Gli Stati Uniti nell’ordine monetario e finanziario internazionale: egemonia, squilibri e crisi globale

KATIA COBARRUBIAS HERNÁNDEZ

Introduzione

Recentemente la posizione egemonica degli Stati Uniti nell’economia mondiale è stata messa a dura prova. La polarizzazione del dibattito (non solo nella sua dimensione economica) è stata definita con estrema precisione dalle parole di Atilio Boròn, secondo il quale... “Le posizioni oscillano intorno a due poli: alcuni sono certi che, dopo la crisi degli anni Settanta, ci troviamo di fronte ad una ricomposizione dell’egemonia nordamericana sul piano militare, economico politico e sociale; altri autori, al contrario, aderiscono alla tesi che postula l’indebolimento degli Stati Uniti sullo scenario mondiale” (Boròn, 2004). Attualmente, al centro del dibattito c’è il tema delle relazioni monetarie e finanziarie internazionali. Questo articolo aderisce alla tesi che l’egemonia di cui gli Stati Uniti hanno goduto nelle relazioni monetarie e finanziarie internazionali, soprattutto dopo l’istituzione di un sistema di cambio basato puramente sul dollaro - una volta dichiarata la sua inconvertibilità in oro nel 1971- ha favorito la formazione di un ordine mondiale caratterizzato dagli squilibri, eppure funzionale agli interessi espansionistici dell’economia dominante. Tuttavia, questi squilibri hanno avuto come conseguenza l’indebolimento a lungo termine del dominio economico statunitense, causando una sorta di “effetto boomerang”.

1. L’egemonia monetaria e finanziaria come fondamento degli squilibri globali

Con la Conferenza di Bretton Woods del 1944 è nato il Sistema Monetario Internazionale (IMS), che ha garantito l’egemonia statunitense in campo monetario e finanziario. Il dollaro statunitense era al centro del sistema, ufficialmente unica moneta convertibile in oro; allo stesso tempo poteva contare sull’appoggio del Fondo Monetario Internazionale (IMF) e sulla Banca Mondiale (WB), istituzioni preposte alla difesa del sistema e create per assicurarne la funzionalità rispetto agli interessi della potenza egemone. Nel momento in cui, nel 1971, il sistema monetario dimostrò l’incapacità di sostenere la contraddizione tra fiducia internazionale nel dollaro e liquidità, conseguenza della struttura stessa del sistema1, gli Stati Uniti dichiararono unilateralmente l’inconvertibilità in oro del dollaro. Benché con minori vantaggi relativi, continuarono comunque ad essere la maggiore economia industrializzata, perciò gli altri paesi mantennero una quota sostanziale delle proprie riserve valutarie in dollari. Una volta eliminato il vincolo della convertibilità del dollaro in oro e istituito un sistema di cambi flessibile, gli Stati Uniti non trovarono più limiti all’espansione della propria valuta, potendo emettere milioni e milioni di dollari accettati come riserve in tutto il mondo. In questo modo “la Federal Reserve Bank (la Banca Centrale degli USA), divenne una sorta di banca centrale mondiale non ufficializzata, fornendo le riserve valutarie, l’unità di conto e, in alcuni casi, fungendo da prestatore di ultima istanza” (Mundell, 2009). Benché negli anni Sessanta gli USA fossero il principale creditore a livello internazionale, in conseguenza di processi interni ed esterni di durata decennale l’economia statunitense è ora la più indebitata al mondo. A partire dagli anni Ottanta si è registrata una crescita pressante dei consumi negli Stati Uniti, unita ad un calo del tasso di risparmio privato. Quest’ultimo era profondamente legato alla politica economica applicata nel corso del decennio, che rappresentò un cambio di rotta rispetto alla politica keynesiana fin’allora dominante. Il nuovo approccio, noto come reaganomics [ndt: neologia composta da reagan ed economics], prevedeva oltre alla riduzione del prelievo fiscale anche una politica monetaria restrittiva e una limitazione dell’intervento regolativo dello Stato. Gli avanzamenti tecnologici diedero grande impulso allo sviluppo dei mercati finanziari, nacquero nuove forme di investimento e nuove istituzioni finanziarie. Tutto ciò, unito alla diffusione di massa di internet negli anni Novanta e alla crescente deregolamentazione, fece sì che sempre più individui e famiglie entrassero nel mercato dei titoli. I guadagni ottenuti con le azioni contribuirono ad un boom dei consumi e ad un’ulteriore contrazione del risparmio privato. Più recentemente, il livello dei consumi è stato sostenuto, oltre che dalle rendite e da guadagni ottenuti sul mercato azionario, anche dal mantenimento di bassi tassi d’interesse, fino al 2004, e dall’aumento di prezzo degli immobili. Tali fattori hanno favorito l’indebitamento delle famiglie tramite rifinanziamento delle ipoteche e, nel caso delle famiglie con le rendite più alte, una tendenza all’arricchimento. Dunque, sono stati i fattori citati, nel corso di un trentennio, ad accentuare negli Stati Uniti la combinazione di elevati livelli di consumo e basso risparmio privato. La generazione di deficit fiscali è in tal modo divenuta una regola, deficit dovuti in primo luogo all’aumento delle spese per la difesa, nell’ottica della conservazione della superiorità militare, pilastro del dominio globale statunitense. Negli anni Ottanta le spese fiscali crebbero in fretta, soprattutto a causa della spesa militare, che aumentò con la politica estera reaganiana del “rovesciamento del comunismo”, e fu all’origine di un’espansione degli armamenti bellici. Alla fine degli anni Novanta, la situazione fiscale migliorò, per poi peggiorare nuovamente a causa dei tagli alle tasse e della crescente spesa militare dell’amministrazione di George W. Bush, a finanziamento della “guerra al terrorismo”. In conclusione, il basso livello del risparmio privato, combinato con l’alta spesa dell’amministrazione statunitense, hanno generato uno squilibrio strutturale: un ampio gap tra la disponibilità di risorse, cioè il risparmio interno, e i livelli di investimento. Il deficit di partita corrente, indicatore di tale gap, è in costante aumento dagli anni Ottanta, benché il peggioramento più forte si sia avuto tra 2000 e 2006, quando il gap ha raggiunto la cifra di 788 milioni di dollari. L’insufficienza del risparmio interno è stata ovviata semplicemente ricorrendo a risorse finanziarie esterne; così, anno dopo anno, gli Stati Uniti hanno accumulato debiti con l’estero per un valore di 2,4 milioni di dollari, equivalente al 19 % del PIL del 2007 (Jackson, 2008)2. Dal punto di vista globale questo significa un enorme squilibrio, dato che gli Stati Uniti assorbono con il proprio deficit circa il 70 % dei surplus sull’estero di Cina, Giappone, Germania e altri paesi creditori (UNCTAD, 2005). Questa situazione è stata determinata dalla posizione dominante degli Stati Uniti in campo monetario-finanziario, che ha finora permesso la vendita illimitata di titoli denominati in dollari, a sostegno della propria espansione economica. Tuttavia, si tratta di un’egemonia su vari livelli, complementari a quello monetario-finanziario. Uno di questi livelli, è rappresentato dal ruolo di guida degli USA nel processo di globalizzazione finanziaria. Quest’ultimo, basato sugli enormi progressi delle tecnologie informatiche e della comunicazione, nonché sulla deregolamentazione dei mercati finanziari, ha dato grande libertà di movimento ai flussi internazionali di capitali. Allo stesso tempo, banche e società si sono quotate in borsa, sono stati introdotti nuovi strumenti finanziari, nuovi prodotti, ed è aumentata la presenza degli investitori istituzionali sui mercati finanziari. Tutti questi fattori hanno favorito il processo di finanziarizzazione, manifestatosi nel rapido aumento del credito, delle attività finanziarie e della speculazione. Il fatto che gli Stati Uniti siano stati al centro di queste tendenze, ha permesso di promuoverle e di assorbire la gran parte della massa finanziaria messa in moto sui mercati internazionali. La preponderanza degli Stati Uniti all’interno del Fondo Monetario e della Banca Mondiale è stata un’altra manifestazione della sua egemonia finanziaria. In particolare il Fondo Monetario è stato protagonista nell’imposizione dei programmi di aggiustamento strutturale che, allineati alla politica poi configuratasi attraverso il Consenso di Washington, non erano altro che una reazione dei centri di potere coerente con il processo di globalizzazione. Tali politiche di liberalizzazione, deregolamentazione ed apertura, spiegano in parte il ruolo significativo svolto da molti paesi sottosviluppati nel finanziamento del debito estero statunitense. La liberalizzazione finanziaria promossa ha reso più ampia la partecipazione dei mercati emergenti ai mercati valutari e di capitali, facilitando il trasferimento di liquidità verso il Nord tramite diversi strumenti, quali: l’acquisto di buoni del tesoro statunitensi da parte delle banche centrali di paesi sottosviluppati, investimenti privati nei mercati di capitali nordamericani, ecc. Ad ogni modo, nel caso di molti paesi dell’Asia Orientale, il Fondo Monetario ha promosso, in risposta alla crisi finanziaria della fine anni Novanta, uno sviluppo orientato alle esportazioni. I surplus di partita corrente che ne seguirono fecero sì che questi paesi accumulassero una gran quantità di riserve monetarie. Queste ultime sono cresciute poiché, per incentivare le esportazioni, i paesi emergenti hanno dovuto sottostare ad una delle linee guida dettate dal Consenso di Washington: valute competitive. In tal modo queste economie hanno cercato di evitare l’apprezzamento delle proprie valute nei confronti del dollaro, intervenendo tramite le banche centrali sui mercati valutari e assorbendo una parte significativa dei flussi di capitale, in forma di riserve monetarie. Le politiche del Fondo Monetario hanno così dato luogo ad una situazione in cui l’accumulazione delle riserve in dollari rientra negli interessi dei paesi asiatici, ovvero evitare l’apprezzamento delle valute nazionali per tenere alte le esportazioni e il tasso di crescita. Tuttavia, allo stesso tempo, la situazione conviene anche agli Stati Uniti, che trova in questi paesi i maggiori creditori internazionali, contribuendo a mantenere lo squilibrio a livello mondiale. Gli Stati Uniti si sono dunque serviti delle istituzioni finanziarie internazionali e della propria egemonia economica per creare una situazione di interdipendenza globale. Così, come il Nordamerica era dipendente dalle importazioni per il sostegno dei livelli interni di investimento e di consumo, le principali economie creditrici hanno basato la propria espansione sulle esportazioni verso quel mercato. In tal modo, queste ultime dipendono sempre di più dall’acquisto di titoli nordamericani per mantenere la competitività dei prodotti sui mercati internazionali e assicurarsi che i titoli acquistati, denominati in dollari, non si svalutino. Secondo Beinstein (2008), il deficit statunitense e il tasso di indebitamento con l’estero sono conseguenza di una crisi di sovrapproduzione di portata mondiale. Le grandi economie al centro del sistema e le nuove economie emergenti hanno potuto crescere grazie alla capacità del mercato statunitense di assorbire prodotti e capitali. Si può dunque affermare che la situazione di squilibrio globale di cui stiamo trattando sia logica conseguenza del funzionamento distorto del sistema capitalista mondiale.

2. “L’effetto boomerang”: squilibri ed erosione dell’egemonia Come si è osservato, gli Stati Uniti hanno potuto mantenere un alto deficit di partita corrente in virtù, tra gli altri fattori, della posizione egemonica nelle relazioni monetarie-finanziarie internazionali. Tuttavia, l’assorbimento di risorse dall’estero e il crescente indebitamento, tollerato per mantenere l’espansione dell’economia, hanno eroso in modo evidente la posizione di dominio, descrivendo una sorta di “effetto boomerang”, espressione che richiama non solo l’insostenibilità di un simile modello di sviluppo, ma anche i costi presenti e futuri di tale modello. Uno degli elementi che ha suscitato maggiori perplessità tra gli accademici e i politici statunitensi è la forte dipendenza dello standard di vita statunitense dalla volontà dei creditori internazionali di continuare a finanziare il deficit interno ed estero. L’ampiezza di tale dipendenza è evidente se si pensa che gli Stati Uniti hanno bisogno di importare circa 3 mila milioni di dollari per ogni giorno lavorativo (Roach, 2007). Questa situazione è percepita a livello internazionale come un fattore di vulnerabilità, anche in termini geopolitici, poiché è evidente che agli Stati Uniti non conviene che altri governi o banche centrali abbiano, neanche in via teorica, la possibilità di sfruttare la posizione di creditori per manipolare o danneggiare gli interessi statunitensi. Una chiara dimostrazione degli effetti dell’esposizione verso l’estero dell’economia statunitense è data dal deprezzamento del dollaro avvenuto tra 2002 e metà del 2008. Si tratta di un processo legato all’eccessiva offerta di titoli denominati in dollari, e posti sui mercati azionari per cercare di coprire il debito estero. La gradualità della svalutazione è stata in parte dovuta agli interventi delle banche centrali di vari paesi, che, data l’interdipendenza dei mercati monetari e finanziari, miravano ad evitare l’apprezzamento delle proprie valute. Tuttavia, più significativo della svalutazione in sé, è il fatto che, stante per molte economie la minaccia di un continuo deprezzamento del dollaro, sono state frequenti le dichiarazioni da parte delle istituzioni di voler diversificare le riserve valutarie, aumentando la quota rappresentata dalle altre valute e dall’oro. Le autorità monetarie di paesi come Cina, Russia, Venezuela, Svizzera ed Emirati Arabi Uniti si sono già mosse in questa direzione. A ciò si aggiungono le dichiarazioni di vari governi di voler diversificare le valute utilizzate in transazioni di grande importanza come la compra-vendita di petrolio. Già nel 2000, l’Iraq aveva convertito le proprie transazioni petrolifere dal dollaro all’euro, e l’Iran, quarto produttore mondiale di petrolio, ha recentemente istituito una borsa internazionale (Iranian Oil Bourse- Borsa Iraniana del Petrolio), in modo che il petrolio, il gas e i petrolchimici iraniani siano scambiati tramite monete diverse dal dollaro. È chiaro che l’ascesa dell’euro ha dato impulso al sorgere di un atteggiamento diverso nei confronti della moneta statunitense. L’euro rappresenta un avversario credibile rispetto al predominante dollaro, soprattutto per quanto riguarda la denominazione dei prodotti d’esportazione, l’emissione di buoni, la presenza nelle riserve monetarie dei vari paesi, ecc. L’avanzamento dell’euro è un processo graduale, e tuttavia costante, che rende più difficoltoso per gli Stati Uniti reperire le risorse necessarie al sostegno del deficit di partita corrente. Numerose sono state inoltre le voci, nel contesto dell’attuale crisi economica mondiale, a favore di una reimpostazione del Sistema Monetario Internazionale. In particolare, è stata significativa la proposta avanzata dal governatore della Banca Centrale Cinese, che riguarda la creazione di una nuova moneta sovranazionale che funga da riserva internazionale, e che a lungo termine sostituisca il dollaro. Tale iniziativa può essere letta in diversi modi. Uno di questi è che le autorità cinesi, contando sul protagonismo della propria economia, vogliano sfidare il dominio del dollaro e favorire lo stabilirsi di un ordine monetario più aderente ai rapporti di forza esistenti a livello mondiale. Un’altra lettura possibile, è che le autorità cinesi stiano cercando di portare avanti una trasformazione dell’attuale ordine monetario, ponendo fine alla situazione di interdipendenza di cui hanno sicuramente beneficiato, ma che ha comportato anche l’accumulo di due trilioni di dollari in buoni del Tesoro USA, a rischio di deprezzamento nel caso in cui continui la svalutazione della moneta statunitense3. Un’altra espressione dell’“effetto boomerang”, che ha a che fare con la vulnerabilità del dominio monetario e finanziario dell’economia statunitense, è legata al futuro del finanziamento estero. Il risparmio del resto del mondo è stato orientato al sostegno di un consumo illimitato, minacciando seriamente la capacità produttiva nordamericana. Si tratta di una conclusione di grande rilevanza, poiché proprio la superiorità produttiva è stata uno dei fondamenti del dominio statunitense a partire dalla Seconda Guerra Mondiale (Eichengreen, 2000). In tal modo, il declino del predominio industriale, farebbe da premessa al definitivo tramonto del protagonismo del dollaro.

3. Gli squilibri esterni, l’attuale crisi economica e il suo impatto sull’egemonia monetaria e finanziaria degli Stati Uniti Nei primi anni del XXI secolo gli Stati Uniti hanno continuato ad essere al centro di una dinamica globale che univa, tra gli altri elementi, una sostanziale liberalizzazione finanziaria, l’applicazione continua di innovazioni tecnologiche e la comparsa di prodotti finanziari più complessi. Le pressioni competitive legate a queste tendenze, hanno spinto gli investitori ad invischiarsi in attività speculative più rischiose, basandosi su aspettative eccessivamente ottimiste. L’affluenza di capitale estero verso gli Stati Uniti ha contribuito a dare impulso a tali tendenze, così come ad incrementare la disponibilità di credito a bassi tassi d’interesse, aumentando il livello di indebitamento delle famiglie, i consumi e la crescita produttiva. In questo modo l’afflusso di capitale ha alimentato il boom della speculazione immobiliare, che ha trovato espressione nella quotazione in borsa dei crediti ipotecari e nella loro diffusione all’interno del mercato finanziario globale. Lo Stato non ha esercitato alcun controllo su tale speculazione, perciò quando la catena di operazioni finanziarie si è spezzata, a causa della massa di debiti insoluti, la bolla finanziaria è scoppiata (Martìnez, 2008). Numerose istituzioni finanziarie sono andate in bancarotta, facendo esplodere la crisi finanziaria più grave a partire dalla Grande Depressione degli anni Trenta. Al momento, non è possibile sostenere che i mercati finanziari nordamericani siano sicuri e ben regolamentati, e ciò ha eroso il clima di fiducia che per anni ha assicurato un elevato afflusso di capitali. Tuttavia, l’emergenza creata dalla crisi offre l’occasione di riflettere sulla complessità di alcuni fattori. Dalla metà del 2008, il processo di svalutazione del dollaro iniziato nel 2002 ha iniziato ad invertirsi. Nel marzo del 2009, il dollaro aveva recuperato il valore nominale di cinque anni prima. Questo sensibile apprezzamento del dollaro è avvenuto principalmente nei confronti dell’euro, della sterlina e del dollaro canadese. La spiegazione va cercata nel “salto di qualità” dovuto alla relativa sicurezza percepita dagli investitori esteri rispetto ai titoli nordamericani, in particolare verso i buoni del Tesoro, a dispetto delle difficili condizioni dei mercati finanziari. Per altro verso, la possibilità della Federal Reserve Bank (Banca Centrale degli USA) di emettere dollari senza dover garantire il corrispondente in oro o in altre attività di riserva, le ha permesso di immettere liquidità sui mercati in proporzioni mai viste, con l’obbiettivo di ristabilire il corretto funzionamento dei mercati finanziari. In termini fiscali ciò ha comportato costi considerevoli, dapprima con la Legge per l’Incentivo Economico promossa dall’amministrazione Bush nel 2008, e poi nel 2009 con il programma di recupero dei titoli tossici e con il piano per la ripresa messo in atto dall’amministrazione Obama. L’aumento del deficit fiscale e del debito pubblico generati da questi interventi potrebbero minare la fiducia della Cina e degli altri creditori internazionali verso gli Stati Uniti, frenando l’acquisto di buoni del Tesoro e ridando impulso al processo di svalutazione. I leader del G-20 si sono finora riuniti in due vertici straordinari per rispondere alle sfide poste dalla crisi. In entrambe le occasioni si è osservato un cambio di atteggiamento da parte dei leader delle maggiori economie mondiali, che hanno enfatizzato la necessità di stabilire delle regole ed un sistema più severo ed efficace di supervisione delle transazioni finanziarie, con una sfera di intervento pubblico più ampia. Tuttavia, va notato che durante i vertici non è stata citata la possibilità di una trasformazione profonda del sistema finanziario-monetario mondiale. La prospettiva generale è piuttosto quella della restaurazione del sistema stesso, confermando la legittimità di istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, fornendole di risorse finanziarie e ampliando la partecipazione alle stesse da parte dei paesi in via di sviluppo. È chiaro, inoltre, che gli Stati Uniti non daranno spazio alla discussione di una possibile riforma monetaria che sostituisca il dollaro come principale divisa di riserva internazionale. Secondo Mundell (1997), storicamente, il “superpotere” è stato un ostacolo alla riforma monetaria, perché in termini di sovranità ci sarebbe molto da perdere. Di fatto, il governo degli Stati Uniti e molti altri hanno rifiutato con forza la proposta citata, affermando la propria fiducia nel ruolo centrale del dollaro a livello mondiale. Gli Stati Uniti sarebbero favorevoli ad una riforma monetaria solo se questa rappresentasse un modo per eliminare le minacce alla propria egemonia (Mundell, 1997). Va considerato che a causa dell’alto livello di interdipendenza all’interno del sistema monetario-finanziario internazionale, gli Stati Uniti hanno scarse possibilità di agire in modo unilaterale, e sono costretti a mantenere la vendita di buoni del Tesoro ai propri creditori, in modo da poter finanziare gli ampi piani di ripresa economica messi in programma. Questo significa già di per sé una relativizzazione della preponderanza statunitense, il che spiega il motivo per cui gli USA stiano cercando una via d’uscita dalla crisi che eviti, allo stesso tempo, possibili sfide al dominio del dollaro. Un possibile riavvio della svalutazione del dollaro, unito ad una prolungata vulnerabilità dell’economia nordamericana, potrebbe dare impulso a cambiamenti di portata storica nell’attuale sistema monetario, indipendentemente dalla volontà degli Stati Uniti. Questo potrebbe verificarsi sia attraverso un maggior protagonismo dell’euro, sia mediante l’individuazione di alternative monetarie regionali o globali. Tuttavia, il configurarsi di un simile scenario dipenderebbe non solo dalla reazione statunitense, ma anche dagli esiti della crisi globale in termini di ripresa economica dell’Europa e delle principali economie asiatiche. Ciò in ragione del fatto che qualsiasi moneta alternativa a quella dominante, per fermare il movimento inerziale del sistema dovrebbe essere sostenuta da ampi mercati monetari e finanziari, che abbiano una considerevole dimensione economica, e da una ripresa dell’economia nel lungo termine.

4. Conclusioni Nella situazione attuale è evidente che, benché gli Stati Uniti, che emettono la moneta più usata come riserva internazionale, siano riusciti ad espandere la propria economia con l’aiuto di altri attori internazionali, non si sono però presi la responsabilità di vigilare sulla stabilità dl mercato monetario e finanziario. L’attuale crisi economica giunge dopo un trentennio di politiche neoliberiste che hanno imposto la deregolamentazione e l’abbandono di ogni controllo sui mercati, alimentando squilibri e bolle finanziarie di portata mondiale. È prevedibile che i modi in cui la crisi si sta manifestando e le possibili vie d’uscita che saranno tentate, metteranno a dura prova il dominio statunitense nel sistema finanziario e monetario globale. È importante tenere conto del fatto che se non verranno ridefiniti dei meccanismi di regolamentazione e supervisione del sistema finanziario nordamericano e globale, questo verrà riscattato a forza di salvataggi da parte dello Stato, riproducendo però gli stessi modelli che hanno causato l’attuale caos finanziario. Traduzione Giulia Alteri

* Ricercatrice del Centro de Estudios Hemisféricos y sobre Estados Unidos (Centro di Studi Emisferici e sugli Stati Uniti) Cuba.

1 Per garantire i livelli di liquidità necessari a sostenere la crescita dell’economia mondiale, gli Stati Uniti hanno accumulato ingenti debiti con l’estero. Allo stesso tempo, l’eccessiva offerta di dollari generata dai deficit ha logorato la fiducia nella valuta statunitense, senza che le parità ufficiali venissero adeguate. A lungo termine, questa struttura ha condotto inevitabilmente alla perdita di fiducia nella convertibilità del dollaro in oro, erodendo le basi stesse del sistema, che stavano proprio nella convertibilità.

2 Questa cifra corrisponde alla Posizione di Investimento Internazionale Netta, definita come la differenza tra lo stock di titoli statunitensi presenti all’estero e lo stock di titoli esteri presenti negli Stati Uniti. Questo valore è utilizzato come misura dell’esposizione degli Stati Uniti sull’estero, in base alla quantità di obbligazioni emesse e vendute.

3 Si stima che un’eventuale svalutazione del dollaro, con riequilibrio del valore dello yuan che implichi un deprezzamento del 20 % del capitale detenuto in buoni del Tesoro, significherebbe per la Cina la perdita di circa 400 mila milioni di dollari, ovvero il 10 % del PIL cinese. (Subramanian, Arvind, Is China Having It Both Ways?, Peterson Institute for International Economics, March 25, 2009, http://www.iie.com)