Settore automobilistico, la produzione modulare e i suoi effetti sulla forza lavoro

VLADIMIR CASTILLO, GUILLERMO CAMPOS RÍOS

1. Introduzione

Sin dalla seconda metà degli anni ‘90, è andato maturando, all’interno dell’industria, un cambiamento che ha avuto origine nel settore automobilistico: si tratta della cosiddetta “produzione modulare”. Il modo di diffusione di questo nuovo modello produttivo e dei suoi effetti sulla riduzione dei costi fanno supporre - ma con molta incertezza - che si estenderà al settore industriale e ad una vasta gamma di servizi, tra cui l’attività di riproduzione più elementare a livello familiare. La nascita della produzione modulare si deve al modello Toyota che, nella seconda metà degli anni ‘70, ha iniziato a dominare le forme organizzative della produzione automobilistica; quel modello racchiudeva una serie di tecniche che hanno reso possibile la crescita dell’efficienza produttiva mediante la gestione di inventari e la flessibilità della forza lavoro. Le tecniche come il just in time, il Kai-Zen e il Kan-Ban hanno migliorato la qualità e la produttività nella lavorazione automobilistica e hanno costituito la base della nascita della produzione modulare. Verso la fine del XX secolo, oltre che nell’industria automobilistica, la produzione modulare cominciava ad essere impiegata nei settori manifatturieri di grande importanza strategica, dimostrando anche di poter facilmente confluire in altre attività come i servizi. Nel corso degli ultimi 15 anni la produzione modulare si è presentata come l’elemento distintivo nell’organizzazione del settore automobilistico e in altre aree della produzione capitalista caratterizzate dall’elevata composizione organica del capitale, come l’industria aerea, quella dei macchinari, la tecnologia e la robotica. È stata comunque utilizzata nelle industrie che si fondano sull’uso intensivo della forza lavoro come, ad esempio, la produzione di abiti. Tutto ciò ha generato una polemica in cui, da un lato, si ritiene che siamo soli davanti a un approfondimento dello stesso paradigma toyotista e che si tratta di una integrazione di sistemi (JUÁREZ, 2005) e dall’altro si cerca di provare che ci troviamo di fronte ad un nuovo paradigma produttivo, visibile solo da poco tempo ma che possiede caratteristiche di forte differenziazione rispetto al toyotismo (CASTILLO, 2009). Anche se la modularizzazione non è ancora presente in tutti i settori dell’industria, essa tuttavia dimostra una tendenza ad imporsi in modo inevitabile, grazie alla sua logica di azione che le permette di diffondersi in tutti i livelli produttivi. In questo articolo si tenta di mettere in luce alcune differenze di base tra l’attività toyotizzata e quella modulare, ma soprattutto si cerca di mostrare gli effetti che questo nuovo modello di produzione genera sulle condizioni della forza lavoro, sia nelle necessità di formazione che nelle condizioni di vita. Si prenderà come base l’esperienza della modularizzazione in Messico. Il successo del toyotismo si inscrive nelle crisi delle principali economie mondiali, avvenute all’inizio degli anni ‘70 del XX secolo, in particolare durante la crisi di produttività dell’industria degli Stati Uniti, con il declino del fordismo e del taylorismo come modelli produttivi esistiti fino all’esaurimento del keynesismo e alla nascita delle teorie conosciute come “nuova ortodossia”. L’uscita da questa profonda crisi di produttività è stata possibile grazie a due tipi di azione: la flessibilità delle relazioni lavorative e l’eliminazione degli inventari. In entrambi i casi, la parte sostanziale di questo nuovo progetto è un “aggiustamento” delle condizioni di lavoro e degli schemi salariali degli operai. Le relazioni lavorative costituite dal taylorismo e dal fordismo sono state pensate dagli imprenditori come condizioni di “massima rigidità” che dovevano trasformarsi - attraverso la flessibilità - al il fine di abbassare i costi. In termini politici, il paradigma toyotista ha potuto contare sull’appoggio degli stati neoliberali che si sono imposti in tutto il mondo. L’imposizione del modello economico neoliberale ha comportato un cambiamento nelle relazioni tra la forza lavoro, l’organizzazione e il funzionamento dell’impresa. Da quel momento si è instaurata una relazione in grado di far diminuire i salari e gran parte dei diritti lavorativi ottenuti e protetti dai contratti collettivi e individuali. Grazie a mille eufemismi sono state promosse - per anni - campagne destinate a combattere la “rigidità” dei vecchi contratti collettivi; si proclamava l’intenzione di disfarsi dell’ “impero sindacale”, di “liberare” i rapporti di lavoro dalle pesanti ed inefficienti regolamentazioni dello Stato che ostacolavano i liberi movimenti delle imprese con i lavoratori. Allo stesso tempo, i ministeri del lavoro di ciascuno dei paesi che hanno adottato il capitalismo si sono rivelati, sempre più apertamente, come rappresentanti di questo nuovo modello di relazioni flessibili che di fatto aveva portato alla riduzione dei costi della forza lavoro. Questa tendenza ci offre un referente importante per capire in che direzione si sta dirigendo la nuova organizzazione della produzione. Tra gli anni ‘80 e gli anni ‘90 si è dato molto risalto a una nuova forma di capitalismo in cui le economie lottavano per il controllo delle innovazioni e degli avanzamenti tecnologici e per ottenere nuovi spazi nel mercato. L’aspetto tuttavia più importante ci rivela la tendenza dei cambiamenti relativi alle condizioni di lavoro e alla prevedibile lotta contro le prestazioni lavorative. I diversi modelli produttivi puntano le loro aspettative nella diminuzione dei costi e nella crescita dei profitti. Per Boyer un modello produttivo comprende almeno tre componenti che lo differenziano dagli altri: a) la politica-prodotto che fa riferimento all’integrazione che esiste tra i mercati e la loro segmentazione in base alla varietà nel volume, nella quantità di prodotti, così come nella qualità; b) la seconda si riferisce all’organizzazione produttiva che include le forme di organizzazione e i mezzi con cui si produce, si commercializza e si vende il prodotto; c) la terza si riferisce al rapporto salariale che segue le necessità e le richieste di mano d’opera in base alla forma in cui si produce (BOYER, 1996).

Il concetto di “Modello Produttivo” che si svilupperà in questo lavoro è il seguente: “Un insieme di elementi e procedimenti che danno forma a una strategia attraverso cui si organizza un determinato modo di produzione per la fabbricazione o l’elaborazione di un dato prodotto. Questa strategia promuove costantemente la diminuzione dei costi, l’aumento della produttività e quindi un ampio margine di guadagni”. La nascita di un nuovo modello o paradigma avviene attraverso una serie di prove all’interno di alcuni settori dell’industria che cedono, in questo modo, la possibilità di ottenere maggiore produttività e redditività, sia nell’organizzazione che nella produzione. Adottato come modello dominante, esso coinvolge anche gli altri settori dell’economia. In una versione semplificata della storia delle diverse forme organizzative della produzione possiamo osservare che, dalle prime produzioni artigianali di automobili alla fine del XIX secolo, identifichiamo subito il taylorismo e il fordismo come modelli predominanti fino alla metà del XX secolo. Questi due fenomeni storici hanno generato un forte movimento di lotte operaie che, a sua volta, ha portato al raggiungimento di condizioni lavorative protette da una legislazione che prevedeva la protezione sanitaria, la casa e, in alcuni paesi, anche misure che tutelano dalla disoccupazione. Con l’ascesa del toyotismo nella seconda metà del XX secolo si diede inizio all’eliminazione di tutte le antiche prestazioni e, anche se con debolezza organizzativa, si ebbero le prime lotte operaie. Durante gli anni ‘90, con la produzione modulare dell’industria dell’auto sono stati possibili dei cambiamenti nella struttura e nelle strategie di produzione che hanno reso possibile la distruzione delle antiche esigenze lavorative. Si sono smantellati i sindacati per favorire la comparsa dei cosiddetti sindacati “bianchi” diretti dai padroni; i contratti collettivi sono stati sostituiti dagli “accordi di produttività”; sono stati adottati nuovi ritmi produttivi che prevedevano vacanze anticipate, accettazione di un periodo di interruzione del lavoro per ragioni tecniche imposte dalla dirigenza, orari discontinui e l’entrata di imprese in subappalto per la realizzazione di compiti che un tempo venivano svolti dagli operai dell’impianto. Si è così concretizzato l’obiettivo di una produzione “snella” riguardo alla forza lavoro. Proprio in quel periodo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIT) reclamava la necessità di produrre e vigilare sulla creazione non solo del lavoro, ma del “lavoro decente”. Le strategie di produzione nate nell’industria dell’auto hanno guidato la produzione industriale capitalista nel suo insieme; la necessità di generare aumenti nella produttività all’interno ha propiziato cambiamenti e proposte che sono risultati adeguati per gli interessi imprenditoriali anche se sono sempre stati sostenuti da forti diminuzioni relative ai benefici dei lavoratori dell’industria dell’auto. È per questo che non sorprende che la produzione modulare si presenti come il modello produttivo più complesso e allo stesso tempo più efficiente rispetto ai precedenti; ora la produzione di auto (qualsiasi sia la marca e il luogo di fabbricazione) non rappresenta una sola organizzazione o una sola ditta, ma una comunità o un gruppo di imprese. La transizione della produzione nazionale verso nuove enclave produttive estere risponde alle necessità delle grandi case automobilistiche di ridurre i costi, la domanda dei consumatori e la stessa logica del capitale. Questa tendenza rientra nelle pratiche della globalizzazione che cerca continuamente la standardizzazione dei procedimenti e dei prodotti. Come abbiamo già detto, la destinazione dell’investimento diretto è un indicatore importante per le decisioni che prendono le grandi case a proposito dei nuovi impianti: si nota infatti la tendenza a guardare verso paesi sottosviluppati in cui la rigidità del settore lavorativo può essere diminuita o addirittura eliminata. Come è logico risultano molto più facili le negoziazioni con i governi di questi paesi per maggiori incentivi fiscali e materiali. Con la saturazione del mercato dell’auto nelle economie avanzate, soprattutto per quanto riguarda le grandi case giapponesi e asiatiche, la competizione all’interno dell’industria è tornata ad essere molto forte e la sopravvivenza si è orientata verso la ricerca di strategie di riduzione di costi, che promuovevano la specializzazione nazionale con strutture di produzioni regionali. L’investimento straniero ha creato “isole” di industrializzazione che hanno generato piccoli effetti all’interno dell’economia locale, negando molti dei principi dell’economia tradizionale circa la lavorazione produttiva e provocando un certo margine di isolamento rispetto ai sistemi economici regionali (LYNCH, 1999: 2-4). L’unico impatto è avvenuto nell’occupazione che è sempre meno e peggiore. Le auto hanno migliorato la loro qualità e i posti di lavoro hanno perso i livelli di protezione. Le costanti necessità di innovazione, di progettazione e di sviluppo tecnico, prodotto della competizione tecnologica-produttiva, trovano una soluzione fattibile nella cooperazione tra le grandi case, per cui entrambe, sia quella produttrice che quella fornitrice assumono rischi e allo stesso tempo condividono i benefici. Negli ultimi anni il Messico ha visto l’arrivo importante di un gran numero di imprese multinazionali con tecnologie influenzate dalle necessità delle grandi casi produttrici dell’industria dell’auto; tutto ciò si è tradotto in un vincolo sempre più inseparabile delle imprese “ancora” con le imprese legate all’elettronica, facendo di questa configurazione una dimostrazione di quello che succede su scala mondiale tra il settore elettronico e quello automobilistico. La vasta integrazione del settore dell’elettronica con quello dell’auto, avviene, più o meno, in tre modi: 1) attraverso la sostituzione delle vecchie componenti che svolgevano funzioni determinate con nuove componenti elettroniche; 2) attraverso l’integrazione di sistemi elettronici con nuove funzioni, o con nuovi sistemi di navigazioni, con i computer, l’intrattenimento o la sicurezza; attraverso i processi di combinazione o ibridazione, ossia, si integra una funzione vecchia con un complemento elettronico nuovo, come il sistema di freni a disco o il sistema di accelerazione (LARA, A. 2001); 3) il contesto attuale dell’industria dell’auto mostra chiaramente una fase di trasformazione del settore, il cui destino si unisce in modo intenso con il destino delle case fornitrici, ossia con l’industria delle parti meccaniche.

2. Produzione modulare: modello produttivo in ascesa o un semplice mito? La produzione modulare, sin dalla sua apparizione negli anni ‘90, ha determinato la crescita del ruolo dei fornitori, poiché condividono le responsabilità dei processi di manifattura, logistica e progettazione. Questo processo di consolidamento è avvenuto soprattutto nell’industria delle parti meccaniche, processo che non è stato condotto solo dalle ovvie differenze nel lavoro e nei costi di trasporto, ma da una complessa combinazione di localizzazioni del processo di insieme, dalle politiche di governo in cui si stabiliscono gli impianti, dai ruoli mutevoli degli stessi fornitori, dalle nuove responsabilità nella progettazione e nella modularizzazione che a volte assume il nome di outsourcing (LYNCH, 1999:12). Oltre a questa situazione nell’industria delle componenti meccaniche possiamo trovare un processo di aggiustamento caratterizzato dalla diminuzione del numero di fornitori e dallo stabilimento di queste imprese vicino agli impianti di assemblaggio, ossia ciò che viene nominato Clusters. Questo si verifica nel segno delle politiche di riduzione dei costi degli impianti di assemblaggio che selezionano le imprese più efficienti, così come quelle orientate a garantire i circuiti stessi della fornitura. Questo riduce il numero delle imprese fornitrici in prima linea, che sono tutte multinazionali e riduce ancora di più le possibilità di dominare le imprese regionali o nazionali. Huberto Juárez afferma che “i fornitori si sono avvicinati sempre di più alle linee di montaggio: da un lato il concetto di just in time esige che i luoghi di fornitura siano vicini alla fabbrica in modo tale da garantire la sincronia del processo; dall’altro, i sistemi di organizzazione Kan-Ban fanno sì che il controllo delle scorte sia sufficiente e veloce per mantenere la continuità del processo” (JUÁREZ, 2003: II, 82). Per questo autore, una fabbrica di fine XX secolo è quella che possiede questi elementi, oltre a strutture semplificate di salari e a una ridotta attività sindacale, ciò che chiama: l’ideale della fabbrica capitalista. Questa struttura dell’organizzazione hanno fatto sì che le grandi case o i grandi produttori di auto funzionassero omogeneamente. La collaborazione dei subappaltatori e dei fornitori nella fabbricazione di determinati moduli di automobile sta segnando l’insieme dell’industria dell’auto sin dagli anni ‘90. Durante la conferenza sulle “Catene di forniture”, sulla scia delle conferenze sulla Globalizzazione e sull’Industria dell’auto, Sturgeon ha parlato dell’esistenza di due importanti tendenze nel settore delle componenti meccaniche: deverticalizzazione nell’assemblea e aumento della dimensione media delle ditte fornitrici che danno vita, nel settore dell’auto, a due scenari distinti. Gli assemblatori stanno creando un settore delle componenti meccaniche sufficientemente forte per riformare l’equilibrio dell’influenza tra gli assemblatori e i fornitori; tutto ciò è spiegato dallo sviluppo dei processi e dall’innovazione dei prodotti, così come dall’ottenimento di patenti che uscivano direttamente dai centri di ricerca delle ditte fornitrici. In questo momento la complessità e la gamma dei compiti svolti dai fornitori suggeriscono il fatto che possono virtualmente fare veicoli per se stessi, o in ultima analisi, la loro competizione e i loro clienti attenuano la dipendenza dal settore dell’assemblaggio (LYNCH, 1999:13-14). In un generico schema sulla produzione di automobili si possono evidenziare i principali moduli delegati ai vari fornitori, divisi in tre segmenti (sistema interno, sistema elettrico ed elettronico e sistema del telaio). In tale ipotesi i fornitori hanno in mano praticamente la totalità delle componenti dell’auto, oltre altri prodotti di base come le ruote. La ditta ha il compito di assemblare l’insieme dei moduli, così come della progettazione, della vendita e dell’assemblaggio di un prodotto derivato di una società di sottoproduttori che partecipano direttamente alla fabbricazione dell’auto. La produzione modulare ha reso possibile che il fornitore si inserisca direttamente con i propri operai nell’assemblaggio del modulo nella stessa linea della impresa “ancora”. Ovviamente, i suoi operai saranno assunti con un salario e con benefici minori rispetto a quelli dei lavoratori della fase di assemblaggio. Non sono state affatto poche le proteste degli operai della Volkswagen a Puebla contro gli operai della ditta fornitrice che svolgono lo stesso lavoro con una remunerazione minore, ma la cosa più grave, senza i benefici di anzianità, salute e vacanze, ecc. Ora l’integrazione dei fornitori include tutti i processi stessi della fabbricazione di una automobile e ancora di più la fornitura dei servizi, come ad esempio i servizi di mensa, giardinaggio e vigilanza. Questa nuova organizzazione ha come principi base il concetto di cooperazione e la politica delle imprese terminali che trasferiscono quelle attività che non sono consone alla loro natura. Questi due elementi ci danno un indizio per comprendere l’intervento più grande dei fornitori per quanto riguarda la fabbricazione dell’auto (JUÁREZ, 2003: 84). La Federazione Internazionale degli Operai Metalmeccanici stabilisce cinque precetti che sostengono la fabbrica modulare integratrice di sistemi: 1) I fornitori associati progettano, sviluppano e installano quattro moduli di componenti. 2) Tra i 5 e gli 8 associati fornitori cooperano per dirigere il nuovo stabilimento. Il 35% del finanziamento viene elargito dai fornitori. Quindi i fornitori parteciperanno proporzionalmente ai profitti. 3) I fornitori stabiliranno la propria logistica. 4) Pagheranno parte delle spese generali dell’impianto. 5) Le auto saranno pagate veicolo per veicolo e solo quando un veicolo passa l’ispezione finale. Questi precetti vengono presentati in due progetti sviluppati da VW negli impianti di Resende, in Brasile, e a Mosel, in Germania, verso la metà degli anni ‘90. Entrambi i progetti coniugano una partecipazione maggiore e più dinamica nella totalità del progetto. Il progetto brasiliano ha come caratteristica il fatto che i processi di fabbricazione dei moduli di tutti i soci vengono fatti sotto lo stesso tetto, inoltre l’impianto si trova in un greenfield, ossia uno spazio in cui c’è poca attività industriale e sindacale. I lavoratori non sono impiegati della VW ma dei fornitori e questi, a loro volta, sviluppano le loro funzioni rendendosi responsabili di una parte della linea e focalizzandosi su un modulo specifico. Il concetto di greenfield come area in cui non c’è rappresentanza sindacale si è diffuso enormemente, e, attualmente, i paesi dei Caraibi e dell’America Centrale si litigano gli investimenti stranieri, promuovendo il fatto che nei loro paesi esistano molti vantaggi nelle zone in cui viene proibita la sindacalizzazione, ossia aree in cui non esistono i contratti collettivi e gli scioperi. Questo tipo di relazione tra il capitale e il lavoro è l’ambiente che cerca la produzione modulare per riuscire a mantenere alti livelli di efficienza produttiva, però la proposta è molto chiara: alla produzione modulare ci si arriva con un po’ di cambiamento tecnologico, con un po’ di riorganizzazione amministrativa e con molto sfruttamento degli operai. La produzione modulare, il cui sviluppo non rompe con la tradizione degli antichi schemi produttivi, si presenta, all’interno dell’industria dell’auto, come la sintesi di esperienze diverse. Questo è ciò che porta a confondere alcuni ricercatori che vedono il processo isolato da ciò che avviene negli altri settori della produzione. I moduli hanno origine nello sviluppo dell’outsourcing che non è altro che il risultato delle politiche di de-concentrazione dei processi di fabbricazione negli impianti di assemblaggio; tutto ciò con il proposito di raggiungere gli obiettivi di qualità e dei tempi di consegna (JUÁREZ, 2003: 90). Comunque questo schema si trasforma nel settore delle maquiladoras3 in cui il funzionamento si modifica e ciò che rimane invariata è la logica. La logica dell’outsourcing consiste nel sostituire, attraverso nuove forme, l’azione dei fornitori che si incaricano dell’erogazione di materie prime, articoli semi-elaborati, componenti, moduli e servizi, che precedentemente erano a carico delle imprese “ancora”. Ossia è il modo in cui si materializza la flessibilità produttiva, che fino ad ora si era analizzato solo come una proposta applicata in una sola impresa che generava spazi di azione produttiva che permetteva di abbassare i costi. In questo modo l’outsourcing appare come un servizio esterno rispetto a ciò che si realizza nell’impresa, ma che allo stesso tempo forma parte della sua estensione. Dal punto di vista dell’impresa “ancora”, il fornitori le somministra una frazione delle sue attività e delle sue entrate che, nell’ottica del processo produttivo, appaiono come prodotti semi-elaborati poiché sono solo un segmento del risultato finale. Questo circuito di fornitura è uguale sia nelle fasi pre-flessibili che in quelle flessibili, la differenza sta nel fatto che le entrate semi-elaborate flessibili sono prodotti molto complessi. Hanno un’alta componente tecnologica realizzata dall’impresa fornitrice e non da quella “ancora”; si tratta di prodotti con un’elevata struttura produttiva detta anche moduli. Questa complessità tecnologica e produttiva della fornitura non elimina la dipendenza economica dell’impresa appaltatrice del servizio. Questo schema può essere ripetuto anche se la fornitura non è complessa; se si mantiene la logica di integrazione dei moduli è possibile trasferirla ad altri tipi di industria. L’outsourcing cerca di ridurre la struttura dei costi dell’impresa, attraverso lo spostamento di alcuni compiti o attività che gli risultano più complessi o i cui costi sono alti, verso i subappaltatori specializzati (ROTHERY, B. 1996: 64-67). Questa nuova società tra impresa e fornitore viene facilitata dalle seguenti caratteristiche: • Si riducono i costi nel processo manifatturiero e nell’investimento fisso; • Per l’impresa ancora si riduce l’impianto lavorativo che viene assorbito dal subappaltatore; • Si condividono i rischi, le perdite e i guadagni; • L’impresa che svolge outsourcing può accedere alla tecnologia avanzata che migliora, di fatto, la sua produttività; • Maggiore flessibilità dell’impresa che si riflette nella riduzione delle attività e della gestione.

Finora abbiamo analizzato gli aspetti positivi dell’outsourcing ma si sa bene che l’uso di questa alternativa dà dei rischi e provoca danni che possono andare da una cattiva applicazione dell’outsourcing, alla scelta sbagliata del subappaltatore, a un contratto non soddisfacente, fino ai conflitti interni all’impresa. L’outsourcing è presente sin dalla nascita del toyotismo; da quel momento scaturì una nuova forma di relazione che in seguito si sarebbe consolidata con la produzione modulare; attualmente è diventato un’estensione dell’impresa. Dobbiamo considerare che l’outsourcing è il fenomeno predominante delle forme organizzative di una impresa, caratteristica che consideriamo parte del modello produttivo in ascesa: la produzione modulate non è solo outsourcing, dato che ha una visione generale e complessa della produzione. Non si tratta solo di un avanzamento nel controllo amministrativo delle imprese complesse, è una nuova logica produttiva che può essere applicata anche ad imprese più semplici. La produzione modulare si espanderà in tutto il mondo e in tutte le imprese e anche in altri settori economici come l’agricoltura e i servizi. Sarà in grado di sottometterà alcuni lavori che passeranno nelle mani delle ditte fornitrici che li realizzano con meno risorse. Senza alcun dubbio, in questo momento l’imposizione di questo nuovo modello produttivo provoca forti disagi alle condizioni di vita dei lavoratori. Il sistema capitalista lo sta applicando senza riscontrare resistenza; è ovvio però che bisognerà aspettare ancora perché si possano organizzare campagne di resistenza e lotta che diano la giusta direzione al cambiamento delle organizzazioni sindacali.

3. Conclusioni Una prima conclusione la troviamo nel modello di relazione tra la crisi capitalista, la crisi dell’industria dell’auto e la possibilità di avere un rimbalzo delle suddette crisi attraverso l’adozione di nuovi paradigmi tecnologici in grado di riorganizzare l’attività della forza lavoro. La ricerca del profitto e della redditività è una costante nei vari meccanismi di cambiamento e di adeguamento produttivo; per questo è necessario un ambiente che abbia alti livelli di produttività e sviluppo. Durante il cambiamento, il modello produttivo rende manifesta la complessa configurazione che si eredita da un modello all’altro e le differenze diventano sempre più percettibili. In questo contesto, risalta la trasformazione, che a nostro avviso dimostra una tendenza alla modularizzazione, nella relazione tra le ditte della catena produttiva. Il livello di cambiamento nelle imprese è visibile e bisogna che coinvolga tutto il settore manifatturiero. I fornitori, con la loro esperienza e specializzazione grazie all’uso della tecnologia, diventano più competitivi rispetto alla grande impresa; in questo modo si viene a formare una società di fornitori che crea il prodotto finale. Quanto detto finora dimostra che questa società si fonda sulla competizione e sulla riduzione dei costi, visto che la grande impresa delega la produzione e molti dei guadagni ai fornitori; è come un atto “involontario” ma necessario per mantenere la competizione industriale e capitalista. È doveroso allertare le strutture organizzative degli operai sulla necessità di cambiamenti nelle strategie di negoziazione e nella ricerca di lotte collettive che includano gli operai della ditta fornitrice. Alla grande capacità di negoziazione tra le imprese si deve contrapporre una più vasta e solida organizzazione di classe. Traduzione Violetta Nobili

1 Laureato in Economia presso la Benemérita Universidad Autónoma de Puebla (BUAP), Messico.

2 Professore e ricercatore presso la Facoltà di Economia della BUAP.

3 Stabilimenti industriali posseduti o controllati da soggetti stranieri, ossia sono fabbriche che lavorano con contratti di subappalto [N.d.T.].

Riferimenti bibliografici

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