LA RISCOMPOSIZIONE della borghesia italiana:dalla “cerniera” degli anni ’90 alla “nuova” crisi del nuovo millennio (prima parte)

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

1. La storia della nascita e della successiva perversione del capitalismo moderno in Italia, attraverso le biografie dei capitani d’industria e le cronache dell’affermazione e declino delle loro imprese, ripercorre le tappe della nascita e della liquidazione del capitalismo di Stato, sostituito dall’allegra gestione delle privatizzazioni dell’ultimo decennio. Sono i percorsi che ci delineano perché l’economia italiana è malata, lo si dice da tempo. Difficile però, in questo caso, isolare l’organo danneggiato da un corpo presuntamene sano: la crisi delle regole della finanza segnala inequivocabilmente lo stato di profondo malessere dell’intero capitalismo italiano2, le cui vicende da tempo si sono ridotte alle altalene di titoli azionari, alle scalate senza rete al vertice dei grandi colossi industriali e finanziari, alle variazioni virtuali - ma ben concrete negli effetti - degli indici di borsa.3 Nell’esaminare i successi e i rovesci del capitalismo made in Italy, peraltro, non si può fare a meno d’individuare la singolarità, che investe in particolare il rapporto con la forza lavoro: mentre in altri Paesi il capitale ha continuato a investire in produzione, le grandi fortune industriali del Bel Paese si sono presto convertite in investimenti finanziari, manovre di borsa, acquisti e fallimenti ad arte che non generano ricchezza sociale, erodendo progressivamente i livelli occupazionali dell’industria, dell’amministrazione pubblica e dei servizi. La finanziarizzazione del capitale industriale è un fenomeno che sta, d’altronde, alla base dei successi di molti nostri imprenditori, a partire dalla scalata effettuata un secolo fa da Giovanni Agnelli (“Giovanni I”) al vertice aziendale Fiat, da cui riuscì in pochi anni - indebitandosi con due banche - ad escludere i veri fondatori4. Il 23 giugno 1908, infatti, la questura sarà costretta a denunciare Giovanni Agnelli per «illecita coalizione, aggiotaggio in Borsa e alterazione di bilanci sociali». Più o meno gli stessi criteri seguì la scalata di Eugenio Cefis alla Montedison. La sua vicenda esistenziale coincide, in qualche modo, con l’intera parabola dell’impresa pubblica in Italia. Nato all’inizio degli anni ’20 a Cividale del Friuli, primo di nove figli, forgiato alla dura scuola dell’Accademia di Modena,durante la Resistenza - cui partecipa come comandante di un gruppo di partigiani tra la Val d’Ossola e il lago Maggiore, conosce Enrico Mattei. Il loro rapporto si consolida negli anni del dopoguerra, tra piccole incursioni nell’industria chimica e grandi sogni da realizzare. Gli annali del capitalismo italiano ricordano però, in particolare, la sua silenziosa conquista del colosso dell’industria di Stato. Enrico Cuccia, siciliano d’origine, nasce a Roma nel 1907. Si laurea presto in giurisprudenza, presentando unatesi dall’argomento fin troppo eloquente: listini di borsa e speculazione! Subito dopo comincia un rapido tirocinio all’estero, lavorando a Parigi presso la Banque Sudameris e poi presso la sede londinese della Banca d’Italia. Nel 1933 fa il suo ingresso all’iri, e poi entra alla Banca Commerciale Italiana. Ma il colpo grosso lo fa sposandosi con Idea, la figlia di Alberto Beneduce. Azionista dal ’42, assieme a Raffaele Mattioli elabora il progetto di Mediobanca, di cui diventa poi direttore generale La sua carriera successiva si svolgerà tutta all’interno dell’sitituto di credito: nel 1982 è consigliere anziano, nel 1988 presidente onorario. Muore per un attacco cardiaco nel 2000. (Cfr. I grandi manager italiani, Edizioni Vittoriane, Milano 2006, p. 167). La parabola esistenziale di Guido Carli è, per certi versi, analoga a quella di Cuccia: nasce nel 1914, si laurea in giurisprudenza, entra anche lui all’Iri. Tuttavia, a differenza di Cuccia, frequenterà la finanza soprattutto dai territori della politica: deputato liberale, prende parte ai lavori dell’Assemblea costituente, entra all’Ufficio italiano cambi e nel 1947 è membro del Consiglio dei direttori del Fondo Monetario. Dalla seconda metà degli anni ’50 ricopre incarichi di rilevo nazionale: Ministro del Commercio Estero nel 1957, due anni dopo diventa il Direttore generale della Banca d’Italia. Dall’anno successivo governa la Banca d’Italia fino al 1976, quando diventa Presidente della Confindustria. Senatore nelle file della dc, fa il Ministro del Tesoro nel governo Andreotti VI (1989). È l’ultimo incarico attivo importante: muore a Spoleto il 23 aprile 1993. (Ivi, p. 115). Da Cefis a Cefis, il cerchio si chiude. La borghesia italiana è profondamente mutata, senza tuttavia mutare i personaggi di primo piano dello spettacolo. Nelle trasformazioni del capitale dall’inizio degli anni ’60, in cui ancora dominava la figura dell’imprenditore privato, fino alla cronaca odierna, che segnala continuamente la presenza di strutture e comportamenti stabilmente corporativi e clientelari, la lunga vicenda delle industrie di Stato - e della Montedison in particolare - rappresenta il caso più vistoso. La sua storia è un incessante incrociarsi di intrighi, colpi di mano, fulminee operazioni, attorno alla quale ruotano numerosissimi “satelliti”, è una lunga catena di colpi di mano finanziari operati da una sfilza di “insospettabili” personaggi: ministri, segretari di partito, finanzieri, banchieri, mediatori, agenti di cambio, avventurieri. Un panorama d’antan tutto italiano che assomiglia molto a quello del nuovo millennio. Questa vicenda, paradigmatica delle tendenze di lungo corso della borghesia capitalista italiana, ha avuto un unico grande protagonista: Eugenio Cefis. La storia parte con il suo attacco ai vecchi padroni guidati da Giorgio Valerio, fino allo scontro, in accordo con Pesenti, con Michele Sindona per il controllo della Bastogi; e poi il braccio di ferro con gli Agnelli, gli affari, la politica, gli intrighi rivelate poi dalle carte del processo sui “fondi neri” della Montedison. Gli alleati - così come i bersagli - si alternano, ma alcune figure emblematiche del capitalismo italiano restano costantemente in primo piano: il Governatore della Banca d’Italia e Leopoldo Pirelli - figlio del fondatore della Pirelli & C., Giovanni Battista Pirelli5 - Anna Bonomi e Enrico Cuccia, Raffaele Girotti e Nino Rovelli, Giuseppe Petrilli e Cesare Merzagora, protagonisti dell’abbraccio mortale tra la Milano industriale e la Roma mestatrice e tragattina, che insieme tracciano le nuove geografia del potere. Tutti questi personaggi, che in qualche modo interagiscono con il sapiente lavoro di “regia” di Cefis, occupano un posto di primo piano nella storia del capitalismo italiano, o rappresentano dei “nuovi arrivati” che rapidamente riescono a occupare la scena, condizionando l’intero quadro economico. La Pirelli & C. di Leopoldo nasce a Milano nel 1872. Presto comincia a conquistare primati: nel 1887 vara la prima nave posacavi, intitolandola alla “Città di Milano”, che posa 700 chilometri di cavi nel Mar Rosso. La produzione di pneumatici comincia nel 1901, e segna anche l’inizio dell’espansione geografica, con l’apertura di stabilimenti in Spagna, Gran Bretagna, Argentina. Per organizzare le atività estere, negli anni Venti nasce una holding che riunisce le produzioni, comprese le piantagioni di alberi della gomma a Giava e in Malesia. Il simbolo del successo, nel secondo dopoguerra, è la costruzione del “Pirellone”, il primo grattacielo italiano che dal 1960 domina Milano. Agli inizi degli anni ’70, l’azienda si unisce alla Dunlop, ma l’accordo dura meno di dieci anni. In compenso numerose sono le acquisizioni tecniche: la Pirelli inventa il rivoluzionario pneumatico ribassato, mentre nei cavi comincia ad adottare la fibra ottica nel 1982. Questa leadership tecnologica consente all’azienda di colonizzare territori e produzioni: acquisisce la tedesca Metzeler e la statunitense Armstrong, nei cavi la francese Filergie. Negli anni ’90, la crisi e il peso degli impegni finanziari assunti per nuovi tentativi di acquisizione fanno traballare la Pirelli ed il nuovo amministratore delegato, Marco Tronchetti Provera, ristruttura il gruppo, cedendo tutte le attività collaterali. Dal 2001 la storia dellaPirelli s’intrecciacon quella - controversa - della Telecom: l’azienda usa un meccanismo di scatole cinesi per acquisire una quota in Telecom Italia: Pirelli, infatti, detiene il 58% di Olimpia, a sua volta proprietaria del 18% della compagnia telefonica. Nel complesso i settori di attività del gruppo (pneumatici, broadband solutions e real estate), hanno prodotto un fatturato superiore ai 4,5 miliardi di euro nel 2005. In consiglio di amministrazione siedono ancora Leopoldo Pirelli, presidente onorario, e il figlio Alberto, vicepresidente, ma la famiglia non conserva solo una piccola partecipazione azionaria. Anna Bonomi Bolchini è stata una delle signore della finanza italiana, amministratrice di un enorme patrimonio immobiliare, composto di oltre 150 palazzi a Milano. Ma non si accontenta: nel 1959 fonda la società Postalmarket e mette insieme, con l’aiuto del secondo marito, Giuseppe Bolchini, una complessa piramide finanziaria di cui fanno parte istituti bancari (Credito Varesino), finanziarie (Invest), industrie (Saffa, Mira Lanza), assicurazioni (Fondiaria, Toro). La sua carriera è caratterizzata da una serie di spericolate operazioni finanziarie, come l’aumento di capitale nella Invest, un atto simile a quello condotto da Michele Sindona per la sua Finambro6. Infine, la storia di Nino Rovelli, nato a Olgiate Olona nel 1919, non è facile da sintetizzare perché attraversa quasi sessant’anni della storia economica italiana e della chimica italiana, dalla SIR alla Montedison fino all’accordo tra SIR e Montedison del 1977 e all’acquisizione da parte dell’ENI degli impianti SIR, per concludersi con l’accusa all’IMI di aver silurato l’azienda, negando un credito promesso. La struttura societaria costruita prese il nome di “rovellizzazione”: una quantità di realtà aziendali che facevano capo allo stesso gruppo e addirittura, talvolta, operavano nello stesso stabilimento o centro petrolchimico.Ognuna di esse, tuttavia, conservava una propria autonomia operativa e una certa individualità, così da poter accedere agli incentivi che lo Stato garantiva alle imprese a sostegno degli investimenti. Un sistema complesso, una rete di piccole realtà imprenditoriali formalmente indipendenti ma di fatto tutte legate alla Sir Internazionale, capogruppo con sede a Vaduz, di cui possedevano delle quote in misura variabile7. Personaggi di tale risma - e, con loro, molti altri - incrocia la parabola esistenziale di Cefis. Nel 1977, a sorpresa, il patron del capitalismo italiano lascia la Montedison ormai in crisi, ritirandosi a Lugano. Non vi saranno condanne per i morti di cancro al petrolchimico di Marghera, nel quale Cefis è stato imputato con altri presidenti e dirigenti della Montedison.. Nel ’77 l’imputato Cefis dichiarava, con parole che sembrano pronunciate appena ieri, in pieno clima neo-liberista: «L’impresa ha come fine il profitto. Occorre andarci piano con costose manutenzioni. Bisogna correre dei ragionevoli rischi»8. Il rischio, in questo caso, fu tutto dei 157 operai di Marghera, avvelenati lentamente dalle condizioni di lavoro loro imposte, come accade ancora a milioni di operai in tutto il mondo, che nel puzzo mortale di sostanze velenose si procurano una morte atroce che non avrà nessun responsabile.

2.C’è una lunga febbre che - a partire dall’arrogante deregulation dell’economia importata nel corso degli anni Ottanta - non abbandona il corpo malato della borghesia italiana. Il caso di Antonio Fazio e dei cosiddetti “furbetti del quartierino”, pittoresca rappresentanza di una nuova imprenditoria rapace e spericolata; la voragine che si scopre nei conti Telecom, gettando nella bufera anche il governo Prodi; il declino irreversibile dell’ex azienda-modello Alitalia disegnano il tracciato declinante del capitalismo italiano, che ha espresso dal dopoguerra ad oggi una borghesia classe dominante, mai - invece - una classe dirigente, capace di prendere in mano le redini del Paese e condurlo verso una crescita e un benessere diffuso, ancorché nel quadro di un’economia liberista. La finanziarizzazione, il ricorso continuo alla sovvenzione (non al sostegno) statale e l’illegalità che pervade la pratica economico-politica in Italia, ancora in attesa dagli anni di Tangentopoli di una ponderata riflessione storica e politico-economica, sono le risposte asfittiche di un gruppo imprenditoriale oggi più che mai incapace di confrontarsi con i mercati esteri, con la sfida delle esportazioni, con i competitori internazionali. Tutto questo nonostante ci siano ormai - per stessa ammissione dei rappresentanti del capitale - delle condizioni ambientali ideali in Italia per gli investimenti, come quelle determinate da un costo del lavoro particolarmente vantaggioso, a seguito delle riforme del pacchetto Treu e poi della famigerata legge 30. I vertici dell’industria italiana avevano salutato con estremo favore tali riforme del mercato del lavoro. Tuttavia non è bastato. Non è stata sufficiente all’industria italiana la selvaggia riduzione dei costi del lavoro e degli obblighi contrattuali per tornare competitiva nel agone internazionale, evidenziando ancor più “i segni di un declino diffuso, subito, non contrastato da un rinnovato dinamismo imprenditoriale”9 proprio quando i rapporti tra capitale e lavoro offrivano ampi margini per superare il crinale. Tutto lascia pensare, in questa contingenza, che l’attuale fase di recessione del sistema industriale e finanziario italiano oltrepassi il livello delle contingenze e abbia radici più profonde, da ricercare nella storia economica e politica dello sviluppo italiano, caratterizzato da almeno due elementi atipici: a) Una eccezionale spinta propulsiva nel quarto di secolo che va dal secondo Dopoguerra agli anni Settanta, il periodo del cosiddetto “miracolo economico” in cui l’Italia diventa protagonista di primo piano della ripresa europea, con «tassi di crescita del reddito pro capite dell’ordine del 5% annuo” che “non erano mai stati sperimentati prima»10. b) Un’esperienza di organizzazione e specializzazione unica nel suo genere, basata sull’organizzazione della produzione in aree distrettuali o province specializzate11, caratterizzate da produzioni omogenee che richiedono un elevato livello di tecnologia, conoscenze specifiche o perizia artigianale. Con una semplificazione evidente ma tutt’altro che priva di ragioni, l’insieme di queste produzioni d’eccellenza è denominato made in Italy e gode tuttora di certi primati sui mercati mondiali, pur esibendo notevoli segni di sofferenza.

Partire da questi due fattori, l’uno legato alla storia l’altro alle caratteristiche dello sviluppo italiano, è un primo passo per comprendere la situazione dell’oggi: le sue cause, le sue caratteristiche, le sue conseguenze, le possibili direttrici del cambiamento.

3.Ormai cinquant’anni fa, all’indomani del secondo conflitto mondiale, l’Italia si accingeva ad entrare negli anni del cosiddetto miracolo economico. Non si trattava di un fenomeno isolato: coincideva piuttosto con una fase di crescita generale del vecchio continente, che registrava trend positivi equivalenti al doppio di quelli registrati nei cento anni precedenti. In questo generale contesto di promozione, le differenze politiche tra i blocchi costituitisi nel Dopoguerra contavano fino ad un certo punto: l’“età dell’oro”12 coinvolse infatti in pieno i paesi dell’est caratterizzati dalle cosiddette economie pianificate e da una diversa ipotesi di sviluppo; anzi, fu proprio in quel gruppo che si registrarono alcuni casi di successo (si veda la ex-DDR) tra i più singolari. L’analisi economica spiega questa eccezionale propulsione con la teoria del catching up - letteralmente la rincorsa - che è in grado di ricondurre almeno in parte un fenomeno di così ampie proporzioni all’interno di certe ricorrenze e strutture storiche. Secondo tale modello, nella competizione tra paesi per lo sviluppo economico i ritardatari godono paradossalmente di una serie di vantaggi rispetto al leader: è più agevole per loro, ad esempio, imitare le tecnologie sperimentate nel paese più avanzato, che invece ha dovuto escogitarle e costruirle con un impiego superiore di risorse umane ed economiche; godono, verosimilmente, di un rapido aumento delle dimensioni della domanda e dei mercati che innesca la crescita dei processi produttivi; possono contare inoltre su costi del lavoro più bassi, se la popolazione è sottoccupata o occupata in comparti poveri come quelli agricoli tradizionali; infine gli investimenti offrono migliori rendimenti quando la generale dotazione di capitale è scarsa13. Nell’Italia degli anni Cinquanta si verificarono queste condizioni, ma soprattutto si manifestò la capacita di sfruttarle per realizzare il salto in avanti sfociato nel boom degli anni 1959-1963. «Nessun altro paese lanciato nella corsa agli Stati Uniti - scrive Nardozzi - ottenne un risultato di importanza paragonabile. Non i grandi paesi dell’Europa continentale, come Francia e Germania, che confermarono l’importanza di un ruolo che già avevano assunto nel contesto internazionale. Non l’Inghilterra, il cui primato economico continuò a declinare. Non i paesi di minor peso che tali rimasero pur divenendo più prosperi. Solo l’Italia non fu più “Italietta”. Diventò protagonista, entrando definitivamente nel ristretto club delle nazioni importanti grazie alla sua economia»14. Quest’esperienza è sfociata nel giro di pochi anni in una profonda seppur breve recessione economica, da cui tuttavia il Paese non riuscirà ad elaborare una nuova formula efficace di sviluppo. Si possono qui anticipare alcune delle “secche” in cui era impantanato il capitalismo italiano, che furono in parte aggirate dall’iniziativa politica dei primi governi repubblicani: già la Commissione Economica dell’Assemblea Costituente aveva affrontato i limiti di un sistema produttivo essenzialmente autarchico e sostenuto con commesse dallo Stato, che manteneva l’economia italiana al riparo dal confronto con le altre economie nazionali; ratificando l’adesione dell’Italia al nuovo corso commerciale e monetario internazionale (Bretton Woods), fondato sulla liberalizzazione del mercato, il governo De Gasperi orientò definitivamente l’industria italiana verso la concorrenza con i competitori internazionali, stimolando la capacità di accumulazione del capitale. Il nuovo sistema delle Partecipazioni Statali sostenne settori vitali e strategici dell’economia nazionale, contribuendo alla rincorsa dell’industria nostrana verso i grandi competitori. In poco più di un decennio, l’aumento del Prodotto Interno Lordo (PIL) sfiora il 6,5%; la crescita dei redditi ammonta al 60%, proiettando definitivamente un’ampia parte dei cittadini italiani nella fascia del “benessere”. Questi anni, caratterizzati da un progresso economico indiscutibilmente autentico, fondano tuttavia un modello di sviluppo sbilanciato che, insieme ai mali endemici della classe industriale italiana, spiegano molte delle difficoltà dell’oggi. Con la politica d’espansione concentrata sulla grande industria (le Partecipazioni, la scelta scellerata dell’auto...) e la concentrazione degli impianti e delle infrastrutture nel nord del Paese, infatti, si produce un danno irreversibile alle piccole manifatture e soprattutto al comparto agricolo, generando dei paradossi nella disponibilità di beni che tuttora si ripercuotono sulla qualità di vita degli italiani: con 12 mensilità un operaio può acquistare un’utilitaria, ma deve lavorare 10 ore per comprare un chilo di carne, circa tre ore per portarsi a casa un chilo di zucchero, un’ora e mezza per un chilo di pane. Il 61% del suo stipendio se ne va per mangiare15. Crebbe così lo squilibrio tra regioni meridionali e settentrionali, nutrito da larghi flussi d’emigrazione, che ancor oggi resta l’handicap principale del sistema italiano. L’abbandono della campagna, inoltre, aveva determinato ulteriori scompensi sociali poi divenuti permanenti, come l’urbanizzazione ineguale (non registrata, ad esempio, in Paesi come la Germania) e la riduzione e/o marginalizzazione delle donne nel circuito del lavoro, prima assegnatarie di un ruolo preciso nell’economia agricola. Di questi squilibri si pagano, oggi, tutte le conseguenze, così come riaffiorano, nell’attuale fase di crisi strutturale, le tentazioni antiche della borghesia italiana: l’incapacità di assumere dimensioni competitive, l’esigenza di assistenza e/o protezione, soprattutto la difficoltà di raccogliere la sfida della concorrenza, che allora come oggi costituisce la chiave di lettura principale dei fenomeni riguardanti il mondo del lavoro e della produzione in Italia.

4.Il secondo fattore, di cui si diceva poc’anzi, riguarda invece la modalità organizzativa prevalente del tessuto produttivo italiano, che coincide grossomodo con quella delle produzioni radunate sotto l’etichetta di made in Italy. In effetti il made in Italy non definisce, oggi, un insieme di tipologie di produzioni - troppo eterogenee sono le filiere coinvolte, che vanno dal settore agro-alimentare a quello dell’arredamento, alla moda, alla componentistica e alle tecnologie tradizionali - quanto piuttosto uno stile di produzione, basato su caratteristiche ben riconoscibili: un alto grado di specializzazione, l’abilità nel lavorare certe materie prime che conserva aspetti dell’artigianato tradizionale, l’organizzazione delle filiere in distretti o aree specializzate16. Questo sistema, per cui certi settori dell’industria italiana sono meritatamente famosi in tutto il mondo, ha determinato tuttavia condizioni e limiti dello sviluppo italiano che si sono evidenziate in tutta la loro portata nell’ultimo decennio, a seguito del massiccio afflusso di manodopera immigrata nel Paese e della vasta tendenza alla delocalizzazione delle produzioni. Questi elementi hanno messo in crisi, in primo luogo, i livelli occupazionali del settore, che costituivano una quota significativa dell’occupazione generale nell’industria: una recente ricerca Montedison-Cranec ha stimato in 3.717.000 (71% del totale) i lavoratori impiegati nei distretti della moda, dell’arredo e dell’alimentazione mediterranea, tipiche produzioni del made in Italy; in secondo luogo minacciano da vicino lo stesso futuro di questa strada tutta italiana allo sviluppo, che ha dovuto abbandonare per ora «le produzioni a più basso valore aggiunto»17, colonizzate dai Paesi in via di sviluppo dell’estremo oriente. In realtà le contraddizioni del sistema, oggi stridenti, erano inscritte nel suo assetto e nelle sue origini, risalenti proprio agli anni del boom economico. In prima istanza tali contraddizioni sono imputabili alle dimensioni dell’industria made in Italy, prevalentemente afferente al tipo della piccola e media impresa (PMI), che ad un tempo ha costituito la forza del sistema e ora ne costituisce il punto debole. In una sua acuta disamina delle strategie di liquidazione della grande industria italiana, Luciano Gallino fa notare ad esempio che i compiti di elaborazione di nuove soluzioni tecnologiche possono essere assunti solo da imprese di grosse dimensioni, in grado di sopportarne i costi: “V’è un altro paio di motivi per affermare che un Paese avanzato non può permettersi di restar privo, se non a suo danno, di aziende manifatturiere; meglio se concentrate in settori chiave dell’economia del 2000 [...]; meglio ancora se grandi. Un’autentica innovazione di prodotto, tale da migliorare tangibilmente il valore d’uso, richiede una intensa attività di ricerca e sviluppo (R & S). La R & S richiede grandi investimenti, a fronte del rischio di non riuscire a recuperarli in futuro. La creazione di una molecola farmacologicamente efficace; il progetto di un motore per auto o per aereo che consumi meno e faccia meno rumore; il disegno di un microprocessore di nuova generazione, sono tutte attività che comportano investimenti d’un ordine di grandezza compreso tra le centinaia di milioni e i miliardi di euro. Dopodiché occorrono altri capitali, in misura pari o superiore, per portarli in produzione. Simili investimenti, con i relativi rischi, sono in generale al di fuori della portata delle piccole e medie imprese. Un paese che conti prevalentemente su di esse per la propria produzione industriale è condannato a importare tecnologia dall’estero assai più di quanta non riesca ad esportarne, come attestano nel caso italiano i dati relativi all’import-export di brevetti internazionali. Senza godere dei benefici non solo economici, ma anche occupazionali e intellettuali, del lavoro ad alta intensità di conoscenza che un ampio apparato di R & S è capace di generare. Che pare difficoltoso sostituire, agli stessi fini, con l’industria del marmo, dell’olio d’oliva o dei filati di lana”.18 Ma l’impossibilità di promuovere innovazione non è l’unico limite della piccola e media impresa dominante in Italia. Pesa, sul made in Italy, la pesante ipoteca di una conduzione aziendale a carattere prevalentemente familiare, con tutto ciò che ne consegue sul piano dell’organizzazione e dei valori: dilettantismo manageriale, nomine e incarichi “nepotistici”, conservatorismo che allontana le possibilità di espansione o cambiamento della configurazione dirigenziale. A queste resistenze va aggiunta una difficoltà strutturale delle imprese produttive di piccole dimensioni, rappresentata da «un inadeguato livello di capitalizzazione»19, derivante dalla concentrazione della proprietà nell’ambito famigliare20. D’altronde, è un fatto, in Italia non esiste un sistema finanziario adeguato alle esigenze della piccola e media impresa, che fanno fatica ad uscire dal capestro della proprietà familiare anche perché hanno difficoltà ad essere quotate su un secondo mercato, a causa delle dimensioni e del capitale disponibile. Per gli esperti del settore, una finanza orientata al sostegno delle PMI dovrebbe agire dunque sull’offerta di capitale di rischio, aumentando e differenziando le possibilità d’intermediazione finanziaria in grado di fornire denaro per investimenti ai titolari delle imprese. Un’altra via per il sostegno alle PMI, già sperimentata con successo in paesi leader della produzione mondiale in diversi settori, è la costituzione di un mercato borsistico dedicato sul modello del NASDAQ americano (il cosiddetto “indice dei titoli tecnologici” o dell’AIM londinese (Alternative Investment Market): rispetto ai mercati borsistici tradizionali, tali spazi sono caratterizzati da una maggiore accessibilità, poiché favoriscono con una serie di norme la quotazione delle aziende giovani o di piccole dimensioni. L’AIM, ad esempio, non chiede una capitalizzazione minima alle aziende, non presenta costi elevati per il mantenimento del titolo in borsa e soprattutto non esige un periodo minimo di esistenza dell’impresa per essere quotata in borsa, favorendo il collocamento della società anche nelle fasi iniziali di sviluppo.

5. Paradossalmente, proprio la grande aggressività del capitalismo di inizio millennio denuncia il suo stato di crisi profonda, innescata dalla constatazione che esso ha fallito il suo compito storico enunciato da Adam Smith sin dal titolo della sua opera più celebre: procurare la felicità degli uomini. Il modello di capitalismo che è stato in vigore negli anni ’50 e ’60, prima della crisi petrolifera, aveva garantito sviluppo per l’intera nazione, aveva offerto a molti lavoratori e alle loro famiglie l’opportunità di uscire dalla povertà, di conquistare quote di benessere, di costruire prospettive di piccolo e grande respiro: l’acquisto del televisore a rate, l’istruzione per i figli, magari la casa di proprietà. Il conflitto sociale esploso verso la fine degli anni ’60 - ricco di speranze, nient’affatto “reducista” - non era determinato dal venir meno di queste condizioni, ma dalla convinzione che esse potevano essere ampliate, migliorate; dall’idea che la ricchezza sociale potesse essere più equamente distribuita a vantaggio dei produttori di valore reale, i lavoratori. Cosa resta di quella ispirazione nell’involuzione del capitalismo cui assistiamo in questo scorcio d’inizio millennio? Poco. Dopo le ristrutturazioni obbligate dalla crisi energetica, il modello di sviluppo fondato sulla produzione di beni e sul sostegno al consumo per la messa a profitto di tali beni, ha lasciato progressivamente il posto ad un modello asfittico, privo dell’ossigeno della prospettiva, in cui lo scopo della produzione di ricchezza - un bene per definizione distribuibile tra i vari protagonisti del processo, seppure in misure da contrattare - viene sostituito dall’esigenza di produrre profitto per il capitalista ad ogni costo, anche quello di deteriorare o distruggere il sistema. Come hanno mostrato i tanti scandali finanziari di cui la cronaca italiana s’è occupata a più riprese negli ultimi due anni, il capitalismo manageriale azionario ha «eretto a supremo criterio guida del governo dell’impresa, il paradigma della creazione di valore per gli azionisti»21. Il caso Telecom-Tim, scoppiato nella prima metà del settembre 2006, con la cessione di Tim, è paradigmatico della storia delle grandi famiglie della borghesia italiana e per il paradosso che investe un settore che tutte le forze politiche presenti in Parlamento hanno giudicato strategico per la politica economica del Paese, il settore delle telecomunicazioni, e sui guai e guasti che le privatizzazioni hanno prodotto nell’ultimo decennio in Italia. L’articolo 41 della Costituzione recita, infatti, che l’iniziativa economica è libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale. Da sempre, scrive Giorgio Cremaschi sulle pagine di “Liberazione” del 15 settembre 2006: “In Italia il capitalismo ha considerato questo principio costituzionale carta straccia, ma in questi anni di liberismo siamo andati ben oltre il passato. Sono servizi fondamentali, che nel passato erano gestiti dallo Stato come beni pubblici, che sono stati sottoposti alle più brutali leggi del mercato finanziario. Si diceva che questo avrebbe prodotto efficienza e sviluppo, il risultato è l’esatto opposto. La rendita capitalista, che è cresciuta enormemente con le privatizzazioni, è finita tutta nella speculazione finanziaria. Dalle contraddizioni e dai limiti del monopolio pubblico si è passati alla speculazione sfacciata del monopolio privato. Da Alitalia alle Autostrade, passando per le Ferrovie, la privatizzazione ha solo peggiorato l’andamento delle imprese. Il caso Telecom è emblematico. L’impresa funzionava in mano pubblica, il centrosinistra insensatamente la privatizzò. E, come pare abbia ricordato l’attuale Ministro dello Sviluppo economico speriamo con senso critico sul proprio operato di allora, nei piani alti di Telecom si sono avvicendate tutte le grandi famiglie del capitalismo italiano, assieme ai nuovi capitani d’industria. E tutti hanno fallito [...] I capitalisti che hanno acquistato Telecom, Autostrade e tante altre aziende, l’hanno fatto senza capitali. Si sono fatti prestare i soldi dalle banche e poi hanno rimborsato i debiti prosciugando risorse e investimenti nelle aziende controllate. Telecom è stata scalata in debito da Colaninno e poi ceduta a Tronchetti Provera. Tutto questo ha prodotto un buco enorme nelle casse dell’azienda. Se questo è il caso più scandaloso, ne abbiamo tanti altri che spesso non raggiungono le prime pagine della cronaca. Pensiamo ad Avio, un’azienda all’avanguardia nella produzione di motori per aerei, che la Fiat ha venduto al fondo Carlyle (lo stesso che sciaguratamente appare nelle vicende Telecom), il quale dopo aver succhiato risorse se n’è andato, lasciando la fabbrica a un altro fondo che farà ancor più danni, mentre la proprietà pubblica, in mano a Finmeccanica, si riduce e sta a guardare”.22

Questa vicenda potrebbe insegnarci qualcosa, ma pare che non sia proprio così, anzi c’è la volontà di una coazione a ripetere: si veda il caso di Fincantieri, l’ultima delle grandi aziende a proprietà pubblica che sta per liquidare un immenso patrimonio di competenze e credibilità per collocarsi in borsa, a disposizione degli speculatori e dei corsari della finanza.

6.Il capitalismo ha sempre avuto molte facce, ma quella che vediamo oggi è la peggiore, sostiene Cremaschi, un “capitalismo delle cavallette”. Forse, conclude, non tutta la proprietà è un furto, ma quando il capitalismo finanziario si impadronisce di lavoro e beni pubblici e spreme le imprese per ottenere facili profitti, quando tutto questo accade, la proprietà diventa un furto sociale rappresentato anche dai redditi percepiti dai “manager” italiani, la Nuova Razza Padrona, quelli che chiedono alla prima manovra finanziaria del “nuovo” governo Prodi la riduzione del cuneo fiscale per il rilancio e la “competitività” delle imprese. I superemolumenti dei manager sono arrivati tardi in Italia rispetto agli USA. Ma ora, dopo gli scandali finanziari, è proprio di lì che vengono forti spifferi che rischiano di diventare un ciclone. John Kenneth Galbraith ha pubblicato (in Italia per Rizzoli) un feroce pamphlet intitolato ‘L’economia della truffa’, la cui parte centrale è dedicata ai superemolumenti e alle stock option dei manager. La sua tesi è che nelle società di capitale il potere è ormai del management, ‘una burocrazia che ha il controllo dei suoi compiti e dei suoi compensi. Compensi al limite del furto’. Questo è anzi additato come il principale evento economico del primo decennio del ventunesimo secolo: un sistema della grande impresa basato sull’illimitata facoltà di autoarricchimento, un sistema ‘in cui i privilegiati hanno l’ultima parola sui loro privilegi. Una truffa non del tutto innocente. Ma, dopo aver comprato tutto quanto si può comprare per rendere più agiata e piacevole la vita, che cosa fa un manager, che porta a casa un paio di miliardi di ex lire al mese, di tutto il denaro che inevitabilmente accumula? Potrebbe comprare l’azienda che l’ha arricchito, risponde Statera. È una domanda che non si possono certo porre quei “nuovi” poveri in giacca e cravatta. Di fronte agli effetti ormai allarmanti di quella che appare a tutti gli osservatori come una crisi profonda del nostro modello di sviluppo, negli ultimi anni la pubblicistica e gli studi di settore hanno prodotto diverse riflessioni sulle ragioni dell’impasse e - soprattutto - sulle ricette necessarie a superarla. Luciano Gallino23 punta il dito contro le politiche di privatizzazione e dismissione della grande industria di Stato, ma soprattutto sul saccheggio finanziario che ha messo in ginocchio i maggiori gruppi del capitalismo italiano, spesso consegnandoli ad un triste declino. Questo “bombardamento” delle strutture e dei saperi accumulati dall’industria tradizionale, nata o cresciuta nel dopoguerra, ha significato - secondo Luciano Gallino - una perdita irrimediabile di competitività, derivante dalla liquidazione di brevetti, sperimentazioni e, a causa della disgregazione delle grandi compagnie, della possibilità stessa di investire in ricerca e sviluppo. La sua analisi della liquidazione della grande industria, inoltre, assume toni morali che, dal punto di vista dei principi del liberalismo classico, non risultano certo fuori luogo: in una interessante conversazione con Serge Latouche, Gallino osserva che questo processo è il frutto della definitiva separazione tra la sfera economica e un qualsiasi principio etico dettato dalla politica, che ha rinunciato al compito di programmazione delle strategie di sviluppo del Paese, al “lungo respiro” richiesto a chi dovrebbe governare gli interessi di parte volgendoli all’utile comune. Questa egemonia dell’economia sulla politica, che ha introiettato regole e principi di valore del mercato, porta a valutare tutto in termini di PIL, profitti, costi, crescita d’impresa, come se ciò fosse di per sé misura dello stato di salute di una società. Secondo Barca24, che utilizza come osservatorio della crisi il Mezzogiorno, generalizzandone peraltro le difficoltà che ravvisa anche nel tessuto produttivo del Centro-Nord, accusa l’anacronismo degli assetti proprietari nel Paese, l’incapacità di rinnovare le strategie d’investimento e l’inefficienza del mercato dei capitali, un grado di concorrenza ancora troppo basso. Becattini25 individua, invece, un antitodoto a quello che definisce il «capitalismo ruggente di oggi»26 nella sostenibilità dello sviluppo locale, nel tessuto un po’ opaco della piccola e media impresa diffusa nei tanti distretti industriali italiani, che contemperano con il senso di appartenenza ad una comunita e un sistema di valori etici compatibili con il territorio l’aggressività della logica del profitto. Secondo Nardozzi, infine, una lettura dell’attuale fase di recessione produttiva ed economica può scaturire dal confronto con gli anni del “miracolo”, in cui il problema di arretratezza del tessuto industriale italiano fu affrontato con l’incentivo al tessuto produttivo (si consideri il sistema delle Partecipazioni) e la collocazione nei segmenti di mercato appropriati: «i tempi sono cambiati da quando nel dopoguerra la sua soluzione fu ritenuta un punto decisivo per il futuro del paese, ma la sostanza è la stessa: il confronto con la concorrenza. È un problema che ha origine in Italia, non fuori»27. Con questa posizione liquida, dunque, ogni tentazione protezionistica nei confronti dei Paesi dell’estremo oriente - in primis la Cina - accusati di competizione sleale attraverso il dumping, la contraffazione, l’impiego di manodopera sottopagata rispetto agli standard occidentali. La posizione di questi competitori, infatti, è analoga a quella occupata dall’Italia verso la fine degli anni Cinquanta, funzionale ai meccanismi globali della crescita complessiva e dell’avvicendamento sui segmenti del mercato, di cui i meno qualificati toccano sistematicamente ai paesi emergenti. Il disagio italiano deriva, piuttosto, dall’incapacità di occupare «mercati meno aggredibili e più dinamici»28. E dall’incapacità di inaugurare ricette, investimenti, programmi per raggiungere questo scopo, a differenza di ciò che stanno già facendo altri paesi europei come Germania e Francia29, in cui - come nel mondo in cui la realtà somiglia ai sogni - l’azione dello Stato è volta a facilitare le condizioni della crescita comune, quella degli imprenditori a produrre ricchezza e benessere, quella dei lavoratori e dei loro rappresentanti a contenderne quote adeguate al proprio peso nel processo di creazione del valore. Queste diagnosi, peraltro prodotte da economisti d’indubbio valore e di sicura fede progressista, si fondano sulla convinzione che la crisi in cui versa il capitalismo italiano sia di natura contingente piuttosto che strutturale, derivando da storture e insufficienze anziché dal logico sviluppo delle sue premesse. D’altra parte, un tale atteggiamento nasce - a nostro avviso - dall’indebita circoscrizione della crisi ad un arco temporale fin troppo breve, le cui fondamenta sono piantate negli anni Novanta o - addirittura - negli anni immediatamente precedenti all’introduzione dell’euro. In realtà, la crisi dell’attuale modello di sviluppo affonda le radici nel più remoto venir meno delle condizioni che l’hanno indebitamente alimentato: in Italia, in particolare, la disponibilità di una forza lavoro a basso costo proveniente dal mondo rurale e preindustriale antecedente al conflitto mondiale, e a lungo le condizioni vantaggiose cui avveniva l’approvvigionamento di combustibile, che gia all’inizio degli anni ’70, tuttavia, vengono meno. Con metodi più aggressivi e maldestri, oggi qualcuno tenta di ripristinare le condizioni del vantaggio, mediante lo sfruttamento intensivo del lavoro nero e della manodopera immigrata con l’istituzionalizzazione generalizzata del lavoro precario, e con la partecipazione a guerre strategiche in aree sensibili del pianeta, per il controllo delle principali riserve energetiche.

1 Per maggiori dettagli e approfondimenti sui temi in questo articolo si veda L. Vasapollo, Storia di un capitalismo piccolo piccolo. Lo Stato italiano e i capitani d’impresa dal ’45 ad oggi, Jaca Book, Milano 2007.

2 «Il capitalismo italiano è morto», sostiene Giuseppe Turani, ed è un giudizio che va oltre il profondo malessere segnalato. «Un capitalismo che non cresce più, che è diventato assolutamente marginale nel contesto internazionale, che gioca ormai soprattutto in difesa... è un morto che cammina». Cfr. G. Turani, Perché abbiamo il peggior capitalismo del mondo, Sperling & Kupfer, Milano 2004.

3 Più volte queste vicende s’incrociano con quelle del movimento dei lavoratori e della storia sindacale del secondo Novecento e dei primi anni del nuovo secolo: per un esame organico di tali avvenimenti e per il loro inquadramento socio-politico si rimanda al volume di Luciano Vasapollo e Donato Antoniello, Eppure il vento soffia ancora, Jaca Book, Milano 2004.

4 La Fiat nasce l’11 luglio 1899 «per iniziativa di un gruppo di imprenditori affascinati dalle prospettive dell’automobile: il conte Roberto Biscaretti di Ruffia, che già importava automobili da corsa dalla Germania, il conte Emanuele Cacherano di Bricherasio, l’avvocato Carlo Racca, Michele Lanza, un modesto produttore di candele (non per automobili, ma di cera), e l’avvocato Cesare Goria-Gatti, il redditiere Lodovico Scarfiotti, il banchiere e setaiolo Michele Ceriana-Mayneri, un agente di cambio, Luigi Damevino, e un terzo nobile, il marchese Alfonso Ferrero de Gubernatis di Ventimiglia. Giovanni Agnelli entra successivamente come relativamente piccolo azionista. Nell’assemblea dei soci, il consiglio d’amministrazione era stato formato solo dai “padri fondatori ricordati”». Cfr. Cento... e uno anni di Fiat, a cura di A. Moscato, Massari editore, Bolsena 2000, p. 11.

5 Cfr. Le grandi famiglie industriali italiane, in “L’Europeo”, periodico bimestrale, anno V, n. 6, 2006, p. 92.

6 Cfr. per maggiori approfondimenti, I grandi manager italiani, cit., pp. 90-93.

7 Cfr. ivi, pp. 392-400.

8 Cfr. http://italy.indymedia.org/news/2001/11/27041.php p. 1 di 7.

9 G. Nardozzi, Miracolo e declino. L’Italia tra concorrenza e protezione, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. vii.

10 Ivi, p. 5.

11 Cfr. M. Fortis, Il made in Italy, Il Mulino, Bologna 1998, p. 14.

12 G. Toniolo, Europe’s Golden Age, 1950-1973: speculation from a long run perspective, in “Economic History Review,” 1998, pp. 252-267.

13 Per una trattazione del modello e la sua applicazione al caso europeo del Dopoguerra, si veda M. Abramovitz e P. David, Convergenza e ritardo nella rincorsa: leadership produttiva e declino del vantaggio americano, in Gruppo di Ancona (a cura di), Trasformazioni dell’economia e della società italiana, Il Mulino, Bologna 1999.

14 G. Nardozzi, Miracolo e declino. L’Italia tra concorrenza e protezione, cit., p. 8.

15 Ben diverso, anche se meno sfavillante, fu il processo di sviluppo di altri Paesi europei, che riversarono una parte significativa delle loro risorse nella creazione dei grandi complessi alimentari, nell’agricoltura meccanizzata, creando immensi territori con razionali allevamenti di bestiame e relativi sottoprodotti (Olanda), nel confezionamento e nella distribuzione dei prodotti di prima necessità.

16 «Quasi i due terzi dell’output e dell’export del made in Italy provengono infatti da aree distrettuali o comunque da province specializzate» (M. Fortis, Il made in Italy, cit., p. 14).

17 Ivi, p. 69.

18 L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino 2003, pp. 11-12.

19 M. Fortis, Il made in Italy, cit., p. 76.

20 Il decimo Rapporto della Centrale dei Bilanci, nel 1995, registra che per le aziende con fatturato superiore ai 500 miliardi di lire il rapporto tra mezzi propri e passività totali è di 1/3 circa; per le aziende più piccole si riduce a 1/5. Aumenta, parallelamente, l’indebitamento a lunga scadenza.

21 Ivi, p. 130.

22 G. Cremaschi, La vicenda Telecom ci insegna qualcosa: la proprietà talvolta è un furto, in “Liberazione”, 15 settembre 2006.

23 A. Statera, Superstipendi ai manager, in “Affari&Finanza” di “Repubblica”, 07 giugno 2004.

24 Cfr. L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, cit.

25 Cfr. F. Barca, Italia frenata, Donzelli, Roma 2006.

26 Cfr. G. Becattini, Per un capitalismo dal volto umano. Critica dell’economia apolitica, Bollati Boringhieri, Torino 2004.

27 G. Becattini, Ricominciare dai luoghi del nostro vivere quotidiano, in Id., Per un capitalismo dal volto umano. Critica dell’economia apolitica, cit., p. 23.

28 G. Nardozzi, Miracolo e declino. L’Italia tra concorrenza e protezione, cit., p. 118.

29 Ivi, p. 119.

30 Mentre la Francia e la Germania, infatti, hanno prodotto investimenti e infrastrutture anche a costo di derogare ai livelli stabiliti dall’Unione per il Prodotti Interno Lordo (3%), l’Italia ha mantenuto un basso profilo, rinunciando a scommettere sulle proprie capacità di espansione. Cfr. G. Vaciago, Per tornare a crescere. Intervista sul futuro dell’Italia a cura di I. Ferrario, Il Sole 24 Ore, Torino 2005, p. 2s