Finte emergenze e reali disagi

Vincenzo Viglione-Paolo Graziano

Riflessioni su Rosarno e dintorni: l’aggressività del capitalismo italiano sugli immigrati e i lavoratori meridionali. Perché le esplosioni di violenza, che hanno colpito gli immigrati di Rosarno e Castelvolturno, non si spiegano a partire dai rigurgiti d’intolleranza delle popolazioni locali.

1. La gestione emergenziale del fenomeno migratorio

La questione dell’immigrazione, in Italia, subisce da anni il destino di altre problematiche che tengono banco sulle pagine e sugli schermi dei media nazionali. Quello dell’eterna emergenza. Come l’acqua, il dissesto idrogeologico e i rifiuti, l’arrivo quotidiano di decine, centinaia di persone in fuga dalla fame, dalla miseria o dalla persecuzione, proveniente dai quattro angoli del pianeta, continua ad essere soltanto materia di ordine pubblico: una questione di cui si occupa il dipartimento degli Interni, non già il ministro delle Politiche sociali, quello del Welfare o delle Pari opportunità. Per questo soltanto i falsi perbenisti possono sorprendersi per le esplosioni di intolleranza che periodicamente scuotono le pieghe del paese in cui si vanno stipando gli ospiti indesiderati (almeno quando l’economia non li richiede): sono lo specchio di una società educata dalla sua classe dirigente alla diffidenza e all’egoismo. Ma non basta. Dietro ai regimi di sfruttamento, al lucro vergognoso su fitti e “servizi” agli immigrati, all’apartheid quotidiano e alla violenza che scoppia a singhiozzi c’è, in alcune zone d’Italia, la regia occulta delle organizzazioni criminali, che hanno individuato nella gestione del conflitto tra immigrati e popolazione locale uno strumento fondamentale per perpetuare il regime aspro e inesorabile di sfruttamento feroce, che torna funzionale all’accumulazione vertiginosa prodotta mediante le economie criminali, in tutte i gradi e le sfaccettature: dal mercato clandestino degli alloggi alla tratta degli esseri umani, dalla droga al racket, dal lavoro nero stagionale alla prostituzione su larga scala. Rosarno e Castelvolturno sono da tempo, nonostante le differenze, due epicentri dell’“emergenza immigrazione”: qui sono avvenute, in modi e tempi stranamente simili, le prove generali della nuova gestione del fenomeno migratorio in Italia, dalle cause ai possibili, disastrosi effetti.

2. Antefatti Rosarno è un comune di piccole/medie dimensioni in provincia di Reggio Calabria, vertice settentrionale di un’area densamente popolata, con più di 180.000 abitanti censiti ufficialmente. A questi si aggiungono svariate migliaia di extracomunitari, impiegati nei lavori agricoli e nelle manifatture della dura, sterminata Piana di Rosarno. Dell’asprezza del lavoro della terra, qui in Calabria, parla già Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia (1953); tra gli anni ’50 e i ’70 le raccoglitrici di olive diedero vita a un ciclo di lotte che ottennero alcuni risultati sindacali, di cui oggi resta solo un esiguo numero di sussidi statali, più o meno fasulli, per le attività bracciantili. Negli anni ’80 e ’90, stagione di grandi flussi migratori in entrata, la Piana ha ospitato un numero crescente di lavoratori clandestini, stipati in stabilimenti industriali o agricoli abbandonati (come l’ex Opera Sila di Gioia Tauro e l’ex cartiera di San Ferdinando, sgomberata nel 2009), senza acqua, luce, gas e servizi. Nel 2010 la stima al ribasso parlava di 1500 presenze. Già nel dicembre 2008, questa comunità di “senza diritti”, esasperata dall’intolleranza e dalle condizioni di vita, aveva marciato in segno di protesta, dopo che un ventenne era stato ferito dai colpi esplosi da uno sconosciuto rosarnese. Ma l’episodio che dà fuoco alle polveri accade circa un mese dopo, il 7 gennaio 2010, quando vengono presi di mira tre lavoratori africani (tra l’altro muniti di regolare permesso di soggiorno), su cui si spara con un fucile ad aria compressa. Stavolta la reazione degli immigrati è istintiva e scomposta, la protesta dilaga in maniera pericolosa, coinvolgendo gli abitanti e le forze dell’ordine. Il giorno dopo 2000 immigrati si scontrano con i rosarnesi, che si sono armati di bastoni e organizzati in ronde. Al termine della giornata campale, restano feriti 18 poliziotti, 14 cittadini di Rosarno e 21 immigrati. A Castelvolturno la violenza era scoppiata poco più di un anno prima, feroce ma silente, come si conviene alle terre di camorra. La cittadina casertana, che vive da decenni nell’assoluta anomalia di una composizione sociale caratterizzata dalla presenza di un immigrato ogni tre residenti italiani, viene scossa nel settembre 2008 dall’uccisione a sangue freddo di sei giovani stranieri, vittime di un regolamento di conti tra gruppi criminali. Sono Kwame Antwi Julius Francis, Affun Yeboa Eric, Christopher Adams del Ghana, El Hadji Ababa e Samuel Kwako del Togo; Jeemes Alex della Liberia. Nessuno di loro, secondo gli accertamenti successivi, era coinvolto in attività criminali. Il giorno dopo gli immigrati diedero vita a una improvvisata sommossa, chiedendo a gran voce di essere difesi e di assicurare i responsabili della strage alla giustizia. Effettivamente, la strage poteva forse essere evitata: già il 18 agosto un commando di camorra aveva sparato contro la sede dell’Associazione Nigeriana Campana: una minaccia rimasta, dopo le indagini, senza responsabili. Sono bastati questi fuochi - bruscamente divampati e altrettanto presto dimenticati - a intervenire su un clima sociale così deteriorato. Vediamo.

3. Opinione pubblica Castelvolturno e gli immigrati. Un binomio più che ventennale caratterizzato da un intricato susseguirsi di luci, poche, e tante ombre che poco hanno giovato all’instaurarsi di validi presupposti d’integrazione. Un rapporto che svela tutta la sua complessità già agli occhi di quanti si trovano a percorrere i 28 km di litorale lungo cui si stende il comune castellano laddove, un disordinato alternarsi di zone presidiate quasi esclusivamente da extracomunitari dà l’impressione che indigeni e comunità straniere conducano una sorta di convivenza da separati in casa. Impressione tanto più netta all’arrivo in paese. Qui la presenza straniera è impalpabile, da queste parti, rivela Gino fotografo con studio in pieno centro storico, gli unici immigrati che vedi sono quelli che per un motivo e per l’altro devono raggiungere il municipio o la farmacia. Per il resto, hanno attività e servizi propri concentrati prevalentemente sulla Domitiana dove vivono una vera e propria esistenza parallela ai residenti. Palpabile, invece, è l’amarezza a tratti smorzata dalla cordialità con cui le persone che ascoltiamo rispondono alle nostre domande, come Lello giovane gestore del bar che fronteggia il comune che, deciso nel sottolineare che i castellani non ci stanno ad essere etichettati come razzisti, ci invita a comprendere il malumore di quanti sono costretti loro malgrado a fare i conti con episodi quotidiani, nel caso più semplice, di incidenti stradali in cui ti ritrovi di fronte persone che, sprovviste di documenti, assicurazione e quant’altro, il più delle volte abbandonano l’auto e scappano via. Banalità, forse, che celano problemi ben più seri. Come quelli sollevati da Raffaele, 25-30 anni fabbro, che spiega come l’assenza di documenti sia spesso sinonimo di clandestinità, totale sottrazione al pagamento di tributi e/o servizi di ogni genere, di lavoro nero. Elementi che favoriscono chi punta a sfruttare manodopera a basso costo pagando questi ragazzi 15-20 euro al giorno, realizzando di fatto un mercato che taglia fuori un qualsiasi residente alle prese con bollette e affitti tanto cari da costringere, ed è il caso di Raffaele, a far quadrare il bilancio facendo il buttafuori. Oltre ogni possibile interpretazione del fenomeno, ciò che accomuna le dichiarazioni raccolte è l’opinione che l’immigrazione non sia un problema in sé, ma lo diventa quando la presenza di immigrati raggiunge livelli troppo elevati. Molti degli intervistati, infatti, analizzano il problema dal punto di vista della sostenibilità offrendo soluzioni più o meno radicali. C’è chi, come Lello e Raffaele, invita i comuni limitrofi ad accogliere anch’essi quote di immigrati alleggerendo l’enorme carico che grava attualmente sulla sola Castel Volturno. Altri, invece, optano per soluzioni più drastiche, suggerendo di tagliare tutti i canali che possano in qualche modo favorire la presenza di migranti sul territorio. È il caso dell’ex sindaco Antonio Scalzone che nell’esporci il suo punto di vista, punta il dito contro il centro “Fernandes”, autentico punto di riferimento nella gestione dei problemi connessi ai flussi migratori, del quale propone la chiusura perché ritenuto più che altro crocevia per delinquenti che trovano in esso una porta spalancata verso una realtà in cui vivere clandestinamente rifornendo la manovalanza criminale. Ribadisce con forza, Scalzone, come già espresso in una lettera inviata al Ministro dell’interno Maroni, che la massiccia presenza di immigrati (stimata in 7/8.000 unità su 20.000 residenti) non può che complicare qualsiasi processo d’integrazione, soprattutto occupazionale in un territorio che conta 4 mila disoccupati locali, spesso dimenticati nelle varie strategie di contrasto al degrado socio-economico. A fare da contraltare al pessimismo dell’ex sindaco castellano, è l’aria che si respira in orbita scolastica. Al 1° circolo didattico statale, infatti, il prof. Roberto Di Lella e la preside Patrizia Comune puntualizzano che parlare d’integrazione da queste parti è banale. Le classi miste sono ormai alla terza generazione, e non si ricordano episodi che possano far pensare ad atteggiamenti d’intolleranza. Raccontano anche di come tra le varie ristrettezze che affliggono la scuola pubblica si riescono ad allestire attività pomeridiane volte all’integrazione non solo dei bambini ma anche degli adulti. Progetti finalizzati alla mutua interazione di stili di vita, attività lavorative, professioni religiose e quant’altro la cui cattiva gestione, in contesti sociali così delicati, rischia di alimentare ingiustificati nonché pericolosi sentimenti discriminatori, con risultati spesso tragici. Basti pensare ai fatti di Rosarno. La piccola cittadina in provincia di Reggio Calabria che poche settimane fa è salita tristemente agli altari della cronaca per quella rivolta degli immigrati di cui tanto si è raccontato quanto poco, forse, si è compreso. Centinaia di immigrati riversatisi per le strade mettendo letteralmente a ferro e fuoco la piccola comunità calabra per protestare contro il ferimento di due giovani extracomunitari. Di fronte alle violenze che accompagnarono la protesta il Ministro dell’interno, Roberto Maroni, fu il primo ad intervenire dichiarando che «In tutti questi anni è stata troppo tollerata, senza fare nulla di efficace, un’immigrazione clandestina che ha alimentato da una parte la criminalità e dall’altra ha generato situazioni di forte degrado», e ritenendo la classe politica regionale rea di non aver saputo organizzare dei validi servizi di integrazione, così come accade al nord. Interpretazione forse troppo semplicistica di una condizione che Jean-Léonard Touadi, parlamentare del Pd, nel definire drammatica, invitò lo stesso Maroni a non sottovalutare, ma ad analizzare con cura coinvolgendo prima di tutti gli stessi migranti. A loro, infatti, Touadi tramite un accorato appello si rivolse in seguito agli scontri di Rosarno, invitandoli a non trasformare i motivi della loro sofferenza in gesti di violenza urbana il cui unico risultato è quello di impedire di capire le ragioni del loro disagio.

4. Ma qual è il vero disagio? Un disagio che, a giudicare dalle recenti rilevazioni dell’Istat, ha ben poco a che vedere coi numeri relativi alle presenze straniere. Non si spiegherebbe infatti il perché episodi di questo tipo avvengono non in regioni che sfiorano il 10% di stranieri come la Lombardia e l’Emilia Romagna, ma proprio in quella Calabria che con i suoi soli 51.000 non italiani raggiunge a malapena il 3. Da Rosarno a Castel Volturno. 480 chilometri di distanza che sembrano non esistere, tanto è vicina la condizione di queste due comunità. E, a Rosarno come a Castel Volturno, diverse sono le voci che invitano a puntare l’attenzione non sugli effetti che una massiccia presenza di immigrati può potenzialmente scatenare, ma sulle cause di episodi come quelli che hanno scosso la cittadina calabra. Cause, come rilevato in un recente studio dell’Organizzazione Internazionale per le migrazioni (OIM), da individuare in condizioni di vita prossime alla schiavitù. Centinaia di persone ammassate in rifugi di fortuna, per lo più edifici e/o capannoni abbandonati e fatiscenti, che sopravvivono senza acqua corrente, né luce e in condizioni igienico-sanitarie ai limiti dell’umano, le cui braccia sottopagate e in nero vengono impiegate prevalentemente in lavori stagionali di raccolta degli agrumi, della frutta, dei pomodori. Situazione che di sicuro non porta serenità tra le comunità straniere, e che tantomeno allieta l’umore delle popolazioni residenti, che nel corso degli anni hanno dovuto a più riprese fare i conti con quello che i responsabili di comitati civici e associazioni operanti su questi territori hanno seccamente bollato come terrorismo mediatico, alimentato da stereotipi e pregiudizi destituiti di qualsiasi fondamento reale.

* Giornalista

** Insegnante, giornalista, ricercatore dell’Osservatorio Meridionale di Cestes-Proteo