), non ha seguito questa crescita e ciò indica la difficoltà di crescita del valore del capitale proprio in queste regioni e spiega in parte la sua tendenza alla decrescita. Tra le altre ragioni di questo aspetto c’è la difficoltà dei paesi centrali a competere con quelli asiatici. Nonostante il grande exploit della forza lavoro ad accumulare, “tutto ciò non produce un capitale sufficiente per creare valore e valore aggiunto” (CHESNAIS, 1998, p. 9). Il passo lento dell’accumulazione al centro del sistema contribuisce, sensibilmente, a far aumentare il surplus del capitale sotto forma di denaro che si è prodotto agli inizi degli anni ‘60. La mancanza di regole nei mercati finanziari ha creato le condizioni per una crescente autonomia del settore finanziario che sta incrementando la produzione. Il dominio del capitale finanziario ha generato una economia instabile e dinamica - basata sulle bolle speculative - che ha caratterizzato il percorso dell’accumulazione del capitale globalizzato. Tra il 1990 e il 2007, anni di ciclo di relativa espansione e di recessione, ci sono state diverse bolle speculative. Per la precisazione in quel periodo sono scoppiate sei distinte crisi: la recessione del 1990 e del 1991, la crisi in Messico nel 1994, nel Sud Est asiatico nel 1997, in Russia, Brasile e Argentina nel 1998 e nel 1999, le forti recessioni del 2001-2002 e la bolla finanziaria del 2007. D’altra parte, è stato fondato, come risultato della ristrutturazione capitalista, un nuovo polo di accumulazione economica proprio in Asia, che però è ancora subordinato alla dinamica finanziaria del capitale egemonico del sistema centrale, così come è reso evidente dalla crisi 1997. Benché subordinato al capitale finanziario, questo polo dinamico viene sostenuto dalle economie capitaliste nazionali e dimostra un forte potenziale per superare questa sottomissione. Tuttavia il centro del capitalismo rimane l’economia degli Stati Uniti. La sua grave mancanza di stabilità, soprattutto per quanto riguarda i conti esteri, accresce la sua espansione e il suo recedere. Gli Stati Uniti riescono sistematicamente ad aumentare il loro deficit nelle transazioni, poiché il resto del mondo, ma soprattutto i paesi asiatici, sono disposti a finanziarli. Quest’ultimi fanno così per il loro stesso interesse ad espandere le proprie esportazioni, fatto questo che implica supporto per il consumo in eccesso degli statunitensi, e per la mancanza di opzioni per mantenere le loro riserve dell’attivo patrimoniale; non c’è un’altra via per la libera circolazione dei capitali a livello internazionale anche perché l’oro viene svalutato. Adottando questa politica, si contribuisce, da una parte, a mantenere svalutata la moneta corrente e, dall’altra, a stabilizzare l’economia statunitense, permettendo agli Stati Uniti di intraprendere una politica espansionistica che favorisca l’economia e la produzione interna. Quindi, esiste una sorta di relazione simbiotica tra le economie degli Stati Uniti e dell’Asia (BELLUZZO, 2005, BRENNER, 2006). L’egemonia statunitense all’interno del libero mercato viene messa sempre più in discussione proprio in questo periodo di crisi. Tuttavia, la stessa crisi apre nuove opportunità per riconfigurare l’economia mondiale e l’espansione del capitalismo. Uno dei risultati possibili della crisi potrebbe spostare il centro del capitalismo verso l’Asia, in particolar modo in Cina. Questo significa che la Cina sembrerebbe praticamente immune dalla crisi, e ciò proprio per il suo enorme mercato interno e la forza e il controllo che lo Stato ha sull’economia. Il Governo ha annunciato misure atte a stimolare il consumo e gli investimenti. Ma, non è chiaro fino a qui l’effettività di queste misure. Ma il peso considerevole dell’attività d’esportazione rende la Cina vulnerabile a causa della crisi. La riduzione delle esportazioni, che provoca un processo di sovre produzione, accompagnata alla riduzione dell’occupazione e degli investimenti, bloccano i nuovi investimenti esteri con effetti deleteri su tutta l’economia mondiale, effetti che non possono essere arginati dalle misure adottate dai vari governi occidentali, contribuendo in questo modo alla crescita della sovrapproduzione non solo in Cina ma su scala globale. La riduzione della crescita economica cinese potrebbe aggravare i problemi sociali all’interno del paese e ritardare una ripresa dell’economia mondiale. Comunque, la nuova frontiera dell’accumulazione capitalista, a partire dalle potenzialità di mercato in Cina, è in grado di guadagnare ulteriore autonomia. La Cina, che sta vivendo particolare fase di transizione dell’economia di mercato sotto controllo governativo, può superare la crisi reindirizzando l’economia del mercato interno, misura che sarebbe seguita anche da molti altri paesi. Lo spostamento del centro capitalistico verso l’Asia, così come afferma Arrighi (1996), potrebbe accentuarsi. Ma la Cina, o qualsiasi altro paese della regione, sembra non avere le condizioni per diventare, in breve tempo, uno nuovo centro di potere, poiché questo non dipende solo dalla gravità della crisi economica ma anche dall’aspetto politico, ideologico e militare. Il modello cinese sembra proprio non entusiasmare le masse oppresse e sembra non curarsi della gravissima crisi ecologica, rendendo questo uno dei problemi più grandi da affrontare. Infatti è fondato su un modello industriale distruttivo. Quindi, una delle possibilità è quella di andare verso, come dice Harvey (2009), un mondo capitalista multipolare, in termini di egemonia politica. Tuttavia, la maggior parte della popolazione mondiale vive in situazioni drammatiche e il socialismo come sistema mondiale appare oggi come un’effettiva e realte necessità storica; non solo però si deve considerare la concretezza di condizioni oggettive quanto le forze sociali e le soggettività che abbiano la capacità di sostenere questa nuova proposta socialista. Infine, la grave crisi strutturale del capitalismo ci pone davanti una serie di questioni su cui non sono ancora state formulate delle risposte. Come ci ha detto Marx, la storia è un campo di possibilità determinate dall’eredità passata.

1. I Paesi dell’Asia orientale, in particolar modo la Cina, l’India e la Corea del Sud, hanno presentato nell’ultima decade una grande crescita, mentre l’intera economia mondiale presenta una bassa crescita fino agli inizi del 2003, periodo caratterizzato da una tendenza in aumento (Corsi, 2008). Il valore di questi paesi all’interno dell’economia mondiale sta crescendo sempre di più e questo ci suggerisce un graduale spostamento del centro del capitalismo verso l’Asia (Arrighi, 1996). Questo processo è diventato chiaro con la recente espansione (2003-2007), quando, in modo diverso dal passato, lo sviluppo economico concentrato è avvenuto proprio nei paesi in via di sviluppo, soprattutto in Cina.

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