Il lavoro, le regole, i diritti, i referendum

Arturo Salerni

Laura De Rose

1. Una stagione complessa un attacco in profondità

Una ricognizione delle questioni che riguardano il diritto del lavoro non può sottrarsi oggi dai temi dell’attualità politica. Mancano infatti meno di due mesi al 21 maggio, ovvero alla data fissata dal governo per lo svolgimento della prova referendaria del 2000.

Il millennio doveva aprirsi con un numero molto più cospicuo di quesiti abrogativi sottoposti all’attenzione - ed alla richiesta di approvazione - del corpo elettorale.

Come sappiamo la Corte Costituzionale ha ridotto il numero dei quesiti, che sono quindi ridotti a sette.

Va ricordato che la Federazione delle Rappresentanze Sindacali di Base, l’Associazione Progetto Diritti ed il C.R.E.D. si sono costituiti in giudizio - avanti la Corte Costituzionale - per chiedere di dichiarare inammissibili i referendum sulla liberalizzazione “tout court” dei contratti di lavoro a tempo determinato ed a tempo parziale oltre che quello sull’abrogazione dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori.

Si trattava di ventuno referendum su questioni diverse e che investivano diverse sfere della nostra vita politica e sociale. Ricordarli separatamente non è inutile perché il loro insieme evidenzia una filosofia globale che non può dirsi certo confinata ai soli promotori (ovvero nella maggior parte dei casi la sola compagine di Pannella e Bonino, tutto sommato una piccola pattuglia di incursori, sia pur premiata dal clamoroso - ma non si può dire quanto duraturo - successo elettorale in occasione del rinnovo del Parlamento Europeo del 1999).

 

2) Si è partiti da ventuno referendum

Il primo gruppo di referendum, come è noto, investiva la materia del lavoro e dei diritti dei lavoratori. La filosofia che muoveva (e muove) i promotori - sostenuti da un gruppo nutrito di imprenditori - è quella della necessità di liberare il lavoro (anzi la gestione del lavoro da parte delle imprese) da quella serie di “lacci e lacciuoli” che irrigidendo il rapporto con la manodopera impediscono il decollo delle imprese, e quindi la ripresa dell’occupazione. Da un lato l’attacco ai diritti classici dei lavoratori, dall’altro l’attenzione rivolta al superamento della concertazione con le tradizionali confederazioni sindacali, concertazione che ha caratterizzato la politica economica, industriale ed occupazionale in gran parte degli anni novanta (dalla finanziaria “lacrime e sangue” del governo Amato all’ingresso nella moneta unica del governo Prodi). La designazione di D’Amato alla guida della Confindustria appare alla maggior parte degli analisti rivolta al perseguimento di una analoga strategia (oltre ad esprimere un mutato rapporto di forza tra i diversi settori del padronato).

Flessibilità in ingresso ed in uscita, attaccando la rigidità del lavoro, guardando alla diversificazione sempre maggiore delle tipologie dei contratti di contratti di lavoro e mirando alla fluidità nella risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro, questa la filosofia dei promotori.

 

3) L’art.18 dello statuto dei lavoratori

In questa strategia spiccava - anche per l’alto valore simbolico - il referendum lasciato in piedi dalla Corte Costituzionale, quello mirante all’abrogazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Il testo dell’articolo 18 della legge 20 maggio 1970 n.300 (“Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”) - così come modificato dalla legge 11 maggio 1990 n. 108 - testualmente recita: “Ferma restando l’esperibilità delle procedure previste dall’art.7 della legge 15 luglio 1966, n. 604 [ovvero la procedura per il tentativo di conciliazione prevista dai contratti collettivi o da esperire presso l’Ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione] il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell’art.2 della predetta legge [dell’inefficacia del licenziamento parleremo in seguito] annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell’ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di quindici dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro.

Ai fini del computo del numero dei prestatori di lavoro di cui al primo comma si tiene conto anche dei lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale, per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all’orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta ed in linea collaterale.

Il computo dei limiti occupazionali di cui al secondo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie.

Il giudice con la sentenza di cui al primo comma condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l’inefficacia o l’invalidità stabilendo un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione; in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto.

Fermo restando il diritto al risarcimento del danno così come previsto al quarto comma, al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto. Qualora il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell’invito del datore di lavoro non abbia ripreso il servizio, né abbia richiesto entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza il pagamento dell’indennità di cui al presente comma, il rapporto di lavoro si intende risolto nello spirare dei termini predetti.

La sentenza pronunciata nel giudizio di cui al primo comma - provvisoriamente esecutiva.

Nell’ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all’art.22 [ovvero dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali], su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui questo aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.

[Seguono nei due commi successivi alcune disposizioni di carattere processuale, relative al giudizio di impugnazione del licenziamento del dirigente della r.s.a.].

Nell’ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all’art.22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero all’ordinanza [...] è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore”.

Parleremo in seguito del contesto normativo - ovvero dell’insieme della disciplina sui licenziamenti - in cui questa norma fondamentale si inserisce.

 

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4) Flessibilità del lavoro e quesiti referendari

Il secondo referendum sulle questioni del lavoro - non ammesso dalla Corte Costituzionale - investiva in alcune parti il recente decreto legislativo 469 del 23 dicembre 1997, recante “Conferimento alle regioni e agli enti locali di funzioni e compiti in materia di mercato del lavoro”, decreto emesso in attuazione delle previsioni contenute nella cd. legge Bassanini (la numero 59 del 1997).

Esso nella sostanza mirava alla piena liberalizzazione delle funzioni del collocamento della manodopera e ad eliminare alcuni limiti posti dalla nuova normativa (che ha realizzato il definitivo superamento della gestione necessariamente pubblica del collocamento) in ordine alla regolamentazione dell’attività privata di mediazione tra domanda ed offerta di lavoro (per esempio la previsione che l’attività di collocamento debba essere esercitata a titolo gratuito nei confronti dei lavoratori). La Corte non ha ritenuto di ammettere il quesito referendario “poiché con esso si chiede l’abrogazione di più norme non omogenee tra loro, nei confronti delle quali l’elettore deve essere lasciato libero di esprimere valutazioni autonome e anche potenzialmente divergenti”.

Il referendum sull’abolizione dei vincoli relativi al contratto di lavoro a tempo parziale (part-time), ovvero relativo all’abrogazione di alcune norme contenute nell’art.5 della legge n. 863 del 1984 e successive modificazioni (dell’89 e del 1996), è stato giudicato inammissibile dalla Corte Costituzionale perché l’approvazione del quesito determinerebbe “l’eliminazione pura e semplice della tutela contenuta nella vigente disciplina specifica del rapporto di lavoro a tempo parziale, così da porre in essere una situazione tale da far sorgere la responsabilità dello Stato italiano per inadempimento di uno specifico obbligo comunitario”.

Per contrasto con la direttiva 1999/70/CE del Consiglio dell’Unione Europea - ed in particolare perché la richiesta abrogazione “comporterebbe non una mera modifica della tutela richiesta dalla direttiva, ma una radicale carenza di garanzie in frontale contrasto con la lettera e lo spirito della direttiva suddetta, che neppure nel suo contenuto minimo essenziale risulterebbe più rispettata” - è stato dichiarato inammissibile il referendum per l’abrogazione delle norme che regolano il rapporto a tempo determinato.

Si mirava, in particolare, a superare la previsione contenuta nell’art.1 della legge 230 del 1962 per cui, salva una serie di eccezioni (che i legislatori degli anni ottanta e degli anni novanta hanno aumentato a dismisura), “il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato”, la possibilità di conversione di tale rapporto in rapporto di lavoro a tempo indeterminato (per violazione delle condizioni previste dalla legge), e tutta una serie di norme poste a tutela del lavoratore a tempo determinato (ad esempio quella che prevede la validità dell’apposizione del termine solo in presenza di atto scritto o quella relativa alla limitata possibilità di proroga con automatica trasformazione del rapporto in contratto a tempo indeterminato qualora il lavoro continui decorso un certo periodo dalla scadenza del termine).

L’ultimo referendum - non ammesso a seguito della sentenza n. 50/2000 della Corte Costituzionali- in materia di rapporti di lavoro era relativo a diverse parti della legge n. 877 del 1973, relativa alla tutela del lavoro a domicilio. Tra tali norme vanno richiamate quelle che prevedono il divieto di affidamento per un determinato periodo di lavoro a domicilio per aziende interessate da processi ristrutturativi che comportino riduzioni del personale, l’impossibilità di iscrizione all’apposito registro nell’ipotesi in cui “la richiesta di lavoro da eseguirsi a domicilio viene fatta a seguito di cessione - a qualsiasi titolo - di macchinari e attrezzature trasferite fuori dell’azienda richiedente e che questa intenda in tal modo proseguire lavorazioni per le quali aveva organizzato propri reparti con lavoratori da essa dipendenti”, il divieto di utilizzare intermediari, le funzioni pubbliche di controllo del lavoro a domicilio, le disposizioni in tema di assicurazioni sociali e assegni familiari per i lavoratori a domicilio, il sistema di sanzioni penali ed amministrative per coloro che contravvengono alle disposizioni in materia.

La Corte ritiene che l’abrogazione tout court di norme di tutela del lavoratore (“dirette a rendere effettivo un diritto fondamentale della persona”) determinerebbe una palese violazione dell’art.35 della Costituzione.

 

5) Stato sociale e referendum

Un’altra serie di quesiti era relativa a rilevanti questioni di carattere sociale ed andava sempre nel senso di una sfrenata deregolamentazione e liberalizzazione.

Il quesito mirante all’abrogazione di una serie di disposizioni contenute nel Testo unico in materia di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e di altre norme in materia era di fatto diretto all’eliminazione di ogni ostacolo normativo all’affermazione di un sistema concorrenziale nella materia previdenziale - ovvero, come sostenuto dai promotori, al superamento del monopolio INAIL - è stato giudicato inammissibile dalla Corte Costituzionale.

Afferma la Corte Costituzionale nella sentenza n.34 del 2000 (redattore il giudice costituzionale Santosuosso): “La materia oggetto della presente proposta referendaria impone un previo richiamo all’art.38 della Costituzione: il secondo comma di tale articolo, infatti, garantisce ai lavoratori il diritto “che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita” anche in caso di infortunio o malattia professionale, mentre dal quarto comma deriva l’obbligo che gli obiettivi di tutela previdenziale indicati nell’articolo stesso vengano conseguiti mediante l’intervento di “organi ed istituti predisposti dallo Stato”. Il carattere pubblicistico dell’assicurazione in esame, ravvisabile già in queste disposizioni, informa anche la peculiarità dell’attuale sistema normativo. [....] L’utile di impresa è un “fattore estraneo” alle assicurazioni sociali, la cui funzione è invece esclusivamente quella di “garantire ai beneficiari la sicurezza del soddisfacimento delle necessità di vita”. Ciò confermato da una serie di disposizioni, quali quella dell’obbligo dell’INAIL di pagare le rendite in modo automatico ed indipendentemente dalla regolarità dei versamenti contributivi; quella della suddivisione dell’onere economico complessivo, che grava in gran parte su di un’ampia platea di datori di lavoro, e solo in misura minima sui lavoratori; e quella relativa all’esercizio dell’assicurazione con forme di assistenza e di servizio sociale. [...] La norma costituzionale lascia piena libertà allo Stato di scegliere i modi, le forme, le strutture organizzative ritenute più idonee ed efficienti allo scopo, sempre che la scelta degli stessi sia tale da costituire piena garanzia, per i lavoratori, al conseguimento delle previdenze alle quali hanno diritto, senza dar vita a squilibri e sperequazioni. [...] Nel presente caso lo strumento referendario appare inidoneo a raggiungere il menzionato fine dei proponenti così come oggettivato nel quesito, dal momento che il medesimo non è suscettibile di essere conseguito per via di semplice abrogazione parziale della normativa esistente, ma richiederebbe una complessa operazione legislativa di trasformazione di tale assetto. Quest’ultimo, infatti, è essenzialmente informato, come si è detto, ai ben diversi criteri della gestione pubblicistica, della copertura generale ed indipendente dall’effettivo pagamento dei contributi, e del finanziamento mediante somme fissate in modo autoritativo, al fine di assicurare il complessivo equilibrio del sistema. Basti rilevare, in proposito, che il principio di automaticità delle prestazioni - punto essenziale dell’attuale disciplina - non è di per sé compatibile con un regime nel quale la copertura assicurativa venga affidata alla libera contrattazione fra singoli datori di lavoro e compagnie private operanti in regime di libera concorrenza, quanto meno senza l’introduzione di ulteriori meccanismi di garanzia, cui solo il legislatore potrebbe dar vita. In definitiva agli elettori verrebbe proposta una falsa alternativa che, impedendo loro di conseguire realmente l’obiettivo annunciato - di assicurare, cioè, in diverso sistema pluralistico compatibile con i principi della permanente e generalizzata soddisfazione dei diritti garantiti in modo indefettibile dalla Costituzione - si riverbera sulla stessa possibilità di esprimere correttamente il proprio voto, traducendosi quindi nell’inammissibilità del referendum.

Parimenti inammissibile è stato dichiarato il referendum denominato “Servizio sanitario nazionale: Abolizione dell’obbligo di iscrizione al Servizio per l’assicurazione obbligatoria contro le malattie. Libertà di scegliere tra Servizio e assistenza privata”, sostenendo la Corte Costituzionale che, in relazione alla formulazione del quesito, “manca la possibilità per gli elettori di esprimere un voto referendario consapevole dei suoi effetti normativi” e che il quesito ha “una funzione esclusivamente propositiva, estranea all’istituto del referendum per la abrogazione totale o parziale di una legge, quale è previsto dall’art.75 della Costituzione”.

Si sostiene da parte della Corte Costituzionale (sentenza n. 37/2000) - per pervenire alla declaratoria di inammissibilità - che non avrebbe effettiva portata abrogativa il quesito referendario in tema di pensioni di anzianità (e cioè che la formulazione tecnica del quesito non porterebbe comunque ai risultati voluti dai promotori, ovvero l’abolizione di ciò che resta delle pensioni di anzianità dopo le riforme Amato e Dini).

Con altra sentenza viene dichiarata l’inammissibilità del referendum in tema di abolizione della ritenuta di acconto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche per prestazioni sia di lavoro dipendente sia di lavoro autonomo, in quanto trattasi di disposizioni riconducibili alle “leggi tributarie” per le quali l’art.75 della Costituzione esclude la possibilità di abrogazione per via referendaria. Afferma infatti la Corte che nella dizione “leggi tributarie” rientrano “sia le norme che riguardano il momento costitutivo dell’imposizione sia quelle che disciplinano gli aspetti dinamici del rapporto, e cioè il suo svolgimento nell’accertamento e nell’applicazione del tributo con la riscossione dello stesso”.

Viene ammesso il referendum relativo - secondo la dizione adottata dai promotori - alle “Trattenute associative e sindacali tramite gli enti previdenziali”, con il quale cioè si chiede l’abrogazione della legge 4 giugno 1973, n. 311.

Sulla portata abrogativa di tale normativa per la verità si discute molto, e con diverse opinioni. La stessa Corte Costituzionale, nella sentenza n. 39/2000, fa riferimento ad altre disposizioni in materia - riguardanti diverse tipologie di trattenute sindacali operate da enti previdenziali - che non verrebbero eliminate dall’eventuale approvazione del quesito. Carlo Ghezzi (segretario confederale CGIL) sul Manifesto del 4.3.2000 si spinge a dire che sulle deleghe i radicali hanno completamente sbagliato legge, in quanto “la legge 311/1973 è utilizzata per le trattenute alle associazioni datoriali, in particolare è utilizzata per le quote di servizio, per quei contributi cioè che vengono pagati alle associazioni sociali da tutti, iscritti e non iscritti, a fronte di servizi vari o presunti forniti a tutta la categoria”.

Ma al di là di questa e di altre interpretazioni in una materia resa incerta da un insieme ingarbugliato di norme e di consuetudini, non si può neanche escludere che la materia possa essere disciplinata con un accordo sindacale, e portare quindi all’ “effetto truffa” (forse voluto dai promotori e da occulti sostenitori) per cui all’abrogazione referendaria della norma dello Statuto dei Lavoratori sulle ritenute sindacali è seguito il fatto che i sindacati firmatari di accordi collettivi (proprio quei soggetti contro cui si scagliavano le inferocite truppe radicali) grazie alle previsioni contrattuali continuano a percepire le ritenute e - quantomeno nel settore privato - nuovi soggetti sindacali, per lo più conflittuali e di base, vengono strangolati dall’impossibilità di ottenere i contributi volontariamente offerti dai propri aderenti a mezzo del semplice strumento della trattenuta sulla busta paga (che peraltro è anche - o potrebbe anche essere - un agile indice misuratore di effettiva rappresentatività).

Non è stato invece ammesso il quesito denominato dai promotori “Istituti di patronato e di assistenza sociale: abolizione della disciplina speciale e del finanziamento pubblico”, rivolto all’abrogazione del decreto legislativo del Capo Provvisorio dello Stato n. 804 del 1947 sul riconoscimento giuridico dei patronati. Il ragionamento seguito dalla Corte (redattore Zagrebelsky) è in grandi linee il seguente: gli istituti di patronato - seppur di fatto attualmente emanazioni di associazioni sindacali - mantengono una connotazione pubblicistica, con riferimento alla loro funzione e ad alcune modalità di azione (ad esempio, gratuità delle prestazioni e disponibilità da parte della generalità dei lavoratori); l’art.38 della Costituzione sul diritto dei lavoratori alla previdenza ed assistenza “presenta necessariamente, accanto all’aspetto sostanziale, anche un aspetto procedimentale, tanto più rilevante in quanto si tratta di diritti previsti in relazioni a condizioni di difficoltà, e quindi di debolezza, che possono realizzarsi nella vita dei lavoratori, la cui effettività si scontra con la farraginosa complessità del sistema previdenziale attuale”; l’art.38 quarto comma Cost. esige una specifica organizzazione per le prestazioni previdenziali (“organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato”); “deve quindi trovare applicazione, nella specie, il criterio di giudizio [...] il quale esclude l’ammissibilità del referendum abrogativo di disposizioni che non possono essere soppresse senza con ciò ledere principi costituzionali”.

 

6. Istituzioni e giustizia

Come è noto è stato ammesso il referendum mirante all’eliminazione del metodo proporzionale di elezione di una quota del venticinque per cento dei componenti della Camera dei Deputati. Si tratta della riproposizione del referendum reso invalido per mancato raggiungimento del quorum di partecipazione al voto il 18 aprile 1999, e mirante all’instaurazione di un sistema elettorale esclusivamente maggioritario ed uninominale, ad un turno.

Le ragioni di opposizione alle tesi dei promotori sono note: si tratta tra le altre cose di difendere il poco che resta di rappresentanza politico-parlamentare degli interessi e delle posizioni che non si identificano negli schieramenti maggiori e l’effettività del pluralismo politico. Tralatro, come molti osservatori hanno rilevato, la vittoria del referendum elettorale - attraverso la tecnica dell’abrogazione parziale - determinerebbe tali e tante incongruenze ed illogicità da condurre ad effetti aberranti.

Unitamente al referendum in materia elettorale è stato considerato ammissibile quello sull’attuale normativa in materia di finanziamento pubblico dei partiti.

Tra i referendum sul tema della giustizia sono stati ammessi quello sugli incarichi extragiudiziari dei magistrati, mirante all’abolizione della possibilità per i magistrati di assumere incarichi al di là delle loro attività giudiziarie, quello sull’elezione del Consiglio Superiore della Magistratura, e mirante all’abrogazione dell’attuale sistema elettorale con metodo proporzionale per liste contrapposte dei magistrati componenti del C.S.M., quello relativo all’ordinamento giudiziario ed alla separazione delle carriere tra magistrati giudicanti ed inquirenti.

Non sono stati invece ritenuti ammissibili - a vario titolo - dalle pronunzie della Corte Costituzionale i referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, sulle norme relative alla perentorietà o meno dei termini processuali sia in sede civile che penale, e quello mirante al contenimento dei termini massimi di custodia cautelare.

Parimenti non sono stati ammessi - e per diversi motivi - il referendum sull’abolizione del carattere di corpo militare della Guardia di Finanza e quello - promosso dalla Lega Nord - di carattere xenofobo e mirante all’abrogazione dell’attuale normativa in tema di immigrazione(anche su tale quesito vi è stata la costituzione dell’Associazione Progetto Diritti e di altre associazioni, e su tale intervento la Corte Costituzionale ha assunto l’importante decisione di ammettere la partecipazione al giudizio di ammissibilità dei referendum soggetti portatori di interessi collettivi e diversi dai Comitati promotori dei referendum abrogativi.)

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7. Ed ora il 21 maggio

L’insiemedellequestioni sottoposte al corpo elettorale evidenzia la gravità dell’attacco a fondamentali conquiste sociali e democratiche (il diritto alla reintegrazione del lavoratore ingiustamente licenziato, il diritto alla rappresentanza politica, l’indipendenza della magistratura). E’ una battaglia su più fronti che non si può perdere.

L’ipotesi che - sulla base della precedente esperienza del 18 aprile 1999, quando il corpo elettorale fece mancare il quorum necessario per la validità del referendum - appare più realistica, per evitare le pesanti lacerazioni al tessuto sociale e democratico del nostro paese che la vittoria delle ipotesi referendarie sicuramente determinerebbe, stà nel ripercorrere la strada della diserzione delle urne, perché in tal caso l’astensionismo cronico (ed in particolare il comportamento astensionista che in occasione delle prove referendarie è solitamente più elevato che negli appuntamenti delle elezioni politiche o del primo turno delle elezioni amministrative) si sommerebbe alle forze contrarie alla vittoria dei promotori del referendum (ed in particolare allo schieramento crescente dei fautori del sistema elettorale alla tedesca, ovvero del sistema proporzionale con sbarramento, ed a coloro che intendono contrastare la deriva iperliberista che ha oggi il suo cavallo di battaglia nell’abrogazione dell’art.18).

Al momento in cui chiudiamo quest’intervento il formarsi degli schieramenti tra coloro che si oppongono ai referendari è ancora confusa, anche perché la presenza di quesiti che investono diverse questioni determina la non coincidenza degli schieramenti contrari al SI (basti pensare ai liberisti proporzionalisti, ampiamente presenti nel centro-destra, o a coloro che pur essendo contrari all’abrogazione dell’art.18 militano negli stessi partiti degli iper-maggioritaristi Veltroni e Fini).

Sino ad ora solo una forte componente del sindacalismo di base ha preso decisamente posizione per la diserzione delle urne.

 

8. Effetti dell’abrogazione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori

Gli effetti che l’abrogazione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori provocherebbe sulla disciplina dei licenziamenti non sono di facile individuazione, in quanto tale norma trova applicazione in una pluralità di ipotesi, alcune espressamente individuate dalla norma stessa, altre previste da norme diverse, altre ancora ricondotte nel suo ambito a seguito dell’intervento dei giudici.

Prima di tentare un’analisi delle possibili conseguenze dell’abrogazione, è opportuno illustrare brevemente le due forme di tutela attualmente previste in caso di licenziamento invalido.

Come è noto, l’art.18 ha predisposto una tutela particolarmente intensa - cosiddetta tutela reale - in caso di licenziamento invalido per i lavoratori dipendenti da organizzazioni produttive che superino il limite dimensionale individuato dalla norma stessa. In forza di tale tutela, il lavoratore ha diritto: a) alla reintegrazione nel posto di lavoro (1° comma) b) al risarcimento del danno subito, attraverso “un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione” e comunque non inferiore a cinque mensilità (comma 4°) c) al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione (comma 4°). La norma prevede la possibilità per il lavoratore che non intenda riprendere servizio di chiedere un’indennità in sostituzione della reintegrazione, la cui misura viene fissata in quindici mensilità di retribuzione (comma 5).

L’attuale quadro normativo prevede poi una tutela meno intensa - c.d. obbligatoria - che opera in caso di licenziamento invalido intimato a lavoratori di organizzazioni produttive che non raggiungono i limiti dimensionali individuati dall’art.18, nonché a lavoratori dipendenti dalle c.d. organizzazioni di tendenza senza fini di lucro. La norma di riferimento è l’art.8 della L. 604/66, che prevede l’obbligo per il datore di lavoro di riassumere il lavoratore licenziato o, in alternativa, di corrispondergli un’indennità (sostitutiva della riassunzione) di importo compreso tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Per capire cosa comporterebbe l’abrogazione della c.d. tutela reale è opportuno procedere considerando le varie ipotesi di licenziamento rispetto alle quali opera attualmente tale tutela.

La prima ipotesi è quella del licenziamento ingiustificato. La legge consente il licenziamento solo qualora ricorra una giusta causa o un giustificato motivo, soggettivo od oggettivo (art.1 L. 604/66). Attualmente, nel caso in cui venga accertata l’assenza di questo presupposto del licenziamento, il licenziamento stesso viene annullato, e, se ricorre il requisito dimensionale (dell’unità produttiva o dell’impresa) individuato dall’art.18, il lavoratore ha diritto alla tutela “forte” (reintegrazione e risarcimento del danno). In caso contrario - imprese minori e organizzazioni di tendenza - il lavoratore ha diritto alla sola tutela obbligatoria.

L’abrogazione dell’art.18 dovrebbe comportare l’applicazione della tutela minore in tutti i casi di licenziamento ingiustificato. In realtà dal punto di vista tecnico la soluzione si scontra con il dato letterale della legge, in quanto l’ambito di applicazione della tutela obbligatoria è definito in positivo dall’art.2 della L. 108/90, e non “ in negativo” rispetto all’ambito di applicazione dell’art.18. Ma è ovvio che una soluzione che lasciasse privo di tutela proprio il lavoratore delle organizzazioni produttive maggiori sarebbe inaccettabile.

La stessa Corte Costituzionale, nella sentenza che ha deciso l’ammissibilità del referendum, ha affermato che “resterebbe comunque operante (...) la tutela obbligatoria (...) la cui tendenziale generalità deve essere sottolineata”.

Più complesso capire cosa succederebbe rispetto ad un’altra ipotesi di invalidità del licenziamento, ossia quella determinata da vizi formali o di procedimento. Occorre distinguere l’ipotesi del licenziamento non disciplinare da quella del licenziamento disciplinare.

Quanto al licenziamento non disciplinare, la L. 604/66 (art.2) stabilisce che il licenziamento intimato senza osservare le modalità prescritte dalla legge è inefficace. Attualmente, nelle imprese di dimensioni maggiori, anche questa ipotesi dà luogo all’applicazione della tutela reale, e ciò in base all’espresso disposto dell’art.18. In caso di abrogazione, si può ipotizzare che troverebbe applicazione la soluzione valida per le imprese cui si applica la tutela obbligatoria, che è la seguente. Secondo la giurisprudenza dominante, l’inefficacia va intesa nel senso che il licenziamento non produce la risoluzione del rapporto di lavoro, che dunque prosegue. Tuttavia, il lavoratore non ha a disposizione che i rimedi di diritto comune: non ha cioè diritto al minimo di cinque mensilità individuato dall’art.18, né può chiedere l’indennità di quindici mensilità in luogo della continuazione del rapporto.

Quanto al licenziamento disciplinare intimato senza il rispetto della procedura disposta dall’art.7 dello Statuto dei Lavoratori, attualmente la giurisprudenza lo qualifica nullo e, pur in assenza di una disposizione di legge in questo senso, ritiene applicabile la tutela reale (sempre ricorrendo il limite dimensionale).

Deve ritenersi che in caso di abrogazione troverebbe applicazione la tutela obbligatoria, considerato che attualmente la stessa trova applicazione, per la stessa ipotesi, con riferimento alle imprese minori (anche qui si tratta di una soluzione elaborata dalla giurisprudenza).

Deve poi considerarsi l’ipotesi del licenziamento discriminatorio. Attualmente, il licenziamento diretto a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, o determinato dall’intento di discriminare un lavoratore in ragione della affiliazione o attività sindacale dello stesso, è nullo (art.15 Statuto dei lavoratori).

La legge considera applicabile in ogni caso la tutela reale disposta dall’art. 18, senza che rilevino le dimensioni dell’organizzazione, né la sua natura, ed anche nel caso di rapporti in cui è ammessa la libera recedibilità (art. 3 L. 108/90).

In caso di abrogazione dell’art.18 il licenziamento discriminatorio continuerebbe ad essere nullo, e pertanto incapace di produrre la risoluzione del rapporto, ma anche qui verrebbe meno la specificità della tutela attuale, che consente al lavoratore di non proseguire il rapporto e di conseguire un’indennità di importo significativo in luogo della riassunzione. Possibilità di evidente importanza nell’ipotesi del licenziamento discriminatorio, essendo facilmente immaginabile che il lavoratore possa non voler continuare il rapporto con un datore che lo ha licenziato per ragioni di discriminazione (si pensi in particolare a ciò che può avvenire nell’ambito di una piccola impresa).

Due ultimi profili. Uno attiene alla possibilità, attualmente prevista dall’art.18, che il giudice disponga la provvisoria reintegrazione del lavoratore licenziato in corso di giudizio, allorché si tratti di dirigente delle rappresentanze sindacali aziendali (comma 7), all’evidente scopo di garantirne la presenza sul posto di lavoro. Anche questa garanzia sarebbe eliminata in caso di abrogazione.

L’altro riguarda l’effetto riflesso che l’abrogazione avrebbe sulla disciplina dei licenziamenti collettivi. L’art.18 è infatti richiamato dalla L. 223/91 (art.5, comma 3), che stabilisce l’applicabilità della tutela reale in caso di inefficacia (mancata osservanza della forma scritta o violazione delle procedure) o annullabilità (violazione dei criteri di scelta) del provvedimento di messa in mobilità.

Che succederebbe in caso di abrogazione? Troverebbe applicazione la tutela di diritto comune per l’inefficacia e la tutela obbligatoria per l’annullabilità?

In conclusione, due sono le considerazioni fondamentali che devono farsi in ordine alla situazione che conseguirebbe all’abrogazione dell’art.18. In primo luogo, essa comporterebbe la possibilità, anche per le organizzazioni di maggiori dimensioni, di licenziare illegittimamente, con la sola conseguenza di dover corrispondere al lavoratore un’indennità (quella attualmente prevista dall’art.8 L.604/66) in caso di mancata riassunzione. Considerato l’importo di tale indennità, è evidente che la corresponsione della stessa non costituirebbe un grande problema per le imprese maggiori, che godrebbero così di fatto della libertà di licenziare. Del resto, non c’è dubbio che anche oggi la tutela obbligatoria non è altro che “un modo di essere della libera recedibilità”.

In secondo luogo, nelle ipotesi più gravi di licenziamento, come per esempio nel licenziamento discriminatorio, resterebbe l’impossibilità per il licenziamento di produrre effetti, in quanto la legge continuerebbe a sancirne la nullità, ma il lavoratore godrebbe di una tutela diversa da quella attuale. In particolare, come detto, non potrebbe chiedere la corresponsione delle quindici mensilità in luogo della prosecuzione del rapporto. Il che, in molti casi, significherebbe la costrizione a dimettersi per non continuare a lavorare in condizioni impossibili.

Una pagina tutta da indagare è invece quella relativa agli effetti che l’abrogazione dell’art.18 della legge 300/1970 determinerebbe nell’ambito del rapporto di lavoro con le Pubbliche Amministrazioni, in considerazione dell’avvenuto processo di privatizzazione e delegificazione del rapporto di pubblico impiego portato avanti a partire dal Decreto Legislativo n.29 del 1993. Certo è che in ogni casi anche su questo versante si aprirebbero spazi pericolosissimi.

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9. Le nostre ragioni di opposizione all’ammissibilita’ del referendum sui licenziamenti

Sempre al fine di comprendere la portata e gli effetti dell’eventuale abrogazione può essere riportare alcuni passaggi dell’atto prodotto dalla Federazione delle Rappresentanze Sindacali di Base, da Progetto Diritti e dal Cred nel giudizio di ammissibilità del referendum sull’art.18 della legge 20 maggio 1970 n. 300.

Come è noto, attraverso la disciplina di cui all’art.18 della legge 300 del 1970 il legislatore ha predisposto una tutela particolarmente intensa (c.d. reale), in caso di licenziamento illegittimo, per i lavoratori dipendenti da organizzazioni produttive che superino il limite dimensionale individuato dalla legge stessa. In forza di tale tutela, il lavoratore illegittimamente licenziato ha diritto a) alla reintegrazione nel posto di lavoro, o ad un’indennità sostitutiva della reintegrazione, la cui misura è fissata in una somma pari a quindici mensilità di retribuzione b) al risarcimento del danno subito, attraverso un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento al giorno della effettiva reintegrazione, e comunque non inferiore a cinque mensilità c) al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione.

Al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 18, al lavoratore che sia stato illegittimamente licenziato compete, invece, esclusivamente il diritto alla riassunzione o, in alternativa, ad un’indennità sostitutiva della riassunzione (c.d. tutela obbligatoria, art. 8 L.604/66).

L’abrogazione dell’art.18 della L.300/70, oggetto del quesito referendario, determinerebbe l’applicabilità della tutela meno intensa in ogni caso di licenziamento individuale illegittimo.

Il quesito sembrerebbe chiaro (e in un certo senso “speculare” a quello, proposto anni fa, e dichiarato allora ammissibile, diretto ad ottenere l’applicabilità generale della “tutela reale”.) Non è però così: ci sono infatti almeno due ragioni per le quali si deve ritenere che il referendum in questione sia inammissibile.

La prima ragione attiene all’intento dell’operazione referendaria così come esplicitato dai promotori, e alla relazione tra tale intento e l’effetto dell’eventuale accoglimento della proposta referendaria. Si legge infatti sui moduli di raccolta delle firme che il referendum è diretto ad “abrogare, fermo restando il risarcimento patrimoniale, la riassunzione obbligatoria e forzosa nei licenziamenti individuali non viziati da motivo illecito o discriminatorio, vincolo disincentivante alla creazione di posti di lavoro.” Come si è visto, l’articolo 18 stabilisce il diritto al risarcimento del danno, fissando un criterio per la determinazione dello stesso, in base al quale esso deve commisurarsi alla retribuzione globale di fatto che il lavoratore avrebbe percepito dal giorno del licenziamento al giorno della reintegrazione. L’abrogazione dell’art.18 colpirebbe non solo il diritto alla reintegrazione, ma anche il diritto al risarcimento così come configurato dalla norma. Alla luce di ciò, non si comprende il significato dell’inciso “fermo restando il risarcimento patrimoniale”. Non può infatti ritenersi che tale inciso si riferisca all’indennità che il lavoratore può percepire in luogo della riassunzione in base alla disciplina della tutela “obbligatoria”, che troverebbe applicazione nel caso di abrogazione dell’art.18. Se così fosse, infatti, l’affermazione sarebbe veramente mistificatoria: una cosa è infatti il risarcimento che attualmente spetta al lavoratore in aggiunta alla reintegrazione (o all’indennità sostitutiva di questa), ben altra l’indennità sostitutiva della riassunzione. Il primo compensa infatti il danno subito dal lavoratore per il periodo in cui lo stesso non ha lavorato (ed è infatti calcolato come detto), la seconda non riguarda tale periodo (in ordine al quale il lavoratore non ha alcun diritto), ma va esclusivamente a compensare la mancata riassunzione. Quale sarebbe dunque il risarcimento patrimoniale che resterebbe “fermo”? Certo non quello previsto dalla norma che verrebbe abrogata, e ciò è di per sé sufficiente ad evidenziare l’ambiguità della formulazione adottata dai promotori nell’illustrare il referendum e i suoi effetti.

Ciò senza considerare l’inesattezza della terminologia impiegata, lì dove si parla di “riassunzione obbligatoria e forzosa”, mentre è noto 1) che la disciplina di cui si chiede l’abrogazione prevede la “reintegrazione” e non la riassunzione, perché il rapporto deve intendersi come mai risolto, 2) che qualificare la “riassunzione” “forzosa” non è corretto, non essendo l’obbligo di reintegrazione eseguibile forzatamente.

La recente giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenze nn. 1 e 6 del 1995) in tema di ammissibilità dei referendum accorda rilievo allo scopo dichiarato dai promotori considerato nella sua relazione con l’effettiva portata del quesito referendari, o ritenendo inammissibile il referendum quando si registra uno “scarto” o una contraddizione tra obiettivo dichiarato e risultato dell’eventuale abrogazione (si veda per es. Corte Cost.1/1995). In considerazione di questo stesso profilo viene in questione la seconda ragione di inammissibilità del referendum.

Infatti, pur essendo l’art.18 dettato con riguardo ai licenziamenti illegittimi individuali, esso è richiamato dalla L. 223/91, che disciplina la procedura collettiva di messa in mobilità. L’art.5 di questa legge dispone che nel caso di provvedimenti di messa in mobilità adottati in violazione della relativa disciplina trova applicazione l’art.18 della L.300/70. La tutela “reale” opera cioè anche nel caso di licenziamenti collettivi illegittimi. L’abrogazione della norma in questione avrebbe dunque ripercussioni anche in questo campo. Ciò non è esplicitato dai promotori del referendum, i quali si riferiscono espressamente solo ai licenziamenti individuali. L’elettore non è dunque consapevole dell’ulteriore e rilevante effetto connesso alla scelta diretta a conservare o abrogare la norma in questione. Non solo: non è chiaro quale disciplina troverebbe applicazione nel caso di abrogazione dell’art.18. E’ infatti difficile ipotizzare l’applicazione della tutela obbligatoria in caso di licenziamenti collettivi, atteso che il legislatore ha espressamente escluso che la L.604/66 trovi applicazione nei confronti dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale. Entrambi i profili illustrati fanno ritenere che il quesito proposto difetti del requisito della chiarezza.”

 

10. Lavori flessibili ed atipici, conflitto e democrazia sindacale

Nel 2/99 di questa rivista abbiamo tratteggiato gli elementi che caratterizzano oggi le nuove forme del lavoro, sia quello anche formalmente dipendente che quello cosiddetto atipico.

I referendum sulla flessibilità dei rapporti di lavoro, come abbiamo detto, non sono passati ma il quadro sotto questo profilo (cioè nel senso dell’affermarsi di una serie sempre maggiore di nuove tipologie contrattuali - borse di lavoro, lavori socialmente utili, lavori a tempo parziale, lavori a tempo determinato, contratti di formazione e lavoro, lavoro interinale - che nascondono quasi sempre una riduzione del nocciolo duro dei diritti dei lavoratori) è allarmante e l’ulteriore vulnus che l’abrogazione dell’art.18 comporterebbe determinerebbe una lacerazione ulteriore e gravissima.

D’altro canto sui cosiddetti lavori atipici non possiamo che ripetere il giudizio articolato già formulato sulla proposta Smuraglia ancora attualmente all’esame della Camera dei Deputati (e già approvata dal Senato della Repubblica - testo integralmente riportato su Proteo 2/99). E’ evidente che il rinvio ai patti, alla contrattazione, alle commissioni paritetiche costituite con un nucleo ristrettissimo di organizzazioni sindacali (sempre le stesse) contenuto nel testo Smuraglia tende a ridurre la possibilità di contestazione della qualificazione giuridica data al rapporto, ovvero la possibilità di adire l’autorità giudiziaria per accertare che non di lavoro autonomo (sia pur continuato e coordinativo) si tratta ma di lavoro subordinato (svolto alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore, secondo quanto recita l’art.2048 del codice civile). Se da un lato - attraverso la regolamentazione che indubbiamente la proposta Smuraglia contiene - si inseriscono indubbi elementi di disciplina nell’ambito di un settore ignorato dal legislatore, dall’altro il troppo spazio lasciato alla negoziazione collettiva nell’inquadramento delle tipologie dei rapporti riduce fortemente la possibilità per il lavoratore - di fatto subordinato ma inquadrato in uno schema contrattuale di diversa natura - di contestare la natura del rapporto e di rivendicare conseguentemente i suoi diritti. Ci chiedevano (in Proteo, 1/99, pag.58): “che si tratti di un passo ulteriore verso la deregolamentazione selvaggia dei rapporti di lavoro?”.

E se la situazione generale sul piano delle regole del lavoro in cui si inserisce la stagione referendaria è quella che su Proteo abbiamo cercato di descrivere sin dal primo numero (inserendo come elemento di controtendenza per contrastare precarietà e frammentazione la proposta dell’istituzione del reddito sociale minimo), la situazione appare sul piano delle nuove regole in tema di rappresentanza e rappresentatività sindacale.

Il testo approvato dalla Commissione Lavoro della Camera (relatore il ds Gasperoni), che conteneva un significativo - e positivo - riferimento ad indici certi di misurazione della rappresentatività delle diverse organizzazioni sindacali nei luoghi di lavoro e nelle categorie si è bloccato all’esame dell’aula per il non celato boicotaggio da parte della Confindustria, lasciando inalterata l’insostenibile situazione normativa determinata dal referendum abrogativo del giugno 1995.

Sono ormai quasi cinque anni, quindi, che gli unici soggetti sindacali che possono godere di diritti nei luoghi di lavoro sono i firmatari dei contratti collettivi, indipendentemente dalla loro capacità di consenso ed aggregazione.

D’altro canto la Camera dei Deputati ha invece approvato (ed il testo passa ora al Senato) un pesante aggravamento delle regole sull’esercizio
 già fortemente limitato dalla legge 146/1990 - del diritto di sciopero. Si ingessano le procedure, si rafforzano i poteri della Commissione (sempre più insidacati ed insindacabili), si inaspriscono le sanzioni nei confronti dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali più conflittuali. E’ un segnale molto cupo sul futuro delle relazioni sindacali nel nostro paese, sul quale la resistenza - nel parlamento e nel paese - è stata quasi nulla.