Per una comprensione dell’attuale sistema di sfruttamento capitalista

ESTEBAN MORALES DOMINGUEZ

Nel suo libro, il professor William Robinson si è riferito alla crisi globale come ad un contesto economico e politico più ampio.1 Il capitalismo attraversa una crisi globale, sono d’accordo con questa tesi. Per tale motivo voglio illustrare la mia visione circa l’attuale Sistema Capitalista Mondiale, considerando al contempo l’apporto dell’economia statunitense a tale situazione, che si può e si deve descrivere globalmente. Attualmente quella nord-americana è un’economia globale transnazionalizzata che contribuisce alla creazione di basi e di fattori originali per una crisi finanziaria destinata a minacciare le stesse fondamenta del sistema. Questa sarà la pesante sfida per colui che assumerà la presidenza, all’inizio di gennaio del 2009, soprattutto per le difficoltà che oggi si presentano per l’egemonia degli Stati Uniti nell’ambito di un’economia globale, che si è fatta ancor più aggressivamente competitiva e che conta su tanti più attori di quelli che saremmo riusciti ad immaginare negli anni Ottanta.2 Nondimeno, quanto appena detto non impedisce che vi sia un piano di analisi corrispondente all’economia intesa come domestica, né che la transnazionalizzazione globalizzata coinvolga tutto in modo assoluto. Per tale motivo, credo che non dobbiamo tralasciare nessun dettaglio. A mio avviso, tra i più importanti:
  La transnazionalizzazione dell’economia capitalista globalizzata è il risultato, nella fase iniziale, di un processo di concentrazione e centralizzazione del capitale e della produzione che, nascendo nei contesti nazionali di un ridotto gruppo di paesi capitalisti più sviluppati tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo - come ebbe a sottolineare V.I. Lenin -, ora lo supera drammaticamente, imponendo la sua logica all’economia interna senza però farla sparire; la sottopone alla transnazionalità globalizzata, ma in continua contraddizione con quanto quei processi ancora racchiudono per un contesto nazionale. Contraddizioni che si esprimono nella necessità di comprendere e di agire globalmente, coordinando nello stesso tempo le politiche economiche e quelle di altra natura all’interno di questo mondo globalizzato.3
  Quando si parla del fenomeno della transnazionalizzazione, nasce spontaneo l’interrogativo: che cosa è e come si pone nel funzionamento del capitalismo attuale? Da qui emerge il concetto che abbiamo denominato “Meccanismi di Trasmissione” che risale alla formazione del mercato mondiale, ma che si sviluppò, con particolare forza, dopo la Seconda Guerra Mondiale. È che lo sviluppo del mercato mondiale, insieme alla straordinaria crescita del commercio di beni e dell’esportazione dei capitali, oltre allo sviluppo dei mezzi di trasporto e di comunicazione, avvicinano definitivamente le diverse economie, attirandole sempre più all’interno della cornice di un’economia mondiale globalizzata. Come risultato di tutto ciò, il commercio, l’esportazione dei capitali, lo scambio tecnologico, il sistema monetario che più tardi sarebbe emerso e il commercio internazionale di armamenti, insieme alla formazione dei monopoli multinazionali e delle Organizzazioni Economiche Internazionali si convertirono in meccanismi di trasmissione degli impulsi ciclici di quelle economie capitaliste che hanno guidato economicamente il mondo verso il resto dell’economia mondiale, comprese esse stesse.
  Analogamente, esiste la tendenza all’esistenza di uno Stato globale Transnazionale e di una Classe Transnazionale corrispondente al processo di transnazionalizzazione globalizzata, sebbene ciò non impedisca l’esistenza dello Stato Nazionale con classi e sottoclassi interne che esistono e agiscono, ma le cui dinamiche non possono essere spiegate solo, né principalmente, a partire dal nazionale. Così come il commercio di beni oggi non può essere spiegato, né compreso prescindendo l’esportazione di capitali e tutta la dinamica finanziaria, tanto meno l’economia interna militarizzata può essere spiegata senza parlare dell’economia militare transnazionale globalizzata, poiché il cosiddetto Complesso Militare Industriale è un sottosistema economico-militarista globale transnazionalizzato che ha la sua fondamentale matrice all’interno del Sistema Politico statunitense, fenomeno da cui la dinamica ciclica dell’economia statunitense non può prescindere. A questo livello anche le decisioni sono transnazionali e da queste ognuno degli attori cerca di ricavarne il maggior profitto. Il fatto è che sebbene tali coordinamenti esistano, essi non impediscono una spietata concorrenza tra le potenze imperialiste. Il contrario sarebbe supporre un collettivismo, all’interno dell’attuale sistema capitalista imperialista, che è però solo pura retorica. Che “le democrazie non si fanno reciprocamente guerra” è vero, perché le differenze esistono: - a un livello transnazionale unico, la transnazionalizzazione globalizzata genera un fenomeno di predominio e non di omogeneizzazione dell’economia capitalista. Si tratta a sua volta di un fenomeno dominante, ma non omogeneo né assoluto; - il capitalismo non omogeneizza i livelli di sviluppo, ma li sussume, subordinando tutta l’economia mondiale alle sue forme più sviluppate; nonostante ciò esso continua a lavorare con quelle che potremmo chiamare forme primitive dell’economia mondiale e domestica, subordinandole tutte alla logica del mercato transnazionale globalizzato e utilizzandole all’interno di un sistema di sfruttamento che genera e alimenta la differenziazione e lo sviluppo diseguale. Tutto ciò è il risultato e la condizione della sopravvivenza del capitalismo come regime di sfruttamento, poiché, come ha detto il padre del neoliberismo Frederick Hayek, il capitalismo ha bisogno delle differenziazioni e della povertà; ed io aggiungerei, allo stesso modo ha bisogno della disoccupazione e del lavoro flessibile.

Karl Marx ha ampiamente dimostrato che il cosiddetto Esercito Industriale di Riserva era necessario al capitalismo. Ancor di più, il capitalismo, come risultato dell’usufrutto degli anticipi della rivoluzione tecnico-scientifica, si avvale di un largo esercito di lavoratori precari.4 Se il capitalismo omologasse i livelli di sviluppo, diremmo, al di là dei gusti e delle considerazioni politico-ideologiche, di poter essere felici, perché in quel caso non ci sarebbero paesi che producono all’interno del nuovo paradigma tecnologico, mentre altri continuano a farlo come nell’epoca primitiva. Quindi la ricchezza non dovrebbe concentrarsi a livello nazionale e mondiale, come invece avviene (solo negli Stati Uniti, il 10% della popolazione detiene il 75,4% della ricchezza); quindi non ci sarebbero diversi livelli di sviluppo dentro il sistema capitalista di economia mondiale transnazionale globalizzata; e non ci sarebbe una base tanto vasta e crescente di sfruttamento transnazionale globalizzato. Allo stesso modo la povertà e l’abbandono sociale non aumenterebbero come fanno costantemente. È solo esigendo tutto ciò che il problema dello sviluppo può essere compreso e trattato, più che come un aspetto economico, prioritariamente come una questione sociale. Il capitalismo nei paesi sviluppati crea aristocrazia operaia, ma crea anche terzi mondi, riproducendo a livello interno la stessa situazione che produce a livello del sistema globale transnazionale. Basta solo ricordare le periferie di molte delle grandi città degli Stati Uniti. Nelle economie più ricche del mondo ci sono persone che vivono senza aver nulla da invidiare, in termini di povertà, a quelli che vivono nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. A sua volta, ci sono città del Terzo Mondo dove la gente vive come si vive nei paesi più ricchi. Un tempo solo i poveri erano isolati nelle loro favelas e nei quartieri periferici; oggi sono i ricchi coloro che si isolano, si murano nei quartieri, non importa in quale luogo del mondo, se a New York, Haiti o in Bangladesh, ovunque si vive come in una rivista di moda. Come considerare allora quei fenomeni con le loro implicazioni politiche per la lotta contro l’imperialismo, che nella sostanza credo debba essere una lotta anticapitalista? Oggi l’economia capitalista non può essere intesa se non come un’economia globale transnazionalizzata, che è un concetto di grande importanza. Dal canto mio aggiungerei il fatto che questa economia agisce come una grande piramide di sfruttamento, in cima alla quale vi sono i sette grandi (con le loro differenze interne, con le loro enclaves interne di povertà). Ovviamente, non è la stessa cosa essere povero a New York, in Burkina Faso o ad Haiti. Nel gradino più in basso si trovano i paesi che compongono la OCDE (Organizzazione delle Economie Capitaliste Sviluppate); ancor più giù, paesi come la Cina e la Russia, che spingono per raggiungere l’apice. Alla base del triangolo, molto ampia, vi sono paesi come il Brasile, il Cile, l’Argentina i cui livelli di sviluppo li differenziano dal resto dei paesi dell’area geo-economica che condividono. In fondo, alla base della piramide triangolare, si trova l’immensa maggioranza, in cui vi sono alcuni paesi che godono, a volte, di vantaggi circostanziali; un esempio è il caso del Venezuela con il petrolio, che però, come nazione, ha grandi dislivelli interni di sviluppo. Questo è il modo in cui si esprime il carattere transnazionale globalizzato dell’economia capitalista contemporanea, come una grande piramide triangolare, che giace su di un’ampia base neocoloniale di sfruttamento; come un Sistema Piramidale di Cerchi Concentrici di Sfruttamento e di Potere che, di certo, ci permette di comprendere le contraddizioni attuali di un capitalismo caratterizzato, come Karl Marx aveva preannunciato, da uno sviluppo ciclico e bipolare in base al quale accumula continuamente ricchezza in un polo, mentre concentra povertà nell’altro. Poli che non sono tali come nella geografia; non si tratta di poli geografici semplici e concentrati, ma di differenziazione sociale e di classe che si trova praticamente in tutti i paesi del mondo, che divide gli esseri umani in ricchi e poveri, in possidenti e diseredati, in sfruttatori e sfruttati, benché questo sfruttamento dipenda dal livello di sviluppo del paese in cui si è sfruttati, o del settore sociale a cui si appartiene nel paese di emigrazione. In generale, non è la stessa cosa essere algerino in Francia, o giapponese negli Stati Uniti, o tedesco in Inghilterra, o nordamericano nella Repubblica Dominicana, o francese in Costa d’Avorio. Ritengo, quindi, che tenere in considerazione queste differenze ci aiuti a comprendere come avvengono le crisi alimentari, ambientali, chi sono coloro che nella realtà le subiscono e quali sono le pressioni esercitate sui paesi esportatori di petrolio (caso particolare della problematica dei prodotti primari ed esperienza che non si è ripetuta per nessuna altra merce). Una tale situazione ci permette di comprendere come grandi masse di lavoratori subiranno gli impatti dell’attuale crisi globale, indipendentemente dal fatto che vivano nei centri del capitalismo sviluppati o, peggio ancora, che vivano in quelli in via di sviluppo. Le élites capitaliste transnazionali, che formano l’apice della struttura di potere transnazionale globalizzato, non si sono proposte, né si proporranno di risolvere quelle situazioni per il motivo che questa è la base stessa del loro sistema di sfruttamento transnazionale globale. Al massimo quelle élites si potrebbero vedere obbligate a “modernizzarsi” un po’, a trattare di mobilitare un po’ della ricchezza accumulata verso il basso, costantemente sotto la minaccia di perdere tutto. Questo è quanto dicono alcuni “ideologi illuminati” della élite transnazionale. Nella realtà però sono i popoli che devono fermare questo sistema di sfruttamento; non sono certo le élites del potere globale transnazionalizzato a metterlo in pericolo. Al contrario, dobbiamo essere preparati, come adesso, affinché nel suo processo di distruzione il capitalismo non ci trascini tutti verso la sepoltura.

1. Mi riferisco al testo di William Robinson, Una teoria sobre el capitalismo global: producion, clases y estado en un mundo transnacional, Ediciones Desde Abajo, Bogotá, giugno 2007. 2. A questo si aggiunge la crisi finanziaria e quella dell’economia reale che oggi colpisce il sistema capitalista e l’economia statunitense attuale, come sua principale causa scatenante. 3. Una tale situazione si rende chiaramente manifesta quando, da un lato, tutte le economie sviluppate si trovano coinvolte nella crisi nord-americana e quando gli Stati Uniti si vedono obbligati a sollecitare la collaborazione dei loro alleati-competitori. 4. Lo sviluppo tecnico-scientifico permette al capitalismo la cosiddetta flessibilità lavorativa. Cfr. Joaquin Arriola y Luciano Vasapollo, Flexibles y Precarios: la opresion del trabajo en el nuevo capitalismo europeo, Ediciones el Viejo Topo, España, 2003.