I partiti tra reinvenzione e rinnovamento

Mauro Fotia

1. Il processo di delegittimazione dei partiti

 

Rpartiti italiani così come oggi si propongono non sono più credibili. Essi appaiono a) poveri di idee e di programmi rispondenti alle aspettative dei cittadini, b) privi di strategie di largo respiro, c) lacerati tra di loro e dentro di loro da lotte di mero potere, d) dominati all’interno da oligarchie staccate dalla base e tutte volte a perseguire interessi di gruppo minoritario privilegiato. Un tale quadro risulta, poi, in tutta la sua disfunzionalità se a questi cinque tratti si aggiunge quello relativo all’esasperata frammentazione nella legislatura in corso dentro il parlamento italiano, si contano più di cinquanta partiti e partitini, i quali, sia sotto il profilo politico che sotto quello istituzionale originano una pesante situazione di stress, influenzando negativamente l’intera area delle relazioni tra forze sociali e vita pubblica.

Sul primo piano non poche delle microformazioni partitiche hanno la loro esclusiva ragion d’essere nel far capo o a personaggi noti ma politicamente consumati e come tali totalmente disancorati da ogni rapporto con la società o a uomini quasi sconosciuti, suscettibili di acquisire visibilità politica solo mediante l’assunzione di un ruolo di leadership in politica, visto che nella competizione sociale rimarrebbero appunto ai margini dell’arena. Sul piano istituzionale esse danno vita alla proliferazione dei gruppi parlamentari, alla fluidità degli stessi, alla conseguente, continua espansione del gruppo misto che raccoglie i numerosi fuorusciti dalle varie formazioni [1].

Sì che non stupisce che la realtà partitica del nostro Paese risulti collassata. Gli iscritti sono fortemente diminuiti. Solo per fare un esempio, e significativo perché riguarda i Ds, vale a dire, il partito di maggioranza relativa, essi da 1 milione e 800 mila del 1971, nel 1999 sono calati a circa 800 mila, perdendo quasi 100 mila unità solo nel 1998. I militanti sono divenuti una specie rara. I giovani vi si tengono lontani, anzi, sembra avvertano una vera e propria ripugnanza. Molte sezioni hanno chiuso, il funzionariato è stato drasticamente ridotto (solo in seno ai Ds dalle 2.407 unità del 1989 si è passati alle meno di 400 di oggi). La stampa stenta a sopravvivere.

Così pure sul piano elettorale trovano più adeguata spiegazione sia la crescita dell’astensionismo sia il calo dell’identificazione col partito votato.

In ordine al primo fenomeno, dati non poco significativi provengono da una ricerca condotta da Bingham Powell. Su trenta paesi, dal 1960 al 1978, l’Italia risulta al primo posto per il livello di partecipazione elettorale. Mentre la media delle nazioni considerate si attesta sul 76 per cento, il nostro Paese raggiunge il 94 per cento di partecipazione [2]. Dal 1979 in poi, invece, l’astensionismo, come mostra Arendt Lisphart in un indagine realizzata in venti democrazie industrializzate, è in crescita costante e supera nel ritmo di avanzamento quello degli altri paesi analizzati: la media italiana della partecipazione elettorale nel solo ventennio 1976-1996 verifica un calo di oltre dieci punti percentuali mentre la media delle altre nazioni registra un calo di cinque punti [3].

Una particolare accelerazione del fenomeno, aggiungiamo noi, si registra nell’ultimo quinquennio, in concomitanza con l’avvio della trasformazione del sistema dei partiti e l’introduzione di nuove logiche competitive nonché di diverse modalità di svolgimento delle elezioni.

Importante è rilevare peraltro che l’elevato tasso di partecipazione italiana del primo ventennio prima ancora che a fattori normativi ed istituzionali (obbligatorietà del voto, rappresentanza proporzionale), viene attribuito, seppur non esplicitamente, ad un radicamento sociale dei partiti.

Quanto all’identificazione col partito votato, l’Italia, fra le nazioni studiate, risulta - ed è questo un dato comune a tutte le ricerche - quella a maggiore sfiducia nei partiti e negli uomini politici, a più alta insoddisfazione per il funzionamento del sistema politico [4]. E perciò risulta in calo non solo l’identificazione non partecipe ma anche quella partecipe. La prima caratterizza coloro che hanno una forma di legame col partito acquisita passivamente attraverso l’appartenenza subculturale o le reti di relazioni personali e familiari. La seconda sottolinea coloro che scelgono il partito sulla base di consapevoli motivazioni ideali e programmatiche [5]. Negli uni e negli altri la relazione emozionale col partito perde progressivamente di intensità sino a sfociare nell’indifferenza emotiva.

 

 

2. Il governo di partito

 

Il nesso tra la situazione descritta e la consolidata pratica del modello del governo di partito (party government) è evidente [6].

Tale modello, come è noto, trova legittimazione e sostegno in particolare nella vita politica americana e britannica (presso quest’ultima assume la denominazione di “modello di Westminster”) [7]. L’idea di fondo, in particolare nella pratica inglese, è che il principale compito dei partiti al governo consista nel far funzionare in modo stabile ed efficiente le istituzioni dello Stato, a partire dal parlamento. Ciò può accadere perché, grazie all’unità raggiunta attraverso l’organizzazione dei parlamentari in partiti, il legislativo si mostra in grado di garantire una coerente, prolungata attività di governo [8].

Sull’astrattezza teorica ed i limiti e le contraddizioni operative di siffatto assunto la già ricca letteratura politologica trova sempre nuovi apporti.

In ogni caso, nel nostro Paese la pratica del modello in questione ha portato ad uno snaturamento della stessa ragion d’essere dei partiti. Questi ultimi erano nati con il compito di essere a) i tramiti principali della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, b) i protagonisti del reclutamento del ceto politico, c) le forze di elaborazione delle politiche pubbliche, esprimenti quello che i giuristi chiamano “indirizzo politico” del parlamento e del governo. Con l’avvento del modello in questione essi vengono invece ad impossessarsi di tutti i principali poteri di decisione e di nomina, attribuendosi la guida e il controllo dell’intera vita istituzionale dello Stato e degli altri enti pubblici (regioni, provincie, comuni, ecc.), nonché del parastato. E così nominano di fatto (formalmente, com’è ovvio la loro si configura come una semplice designazione) non soltanto i policy maker del parlamento e del governo centrali, regionali e locali cioè a dire, i parlamentari, i ministri e i sottosegretari, i capi delle giunte locali e regionali, gli assessori deputati a ruoli strategici, una parte dei membri della Corte costituzionale, del Consiglio superiore della magistratura e delle Authority, ma anche tutti coloro che hanno il compito di gestire risorse pubbliche negli enti pubblici economici, nelle banche, nelle finanziarie, nelle società assicuratrici. Preoccupandosi che tutti siano portatori di un sicuro lealismo verso il partito o i partiti che li hanno nominati; e che dunque sul piano operativo rimangano costantemente subordinati ad essi.

Naturalmente, quando, a formare la maggioranza di governo non è più un solo partito o una coalizione ristretta ed egemonizzata - com’è accaduto per oltre quarant’anni per la Democrazia Cristiana - [9], ma una coalizione ampia e per di più eterogenea e conflittuale, si impone una distribuzione di tali nomine fra i partiti membri della coalizione. Si ricorre perciò al metodo spartitorio, che in genere tiene conto non tanto dell’effettiva consistenza elettorale di ciascun partito, quanto del suo potere di condizionamento o addirittura di veto all’interno della coalizione. Anche se, per completezza di riferimento storico - politico, va ricordato che tale metodo, già a partire dalla seconda metà degli anni settanta, venne praticato dal regime consociativo instauratosi tra le due maggiori soggettività politiche del tempo, la Dc e il Pci. Ovviamente in versione diversa. Una versione di cui la più “nobile” interpretazione è quella fornita da Alfio Mastropaolo. “Tra le due forze politiche che si contrapponevano si è (...) instaurata, egli rileva, una vera e propria divisione del lavoro. Assunto quasi da subito il controllo degli apparati dello stato, e quindi il monopolio dei mezzi legittimi di coercizione, la Dc sul piano politico è stato il partito della democrazia “formale”, mentre, sul piano economico e sociale, profittando della congiuntura internazionale favorevole, ha promosso lo sviluppo, pur essendo almeno in parte culturalmente restia ad accettare regole e principi dell’economia capitalistica. Di contro, assicuratosi il monopolio dell’opposizione sociale, che costituiva il suo fondamentale deterrente, il Pci, è stato il partito della democrazia “sostanziale”, la cui pressione, a dispetto della sua profonda diffidenza verso le potenzialità dell’economia italiana, si è rivelata decisiva affinché i benefici dello sviluppo fossero ridistribuiti ed estesi”  [10].

Se questi sono gli effetti prodotti dal governo di partito sul piano istituzionale, non meno rilevanti sono quelli indotti nella vita socio
 culturale del Paese. Questi sono riassumibili nell’assunzione del trasformismo clientelare a paradigma di tutta l’azione politica. Per cui il metro di coerenza degli uomini di potere non va cercato nella fedeltà ad un quadro ideologico ed alla impostazione programmatica che ad esso si accompagna ma nella capacità di schierarsi sempre con le forze al governo, allo scopo di conservare la posizione di dominio, d’essere in grado di soddisfare le richieste dei loro elettori, considerati come clienti, e, attraverso il sostegno crescente di questi, rafforzare progressivamente la posizione stessa [11].

 

3. Il trasformismo clientelare

 

Tale paradigma, peraltro, è presente nella cultura e nella vita politica del nostro Paese fin dai primi decenni che seguono all’Unità e trova le sue più alte espressioni in un continuum storico che non conosce interruzioni, nel giolittismo, nel fascismo e nel doroteismo [12]. Quest’ultimo, inaugurato nel secondo dopoguerra, non trova incarnazione, come potrebbe pensarsi, solo nella Dc o post Dc, ma figura in misura maggiore o minore come appannaggio o connotato essenziale di tutti i partiti italiani. Esso rappresenta la forma più compiuta di degrado politico conosciuto dalla nostra vita associata per almeno un quarantennio. E, dopo una breve parentesi, che in qualche modo sembrava volesse stabilire un’inversione di tendenza, è tornato pesantemente in vigore. Consiste in pratica nella legittimazione di un’idea del potere che lo consacra come capacità di diritto e di fatto da parte dei leader partitici della maggioranza di governo di occupare tutti i centri della vita istituzionale centrale e locale e l’intera economia pubblica.

L’area, naturalmente, nella quale più pesantemente il modello del governo di partito dispiega i suoi più deteriori effetti è quella delle regioni meridionali. Quivi la storia dell’intermediazione politica assume una specificità che la connota molto più negativamente che nel resto d’Italia. Altro non è, infatti, nella sua sostanza, che una storia di moduli trasformistici attraverso i quali la domanda e l’offerta politica vengono ad organizzarsi nei diversi momenti con passaggi che si succedono dall’unificazione ad oggi.

Un primo modulo è quello che vede come soggetti attivi dell’intermediazione i notabili agrari tradizionali, giunti all’attività politica in virtù di una consolidata posizione patrimoniale, di natura fondiaria, capace di procurare loro il rispetto sociale ed il conseguente seguito elettorale dei loro clienti. Tale modulo è anteriore alla nascita dei partiti e si svolge secondo la dinamica dei rapporti personali e diretti patrono - clienti. L’intermediazione del primo a favore dei secondi si attua attraverso interventi sulle istituzioni pubbliche, spesso locali. Tre sono, invece, gli attori del processo mediativo, caratteristico di un secondo modulo trasformistico che viene a farsi strada col tempo: il patrono (proprietario terriero), i clienti (non più singoli, ma masse di contadini), l’affittuario. Il vero agente intermediario è quest’ultimo, non di rado mafioso o legato al crimine organizzato. Col passare degli anni, egli acquista un peso sempre maggiore, spartendo il potere con il patrono, la cui figura, anche in conseguenza degli sviluppi economici e sociali che vanno producendosi, perde costantemente di peso, in rapporto a quello crescente dell’intermediario che si inserisce sempre attivamente nella macchina politica. Un terzo modulo di intermediazione trasformistica si ha, poi, con la nascita delle prime aggregazioni partitiche, spesso nella veste di comitati elettorali. Esso non si esaurisce nel rapporto triangolare testé descritto, poiché i patroni cominciano ad acquisire una qualche consuetudine di vita di stampo municipalista ed animati da spinte personsalistico - elettorali. Per la prima volta il mercato politico si lega al consenso elettorale. L’evoluzione, del resto, dei comitati elettorali verso veri e propri partiti provvisti di una ideologia, un programma, un’organizzazione, una leadership, porta ad una quarta forma di intermediazione. I notabili, legati ora non solo alla proprietà terriere, ma anche alla speculazione fondiaria urbana e ai commerci, sono ancora presenti nel circuito mediativo; e tuttavia, parallelamente all’attivazione di forme di vera e propria competizione elettorale, emergono una serie di nuovi soggetti, i quali fondano il loro potere sulla posizione occupata nei partiti e sui contatti con le istituzioni locali e nazionali che la posizione stessa consente. I partiti avviano, in realtà, quel processo di penetrazione e di conquista degli apparati pubblici che li porterà ad essere gestori dei poteri di indirizzo e di nomina di cui ho detto avanti. I contatti con le istituzioni, naturalmente, vengono utilizzati dai loro leader per costruire o estendere una personale posizione economica e politica e per ottenere interventi in favore dei gruppi sociali cui si sentono legati. Si tratta di aggregazioni provenienti dal mondo delle libere professioni, della cultura, degli impieghi pubblici [13]. Quando queste si accorgono che un’emergente richiesta di rilancio minaccia di confinarle nell’emarginazione si inseriscono nelle strutture dei partiti, riuscendo a raggiungere in poco tempo ruoli dirigenziali e livelli di potere capaci di dar vita ad un fenomeno inedito nella politica meridionale. Sostituendo, infatti, nel rapporto tripolare sopra descritto i vecchi affittuari, non solo si affermano come i nuovi agenti intermediari, ma si infrappongono tra le due frazioni presenti nei nuovi circuiti del trasformismo clientelare - i notabili tradizionali o rurali e quelli moderni o urbani -, condizionando nella lotta per la conquista di più alte fette di elettorato ora gli uni ora gli altri, e contrattando le prestazioni e i favori che questi intendono procurare alle diverse masse dei loro clienti [14].

L’approdo, comunque, di questi quattro momenti che annodano il percorso storico del trasformismo clientelare del Sud, e lo segnano di altrettanti moduli o esperienze politico - culturali è un clientelismo di massa
 il mass patronage di cui parla la letteratura politologica anglosassone - nel quale l’erogazione di risorse pubbliche si rivolge non più a singole persone ma a intere categorie o gruppi sociali e ad ampie quote di popolazione; e perciò ha bisogno di organizzarsi in associazioni o formazioni politiche varie
 partiti in testa -, che facciano da tramite tra lo Stato e le categorie o gruppi di cui ho detto.

Non è casuale dunque che da questa palude che è la classe politica meridionale, centrale regionale e locale, venga fuori una vera e propria selva di cespugli partitici, dietro i quali si organizza quotidianamente una guerriglia per bande intessuta di imboscate, tradimenti, minacce, ricatti, insulti. Così come non è casuale che i rovesciamenti delle maggioranze espresse dal corpo elettorale, altrimenti detti ribaltoni, trovino nelle regioni del Sud i loro luoghi privilegiati [15].

Il tumultuare di interessi inconfessabili, contrabbandati come interessi della collettività, dà vita, in realtà, a giochi altrettanto inconfessabili di potere ad opera di saltimbanchi, che seguendo, per così dire un’ondata sismica che non conosce tregua, si spostano perennemente da un partito all’altro togliendo alla fine al comune cittadino ogni possibilità di vederli assettati in un’area partitica chicchessia.

 

4. Le cause della delegittimazione

 

Ma a questo punto non si possono non rilevare due cose. Primo, che la delegittimazione dei partiti ha radici antiche. Il riferimento già fatto alle pratiche trasformistiche della Sinistra storica di Depretis e Giolitti e del fascismo deve bastare in questa sede a mostrarcelo e a convincerci dell’utilità di un minimo di riflessione di lungo periodo per una migliore comprensione del problema. Secondo, che la delegittimazione medesima non è un problema solo italiano, ma europeo, anzi, occidentale. Sì che il politologo deve opportunamente inquadrare la sua analisi in un’ottica oltre che storica, anche comparata. All’indomani delle fasi concitate della rivoluzione del 1848 con la caduta della monarchia e degli Orléans, A. de Tocqueville così annotava nei suoi Souvenirs: “Trovai i vecchi capipartito divisi tra di loro, si sarebbe potuto pensare che ognuno fosse ancora più diviso con se stesso, almeno a giudicare dall’incoerenza del linguaggio e della mobilità delle opinioni. Quegli uomini politici somigliavano a dei piccoli battelli che avendo sempre navigato lungo i fiumi, vengono gettati all’improvviso in pieno mare. L’esperienza che avevano acquistato durante i piccoli viaggi li confondeva più che servire loro nella grande avventura, e spesso si mostravano più interdetti e più incerti degli stessi passeggeri”. Dal che mi pare possa ricavarsi che lo studioso si aggirava tra le macerie della politica ed esprimeva una perplessità che era soprattutto un giudizio storico, perché in quel momento il futuro a lui - come forse a noi oggi - appariva un’incognita.-----

Ma se, come a lui, anche a noi un approdo è consentito, per potervi giungere in modo corretto, è necessario passare attraverso l’analisi delle cause della delegittimazione.

Tali cause penso vadano ricercate soprattutto in due direzioni, ambedue ritenute capaci di evidenziare una crisi più ampia e più profonda di quella dei partiti: la crisi della politica.

La prima direzione porta ad assumere consapevolezza dei processi di globalizzazione di ogni comportamento e rapporto e del conseguente governo unitario di essi attraverso un assieme di dispositivi materiali e simbolici operanti sul piano planetario [16]. Conduce, cioè, a prendere atto dell’emergere su scala mondiale di un nuovo sistema interconnesso e retto mediante reticoli informatico - telematici. Sollecitando a riflettere, in particolare, su quel sottosistema che più di ogni altro crea le condizioni della globalizzazione, e che, per ciò stesso, si avvale del termine stesso non in senso ideologico, bensì in senso operativo: il sottosistema economico-produttivo o delle imprese.

Tale sottosistema trova in verità il suo supporto nella trinità istituzionale rappresentata dalla Banca Mondiale, dal Fondo Monetario Internazionale e dall’Organizzazione Mondiale del Commercio. E però appare logico che esso abbia potuto condurre trecento imprese a controllare circa un quarto del patrimonio produttivo mondiale ed a consentire a quarantasette di queste di avere un bilancio superiore al bilancio statale che oggi nel mondo presentano centotrenta Paesi. È il risultato naturale di una visione dei processi produttivi che, guidata com’è da un individualismo spietato e da un gelido e impersonale calcolo, imposta tutte le sue strategie sull’abbassamento dei salari e su uno sfruttamento delle risorse dell’universo sì cinico da determinare il dissesto radicale dell’ecosistema [17].

Ma l’insieme dei flussi di capitale, di circolazione delle tecnologie, di diffusione dei commerci internazionali, in un generale concetto di deregolazione, appare intenzionato non solo a determinare un modello universale di produzione e di distribuzione, bensì anche ad organizzare un unico paradigma di potere e di processo decisionale. E così non pochi politologi, cedendo alle suggestioni di una nuova cosmopolis, presentata come unica alternativa oltre che all’anarchia internazionale, anche alla distruzione del pianeta, fanno di tale paradigma un idolo [18]. Così come numerosi giuristi si danno all’esaltazione del “globalismo giuridico”, quale ideologia di pacificazione del mondo, non di rado aggiungendo che spetta alle grandi potenze industriali - Stati Uniti in testa - il compito di garantire un ordine cosmopolitico giusto [19].

Quel che viene perso di vista in queste posizioni, prima ancora che la scarsa credibilità politologica e istituzionale della prospettiva, è la scaturigine della prospettiva medesima da una visione che fa della politica una realtà subalterna all’economia e alla tecnologia. Si dimentica che il capitalismo, il quale, in passato, ha avuto bisogno della politica prima per nascere, poi per svilupparsi, poi ancora per salvarsi dalle varie crisi, oggi ha bisogno di essa per espandersi e stabilizzare i suoi controlli, tramite gli strumenti tecnologici, a livello mondiale.

La seconda direzione si volge al tentativo di esaminare quelle ragioni della crisi dei partiti che appaiono collegati più da vicino con i profondi mutamenti avvenuti in sede di ideali e tensioni morali del mondo contemporaneo in seno ai Paesi più avanzati. Mutamenti che ci presentano una generazione pragmatica, smisuratamente attivistica, affatto preoccupata di dare uno spessore teorico e sistematico alle proprie intuizioni nate da una tale febbre d’azione, e soprattutto di analizzare e, se possibile, parametrare le numerose variabili dell’irrazionalità organizzativa e gestionale del potere economico: le sue varie forme di sfruttamento, di espropriazione dei diritti fondamentali, i suoi guasti, i suoi sprechi. Una generazione per la quale misura delle cose sono l’individuo o il piccolo gruppo, quel che più conta è la dimensione del privato, la realizzazione dei propri desideri e interessi. Sì che i modelli comportamentali che tendono a farsi strada, in particolare tra i giovani, conducono alla preferenza dei microgruppi rispetto alle grandi organizzazioni politiche, alla ricerca di nuovi luoghi ed occasioni per ritrovarsi a discutere del proprio vissuto, della propria esperienza quotidiana, di problemi precisi, di cose concrete. Prende corpo, in altre parole, la tendenza a vivere secondo un “io minimo”, espressione di chiusura e di ripiegamento su sé stessi.

A dire il vero, nel mondo giovanile, a fianco della figura di questo “io minimo”, emerge, sia pure in termini meno diffusi, una figura di altro segno: quello di chi continua ad ipotizzare grandi ideali, anche se non ha poi la precisa e concreta volontà di perseguirli. Per distinguerlo dall’“io minimo” taluno parla di “io idealista”. Non pochi giovani infatti - ma l’idealismo cui si allude non è privilegio che appartenga in esclusiva agli ambienti giovanili - sognano progetti politici così alti ed esigenti da non avere alcuna presa sulla vita concreta. E, una volta sovraccaricata la politica di attese palingenetiche, è facile che, allorché si è posti di fronte alle smentite della storia, si attribuisca l’inattuabilità della propria visione soltanto alla stoltezza degli uomini o all’immoralità dei politici. A quel punto non è raro che, risentito, il giovane idealista si trinceri in giudizi di condanna della società, quando, per una reazione infantile, non passi addirittura a coltivare minacciosi disegni di trasformazione violenta del contesto in cui vive.

Gli atteggiamenti giovanili dinanzi alla politica sembrano, insomma, andare dall’estraneità all’utopia. Le due linee di condotta sono certo diverse se non opposte: nel primo caso siamo in presenza di un ripiegamento su se stessi che induce a considerare della realtà sociale solo i rapporti interpersonali; nel secondo caso abbiamo, invece, a che fare con l’esasperazione di un idealismo politico che, per conseguire obiettivi di assoluta purezza, non si cura di realizzare il possibile. Tutti e due gli atteggiamenti conducono, però, al medesimo risultato: in effetti, tanto l’uno quanto l’altro finiscono con il precludere al soggetto di maturare e affinare quella capacità di giudizio etico-politico, mancando la quale è arduo inserirsi responsabilmente nelle vicende storiche e assumere, dall’interno, le necessarie iniziative.

Naturalmente il quadro concreto è molto più mosso poiché, accanto agli atteggiamenti richiamati, esistono forme di impegno positivo connesse all’affacciarsi, anche tra i giovani, di nuovi soggetti sociali la cui voglia di moralità non disdegna di sottoporsi al difficile compito del discernimento della situazione reale in cui si vive. Si ricordi per tutte quelle connesse con il volontariato. Di esso non esiste una mappa precisa. La Fondazione italiana per il volontariato (Fivol) ha censito novemila organizzazioni attive in campo sociale che svolgono con continuità servizi assistenziali alle persone (a domicilio o presso gli ospedali), consulenza legale, trasporto e accompagnamento di ammalati e d’invalidi. Secondo l’Istituto di ricerca educative e formative (Iref) nove milioni e mezzo di italiani aderiscono a qualche organizzazione legata al volontariato e quasi cinque milioni sono quelli che vi si impegnano in prima persona [20]. Trattasi di un universo in espansione, diffuso seppure non in modo uniforme su tutto il territorio nazionale e fra i più diversi strati sociali. La crisi del Welfare State ed il conseguente affievolimento delle risorse destinate ai pubblici servizi hanno contribuito a rendere sempre più significativa questa realtà. Essa è stata rafforzata, inoltre, dal moltiplicarsi e differenziarsi delle aree del bisogno, che richiedono interventi sempre più finalizzati e personalizzati. Negli ultimi anni, in realtà, si è verificato un vero e proprio mutamento nella struttura dei bisogni che ha evidenziato la disfunzionalità di interventi precodificati ed anonimi, privi di contenuti prioritariamente comunicativi e relazionali. La causa di ciò non è tanto da ricercarsi in una trasformazione sostanziale dell’oggetto dei bisogni, quanto nelle modalità con cui i bisogni stessi vengono soddisfatti, privilegiando il dialogo e la relazione intersoggettiva [21].

Una tale realtà tuttavia, pur se cospicua e sociologicamente dotata di forte senso, non appare in grado di ridimensionare i comportamenti prima descritti. Favoriti come sono dalle logiche economiche e socio-culturali imperanti, quest’ultimi continuano a prevalere.

Per comprenderli, peraltro, occorre prestare molta attenzione agli anni Ottanta, a quel “decennio narcisista”, come fu efficacemente chiamato, che ha contribuito notevolmente a trasferire nella vita sociale e in quella politica quello spirito di ricerca spasmodica del profitto quale valore primario ed assoluto che è dell’economia capitalistica.

Il narcisismo, in realtà, diviene ogni giorno più traboccante, qualificandosi come l’espressione più pregnante e l’approdo più naturale del neoliberismo imperante [22]. Imperante come pensiero unico, come può mostrare la stessa posizione assunta nei suoi confronti dalla maggiore forza di sinistra italiana, i Ds. La quale pone al centro del suo programma il compimento degli ideali e degli obiettivi di una cosiddetta “rivoluzione liberale”. Non già che gli altri partiti socialisti europei sfuggano alla sostanziale crisi che investe ormai da più anni la socialdemocrazia in quanto tale. Ma pochi si pongono sulla medesima posizione minimalista del partito italiano [23].

Il fatto è che - a prescindere dalla fondatezza politologica delle teorie correnti intorno al declino delle ideologie - dietro questo presunto declino si nasconde il declino vero, quello degli ideali. La questione ideale si è molto sopita dappertutto, prevale un disincanto routinario che non è buono per costruire le grandi speranze. E c’è un’aggravante: il vuoto delle motivazioni. La dialettica della politica sembra trascurare i contenuti. I discorsi si involvono, s’incartano, ne escono delle noiose iterazioni molto spesso fondate su un modo del protestare piuttosto gratuito. Un tempo i partiti discutevano. Ricordiamo tutti dei maggiori partiti le assemblee tematiche che fecero epoca. Oggi non più, al massimo qualche convegno per collazionare un po’ di classe dirigente cosiddetta “impegnata”. La genericità a volte raggiunge livelli tali che i programmi solo raramente colgono nel segno delle esigenze reali e accendono la fantasia degli elettori. La conseguenza di questa carenza di contenuti ideali e programmatici è il prevalere di un personalismo rissoso e defatigante da leggere, oltre che da interpretare. Ciò sollecita il latente egocentrismo di molti protagonisti sino al punto che talune beghe personali finiscono per assurgere a vere e proprie barriere di principio. Spesso si rasenta il ridicolo, grazie anche alla particolare sagacia dei mass-media nel rimestare dentro questa poltiglia di dichiarazioni icastiche, battute al vetriolo, giudizi per la storia e giudizi per la sub-cronaca. Ne consegue che è davvero raro trovare quella consequenzialità nei comportamenti concreti di tutti i giorni, che è il presupposto di una corretta vita politica. Consequenzialità che è un misto virtuoso di lavoro, rispetto, tolleranza, silenzio al momento giusto, capacità di attendere [24].

 

5. La personalizzazione della politica

 

Ma dopo ciò una cosa è da fissare bene. Non è possibile porre i partiti al muro del pianto. Non lo è perché rimangono strumenti fondamentali di ogni regime democratico. Ancorché la nostra società postuli forme organizzative della partecipazione politica aggregata anche attorno agli interessi, e dunque alle categorie, ai gruppi sociali, alle associazioni varie, essa conserva il fondamentale bisogno di momenti di mediazione complessiva, di sintesi degli interessi settoriali, non di rado contrapposti, in una visione globale, capace di contemperare le istanze più diversificate dell’intera collettività.

È proprio da quest’esigenza di organizzare ed esprimere in modo coordinato ed unitario le scelte politiche dei cittadini che prende avvio, nel secolo XIX, la nascita dei partiti. Nel passaggio da una concezione individualista e atomistica della partecipazione politica all’accettazione di azioni collettive all’interno di soggetti dotati di una capacità integratrice e di appositi apparati.

Tali soggetti oggi più che mai hanno il compito di garantire a) la formazione di identità collettive, b) lo studio di programmi aperti agli interessi generali, c) l’elaborazione di politiche pubbliche, d) la strutturazione del voto, e) il reclutamento del personale politico [25].

Ora, i processi in atto di personalizzazione dell’attività politica non sembrano favorirli in tale compito. Non v’è dubbio che non pochi Paesi occidentali, nel momento stesso in cui vanno decidendo di sperimentare la prevalenza dell’esecutivo sul legislativo, accettano di affermare ed enfatizzare la leadership del primo sul secondo, leadership che in concreto opera come premiership. Ciò accade, ad esempio, negli Stati Uniti nel passaggio dal congressional government al presidential government, in Gran Bretagna nello spostamento dell’asse del potere dal parlamento al gabinetto prima, al primo ministro dopo; in Francia con il rafforzamento dei poteri del presidente e dell’esecutivo, a danno delle assemblee, proprio della V Repubblica [26].

Stimolando un tale trend, l’avvento e la penetrazione nell’arena politica dei mass media, in particolare della televisione, diventa strumento cruciale nel rendere maggiormente visibili gli uomini politici. Lo strumento televisivo esteriorizza sempre più il potere e lo concentra nelle persone, esalta il ruolo e la capacità dei singoli, favorendo il loro distacco da ogni vincolo collettivo, in primo luogo, partitico.

Il processo di personalizzazione della politica è in pieno svolgimento anche nel nostro Paese [27]. E anche da noi si delinea come il frutto di alcune operazioni di ingegneria costituzionale e dell’azione dei media di massa. Fra le prime ricordo la modifica della legge elettorale in senso maggioritario e con collegi in gran parte uninominali e le riforme inerenti all’elezione diretta del sindaco e dei presidenti della provincia e della regione. Per la seconda segnalo l’enfatizzazione della persona dei candidati nella campagne elettorali, la tendenziale riconduzione a loro delle proposte politiche dei partiti, la spettacolarizzazione fino all’accentuazione delle componenti espressive, agonistiche o drammatiche nel rapporto con il pubblico [28], con le inevitabili conseguenze di desacralizzazione dell’uomo politico, della sua riproposizione in termini divistici, della ipersemplificazione e deideologizzazione dei suoi messaggi [29].

 

 

6. Per un rinnovamento dei partiti: a) forma, b) struttura

 

Rimane il problema oggetto della riflessione che qui andiamo svolgendo: è possibile rinnovare i partiti italiani? La risposta è affermativa ed in quanto tale rende necessaria l’indicazione delle linee - almeno di quelle fondamentali - del lavoro da compiere in questa direzione. Lavoro che investe a) la struttura, b) la forma, c) i contenuti, d) le fonti di finanziamento.

Sul primo problema dirò che i partiti non possono più ricavare il modello dalla loro passata opera di educazione ed inquadramento delle masse. Così hanno potuto operare perché collocati in condizioni storiche profondamente diverse, condizioni che imponevano di conquistare e impegnare le varie classi sociali verso un ideale o di trasformazione o di conservazione dell’ordine socio-politico esistente. Così che hanno avuto il merito di integrare nel sistema politico vasti strati precedentemente esclusi, dando un contributo fondamentale all’affermazione della democrazia moderna.

I partiti odierni appalesano ogni giorno più l’esigenza di una struttura duttile, pluralista, articolata. Esigenza che può essere soddisfatta, solo attraverso un’apertura verso la società civile, intesa come trama di relazioni, legami, scelte non risolvibili di per sé nella sfera politica. Nella società civile, infatti, si radicano valori, significati, comportamenti, stili di vita, criteri di giudizio, costituenti un’area eminentemente prepolitica. Essa è il luogo in cui si strutturano e si legittimano i rapporti sociali che poi trovano espressione nella sfera istituzionale.

E tuttavia non va dimenticato che il ricorso alla società civile e gli usi ideologici che con tale ricorso spesso si collegano sono divenuti oggi una moda. Con il risultato che nei suoi confronti hanno preso piede due opposti riduzionismi. Il primo scorge nella società civile una “purezza originaria”, prodotta da un processo spontaneo di autorganizzazione che la rende depositaria di ogni virtù civica e la libera da ogni conflitto e contraddizione. Nel tentativo di difendere la vita sociale da un’eccessiva presenza dello Stato, si evoca la società civile come sfera di assenza di qualunque regolazione pubblica e alla fine come entità astratta e svuotata di qualsiasi contenuto sociologico.

Il secondo riduzionismo si colloca all’estremo opposto. Esso sostiene che la vita di relazione è sempre viziata da una logica di dominio, per cui la società civile concretamente si pone come il luogo della disuguaglianza istituzionalizzata. Da qui la sua incapacità di apportare un qualunque contributo all’organizzazione dei rapporti interindividuali ed intergruppali e il suo riassorbimento nella partecipazione politica [30].-----

Entrambi i riduzionismi si allontanano dalla realtà. Per accostarsi ad essa, occorre cercare invece un punto di sutura tra l’istanza di anteriorità e la capacità contestuale di trovare forme di partecipazione politica, ambedue presenti nella società civile.

La capacità di cui parliamo dà vita ad associazioni, aggregazioni, movimenti vari in seno ai quali, si badi, matura un tipo di professionalità politica a volte più autentico di quanto non riesca ad aversi dentro i partiti. Proprio per il fatto che tali formazioni sociali sono molto più radicate nella realtà e assai più vicine ai problemi concreti dei cittadini.

Ricordo il vasto mondo del volontariato di cui ho detto avanti ed i valori di spontaneità, gratuità, condivisione, solidarietà che costituiscono il suo specifico patrimonio sociale e morale. L’originale contributo culturale che il volontariato reca all’effettiva promozione dei diritti dei soggetti deboli ed esclusi, alla loro integrazione nel tessuto sociale e politico smentisce, come ho già rilevato, ogni tesi che tende a degradarlo al livello di superata espressione di paternalismo.

Richiamo ancora i numerosi soggetti collettivi, che vanno sotto il nome di movimenti sociali e che interagiscono non poco col sistema politico in generale e con i partiti in particolare. Tali soggetti nel mentre da una parte producono effetti sul sistema politico, dall’altra parte, vedono la loro azione collettiva non istituzionale modificata dal sistema stesso. I movimenti giovanili, femministi, ecologisti, per i diritti umani, per il disarmo, contro la segregazione razziale, contro l’energia nucleare, eccetera, invocano, una prospettiva a due poli che, superando i limiti di un’analisi tutta interna alla loro logica settoriale, focalizzi le relazioni di sistema e la reciproca influenza degli elementi in gioco [31].

Segnalo, infine, l’area del terzo settore, che nel campo delle attività economiche promuove le imprese sociali, ovverosia, quelle imprese che, in quanto non perseguono il profitto, superano la forma capitalistica. La lotta alla disoccupazione, lo sviluppo della solidarietà, la difesa della dignità del lavoro, che stanno al centro del loro impegno, esprimono motivazioni e significati di grande rilievo sociale. Significato che tuttavia non si esaurisce in se stesso, ma acquista anche valenza politica. Una valenza cui i partiti devono agganciarsi, se vogliono integrare tali esperienze solidariste in ruoli e responsabilità più generali, specifici della politica.

I partiti non possono non tener conto di tutte queste realtà, espressive di una tendenza ad operare se non il passaggio in toto dalla democrazia dei partiti alla democrazia dei cittadini, almeno l’integrazione tra di esse. E di conseguenza, in primo luogo, non ha più senso contrapporre i partiti, intesi come sinonimo di forze organizzate, alle formazioni sociali, viste come sinonimo di aggregazioni spontaneiste e dunque deboli e precarie. La contrapposizione sarebbe artificiosa poiché tra organizzativismo e movimentismo può esservi una saldatura capace di far passare partiti e movimenti dal terreno della frizione e contrasto al terreno che dà vita ad un continuum positivo e integrato. In secondo luogo, occorre che i partiti rivolgano grande interesse alle formazioni politiche di tipo coalizionale, aperte alle forze suscettibili d’essere cementate su una comune griglia di obiettivi. In quest’ottica i soggetti e gli uomini politici cerniera assumono grande significato e rilievo [32].

Quanto alla forma di partito, oggi sembra imporsi quella che, da una parte, abbandona le istanze tradizionali dell’apparato, dell’organizzazione forte, della nomenklatura, del proselitismo, per assumere una dimensione organizzativa leggera, dall’altra parte, rinuncia al vecchio principio in base al quale non vi poteva essere militanza partitica senza appartenenza.

In tal senso, forse la forma più valida è quella federativa, ispirata ai criteri di una triplice autonomia: territoriale, culturale, tematica. L’idea è di dare al partito un’articolazione che preveda forme pattizie di affiliazione di gruppi ed associazioni varie e luoghi di incontro e collaborazione con formazioni sociali e culturali nel rispetto della loro autonomia e identità. Accogliendo tra l’altro iscrizioni collettive o anche adesioni per singole campagne e progetti. Ed è chiaro che una tale impostazione implica una forte innovazione nella struttura democratica del partito, da cui bisogna partire per affrontare la grande questione dei canali di partecipazione e dei criteri di decisione.

Ai partiti si chiede dunque di liberarsi da ogni forma di organizzazione verticistica, di sviluppare pratiche di vasta partecipazione alle decisioni, in particolare per quanto attiene alla scelta del personale dirigente da investire al loro interno e del personale politico da candidare alle cariche pubbliche negli ambiti statali, regionali e locali. Per i dirigenti si invoca una formazione aperta a tutte le idee che qui si vanno esponendo, in maniera che essi sappiano utilizzare saperi ed esperienze diffuse, senza restare prigionieri del risucchio di apparato. Mentre per i candidati agli incarichi istituzionali (presidente del Consiglio, presidenti delle Regioni, presidenti delle amministrazioni provinciali, sindaci) la via della designazione attraverso elezioni primarie appare la più idonea a rafforzarli nel loro lavoro di ricerca del consenso.

Quanto al personale parlamentare, infine, non bisogna perdere di vista che, al momento, il processo di trasformazione dei criteri di reclutamento risulta assolutamente disomogeneo tra i vari partiti e coalizioni di partiti. Per fare qualche esempio, Forza Italia pratica il metodo della centralità della selezione e fa sentire il peso di un assiduo lavoro di coordinamento, che finisce per imporre candidature molto vicine alla leadership. Al contempo, per motivi strategici, concede non pochi seggi ad alleati minoritari e a personaggi provenienti da movimenti formalmente esclusi dal coordinamento. Con ciò dando vita a modelli che vedono come protagoniste strutture come il partito “del leader” o il partito “mediale” [33]. La Lega, invece, sceglie i suoi candidati al parlamento in relazione ai requisiti dell’origine socio-professionale radicata nei settori produttivi della società, della presenza sul territorio, nell’amministrazione locale e nel partito cittadino, della capacità di operare “nel popolo leghista”, in sintonia col messaggio federativo [34].

E ancora. Dinanzi al problema del livello di professionismo politico, mi pare di poter dire che quello che oggi trova maggiore accoglienza nelle strategie tendenziali perseguite dagli attori partitici, risente della presenza di persone individuabili - seguendo una recente concettualizzazione di Von Beyme - come manager e staff professional inglobati in strutture partitiche leggere.

La persistenza tuttavia di talune forme organizzative, fa ritenere che si assisterà verisimilmente al consolidamento di un personale rappresentativo misto. Nella quota maggioritaria rimarranno molti “non professionisti” di area, mentre in quella proporzionale i partiti continueranno a schierare i loro uomini [35].

Un discorso distinto va fatto per il reclutamento del personale parlamentare nei contesti coalizionali. In essi infatti la selezione dei candidati può sfuggire al controllo. Il sistema maggioritario oltretutto comporta l’alea che coalizioni, le quali raccolgono poco più di un quaranta per cento dell’elettorato variamente organizzato, si espandano nella rappresentanza fino a occupare un di più di seggi di almeno un tredici/quindici per cento. È in questo margine che si radicano le trattative più decentrate, rispetto al nucleo della coalizione. Ma il rischio non può non essere affrontato. In realtà, su questo piano, si registra il protagonismo dei meccanismi di proporzionalizzazione delle alleanze; ed i criteri spartitori, corroborati dal potere di ricatto che il sostanziale equilibrio nei rapporti di forza fra le due coalizioni (centro-sinistra e centro-destra) accorda anche ai partner minori, appaiono una routine consolidata [36].

Così pure nel Mezzogiorno vanno affrontati due rischi, che in quest’area appaiono più gravi. Il primo consiste nel fatto che il modello di partito federale può dar vita a dei clan, con penetrazioni vistose di macrocriminalità. Il secondo nasce quando le coalizioni non sono sorrette da supporti ideali, ma solo da interessi elettorali. In questo caso infatti esse sono semplicemente dei cartelli elettorali nei quali i partiti membri diventano partiti di voto, ovvero, non-partiti che vengono scelti per un giorno, ma non mobilitano l’impegno e la partecipazione, anzi, finiscono con il sottolineare il mercato elettorale come male oscuro della piccola politica meridionale. Una politica che, con le sue pratiche corruttive e clientelari, uccide la grande politica.

 

7. Per un rinnovamento dei partiti: c) contenuti, d) fonti di finanziamento

 

Giungiamo a questo punto al terzo problema che il rinnovamento dei partiti deve affrontare, quello dei contenuti.

Sul punto occorre porre attenzione. Poiché il diffuso contrattualismo sociale verso il quale i partiti appaiono orientati, per la frantumazione da cui procede e per la complessità delle procedure d’accordo che attiva, può corrispondere di fatto a un modo di intendere il vincolo elettorale come disancorato dai contenuti o programmi comuni. Ciascun candidato può sentirsi legato dalla lealtà solo per gli interessi di cui si sente portatore e non già per il complesso degli interessi fatti propri dalla coalizione. Questi ultimi anni hanno mostrato che il rischio è quanto mai reale: l’interpretazione delle ragioni per le quali stare in una coalizione o in un’altra è stata disinvolta; come disinvolti sono stati i cambi di collocazione. Dopotutto, se la coalizione che ha sorretto il governo Prodi dei suoi obiettivi strategici ha condotto in porto solo quello dell’ingresso dell’Italia nell’unità monetaria europea, ciò è accaduto anche perché solo questo obiettivo dai partiti della coalizione è stato percepito come comune e inderogabile.

E tanto spiega il diffuso senso di smarrimento della società italiana. Di una società che allo Stato - per il tramite dei partiti - continua con crescente invocazione a domandare la redistribuzione dei redditi, la lotta alle vecchie e nuove emarginazioni, l’occupazione, la sanità, la scuola, la sicurezza pubblica, l’imparzialità nel giudicare, il funzionamento amministrativo.

Sul piano delle tematiche sociali occorre rendersi conto che la nostra economia continua a collocare sul territorio strutture produttive legate ai canoni non già di un postfordismo virtuoso, ma di un neofordismo che, per il controllo dei tempi e dei metodi nei terzisti, nel lavoro atipico e parasubordinato, ha bisogno di forme di neotaylorismo, che rendono il sistema nel suo complesso tanto rigido e alienante quanto il vecchio fordismo.

Necessario appare altresì cogliere il senso della presenza di un vasto ceto medio-alto formato da cinque milioni di piccoli imprenditori, quattro milioni di professionisti, cinque milioni e mezzo di lavoratori autonomi, due milioni di portatori di partite IVA, sei milioni di lavoratori sommersi. La forte dose di soggettività individuale che muove le singole unità di questa struttura sospinge verso un’affermazione personale, centrata, come sottolinea una recente indagine del Censis, sulle voglie di consumo, di costruzione isolata del proprio futuro, il cui focus di impegno sta nel guadagno immediato, nel fare soldi a mezzo soldi.

Atteggiamenti tutti che spiegano il crescente malessere del nostro Paese. Di una società molecolare, che non può non registrare la caduta della solidarietà, l’indifferenza verso la legalità, le nevrosi della solitudine di massa, il rifiuto della politica, eccetera.

Ma essenziale rimane ancora l’attenzione verso le problematiche dei vasti ambiti del lavoro dipendente, della massiccia area della disoccupazione, dei sei milioni di pensionati al minimo o con pensioni integrate che vivono con settecentomila lire al mese.

Rimane da considerare, infine, l’ultimo elemento su cui impegnarsi per un rinnovamento dei partiti: le fonti di finanziamento.

Un vasto schieramento parlamentare trasversale, una sorta di partito unico del finanziamento pubblico, ha ridato vita al finanziamento statale dei partiti, nonostante fosse stato abrogato con un referendum votato da oltre il novanta per cento dei partecipanti. Imperniata sulla facoltà dei contribuenti di devolvere il quattro per mille del loro carico di imposta, la nuova forma di sovvenzionamento introdotta nel 1998 veniva presentata come privata e volontaria, quando invece non era affatto tale. Non era privata perché le somme disponibili appartenevano all’erario dello Stato; non era volontaria perché sicuramente nessun contribuente voleva finanziare i partiti indistintamente e nel loro complesso, ma semmai il partito che riscuoteva la sua fiducia. E ancora, la legge mancava di adeguati controlli sui bilanci; era, infine, antistorica, in quanto si poneva in controtendenza con il principio maggioritario, sancito da un altro referendum che aveva raccolto oltre l’ottanta per cento dei consensi.

Sennonché, dei centosessanta miliardi previsti per il 1997 ne erano venuti fuori appena venti-trenta, ovverosia meno di un quarto. Il ministero delle Finanze era costretto ad ammettere che il tempo per trattare le dichiarazioni dei redditi ed avere i risultati relativi al quattro per mille, per quanto potesse essere in futuro ristretto, non avrebbe mai potuto rispettare i termini previsti dalle legge per consegnare i soldi ai partiti. E così nel 1999 è stata approvata una nuova legge, che ha abolito il quattro per mille, ma ha moltiplicato l’importo dei rimborsi elettorali, trasformandoli in una forma di finanziamento pubblico ancora più consistente. Prima, infatti, i partiti incassavano, come rimborso, ottocento lire per abitante alle elezioni europee, milleduecento alle regionali e milleseicento alle politiche. Con la nuova legge, i rimborsi sono stati portati a quattromila lire per elettore per tutte le consultazioni: i partiti, quindi, hanno incassato centosettanta miliardi alle europee del 1999, altri centottanta alle regionali del 2000, mentre alle politiche del 2001 ne incasseranno ancora quattrocento: in meno di tre anni un totale di settecentocinquanta miliardi. E ci sono studiosi i quali prevedono non senza fondamento che il sistema maggioritario, soprattutto quando funzionerà nella sua pienezza, favorirà ancora di più i processi di personalizzazione della politica, facendo crescere a dismisura i costi delle campagne elettorali. Del resto già nel 1997 un movimento come “Forza Italia”, tagliato sulla misura e sugli interessi del suo inventore, ha ottenuto finanziamenti dello Stato per trentasette miliardi e settecentoventisei milioni. Soldi che verosimilmente sono stati poi amministrati in solitudine dal presidente fondatore.

Insomma, sia la prima che la seconda legge hanno aggirato la volontà referendaria. Ma non è questo l’aspetto più grave. Il problema di fondo è un altro. Il finanziamento dei partiti non deve far capo a fonti pubbliche. Non solo perché troppo onerose già per i contribuenti risultano le spese per mantenere una classe parlamentare, che potrebbe essere, proprio ai fini di una migliore funzionalità ed una più alta produttività istituzionale delle Camere, notevolmente ridotta, nonché numerosi altri incarichi pubblici, statali, regionali, locali, spesso non necessari, talora inutili, sempre comunque sovranumerati. Ma anche e in primo luogo perché il tema del finanziamento va agganciato allo sforzo culturale della rilegittimazione dei partiti e della politica di cui stiamo discorrendo. Fa parte essenziale del lavoro ricostruttivo dei partiti un ripensamento radicale del problema della raccolta delle loro indispensabili risorse finanziarie. Dovranno essere i cittadini, recuperati, se sarà possibile, alla fede democratica ed alla dimensione civile dell’impegno pubblico, a trovare al riguardo nuove strade e modalità, a partire dal proprio contributo personale. Quest’ultimo apparirà più facile, se ci si convincerà che è giunta l’ora di dare un segno effettivo e tangibile di inversione di tendenza, attraverso scelte di vita sociale e politica che facciano prendere le distanze dai modi dominanti di pensare e di comportarsi ispirati agli sprechi e ai consumi superflui, acquisendo capacità di sobrietà e sganciandosi dalle eccessive esigenze indotte. Se si svilupperanno, infine, maggiore attenzione e disponibilità per sostenere iniziative comunitarie aperte alla solidarietà e all’iniziativa socio-politica.

La giustificazione ancora ricorrente del finanziamento pubblico dei partiti, in quanto strumento di difesa dell’autonomia della classe politica dai poteri economici e della sua sottrazione ai fenomeni corruttivi, non regge più. È stata oltretutto travolta in questi anni dagli eventi giudiziari noti, che proprio attorno al procacciamento di fondi finanziari per i partiti, hanno visto ruotare per molte migliaia di politici e burocrati italiani reati quali la corruzione, la concussione, il peculato, l’abuso di ufficio, il falso in bilancio, eccetera [37].

Il finanziamento pubblico dei partiti ha operato, in realtà, come una delle principali variabili che hanno causato il mutamento della loro “composizione organica”. Mutamento in virtù del quale l’impiego politico dentro i partiti non solo è divenuto una professione di massa, spesso altamente remunerativa, ed ha costituito un potente mezzo di ascesa sociale per decine di migliaia di persone, ma ha strutturato al suo interno una serie di nuovi ruoli specificamente rivolti all’estrazione di risorse pubbliche e private. Sì da fare dell’Italia, in particolare a decorrere dagli anni Ottanta, uno dei sistemi politici europei “ad alta corruzione” [38].

Rimane naturalmente l’esigenza di trovare una formula trasparente nei confronti del finanziamento privato dei partiti. A tal fine torna necessario fissare per legge almeno a) il tetto di spesa per ciascun candidato, b) il divieto che un candidato, un partito o movimento possa ricevere da un solo finanziatore una somma che superi il venti per cento del tetto di spesa stabilito, c) l’obbligo per i partiti che intendono beneficiare di finanziamenti privati di iscriversi in un apposito Registro, d) l’obbligo di depositare lo Statuto presso un organismo che funzioni da Comitato di garanzia per il finanziamento della politica.

8. Conclusione

 

È difficile dire se il ceto politico italiano, in particolare, quello partitico, riuscirà in questi anni di faticosa transizione, com’è ancora la nostra (qualcuno ha parlato di una “transizione infinita”), a scrollarsi di dosso i numerosi detriti culturali che lo appesantiscono. E a promuovere efficacemente un lavoro di ricostruzione dei partiti, capace di connotarli dei caratteri avanti descritti, secondo un profilo, che ha inteso essere il più delle volte innovativo, talvolta anche reinventivo. Il problema riguarda il ceto politico, ma investe anche i cittadini; il vertice, ma anche la base della piramide politica.

Di sicuro, tutto - pensieri e azioni, sentire delle masse e inconscio degli individui - appare segnato dai caratteri di una stagnazione, cui s’accompagna una crescente disaffezione dalla politica ed in particolare dai partiti.

Non credo tuttavia si possa concludere che la coscienza civile dell’Italia appaia oggi irrimediabilmente divisa tra spiriti animali e buoni sentimenti, due cose di cui non si sa quale sia più dannosa all’utopia concreta di fare collettività tra persone libere e soprattutto di interagire politicamente. Ritengo, invece, che essa, sviluppando processi di inversione nelle problematiche sociali di tutti i giorni e promuovendo la ricomposizione di uno spazio pubblico, nel quale vengano superate le fratture fra emotività e razionalità, diventi in grado di produrre qualcosa di nuovo e alternativo, sul piano della politica in generale e dei partiti in particolare.


[1] Cfr. L.Verzichelli, “I gruppi parlamentari dopo il 1994. Fluidità e riaggregazioni”, Rivista italiana di scienza politica, 1996, n.2.

[2] G.B.Powell sr.,”Voting turnout in thirty democracies: partisan, legal and socio-economic influences”, in R. Rose (ed.), Electoral participation: a comparative analysis, Beverly Hills, Sage, 1980.

[3] A. Lijphart, “Unequal participation: democracy’s unresolved dilemma”, “American political science review”, 1997, vol. 91. Per le difficoltà di formulare ipotesi sulle linee di tendenza in atto e di prevedere il futuro, v. P.Corbetta, “Astensionismo elettorale anni ’90: verso un “paese normale” oppure verso una crisi del sistema di rappresentanza democratica?”, in A. Mussino (a cura di), Le nuove forme di astensionismo elettorale, Roma, Università degli Studi “a Sapienza”, 1999 (Atti del convegno internazionale organizzato dalla Società Italiana di Studi Elettorali, Roma, 21-23 gennaio 1998).

[4] Cfr. P.Corbetta, o.c., pp. 55-56.

[5] Per i concetti di identificazione non partecipe e identificazione partecipe, v. R.Biorcio - R. Mannheimer, Elettorato e fratture culturali, “Studi e ricerche”, supplemento a “Politica ed Economia”, 1098, n.3, pp. 33-37. Nel merito un quadro più articolato, oltre che più aggiornato, vien fuori da D. Campus, “La conoscenza politica dell’elettorato italiano: una mappa cognitiva”, “Rivista Italiana di scienza politica”, 2000, n.1.

[6] Cfr. S. Vassallo”, Il governo di partito in Italia” (1943-1993), Bologna, Il Mulino, 1994.

[7] Cfr. A. Lijphart, “Democracies. Patterns of majoritarian and consensus government in twenty-one countries”, New Haven, Yale University Press, 2° ed., 1988 (tr. it., Bologna, Il Mulino, 1988).

[8] Cfr. M. Calise, Introduzione a “Come cambiano i partiti”, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 16.

[9] Sul L’argomento cfr. le interpretazioni classiche di G.Galli, “Il bipartitismo imperfetto”, Bologna, Il Mulino, 1996 e di G.Sartori, “Teoria dei partiti e caso italiano”, Milano, Sugarco, 1982, riferite ai modelli, rispettivamente, del “bipartitismo imperfetto” e del “pluralismo polarizzato”.

[10] Sul A. Mastropaolo, “Le repubblica dei destini incrociati. Saggio su cinquant’anni di democrazia in Italia, Firenze”, La Nuova Italia, 1996, p. 15. Ma sul problema v. anche G.Pasquino (a cura di), “Il sistema politico italiano”, Roma-Bari, Laterza, 1985 (in particolare i saggi di M. Camogli e G. Pasquino).

[11] Sul Per il concetto socio-politico di clientela rinvio al mio “Clientela”, Dizionario di sociologia, Milano-Torino, E.P., 1987; mentre per un approccio di politica comparato segnalo AA.VV., “Political Cleintelism and comparative perspectives”, “International political science review”, 1983, n.4.

[12] Sul Cfr. S.Rogari, “Alle origini del trasformismo. Partiti e sistema politico nell’Italia liberale”, Roma-Bari, Laterza, 1998. Un lavoro singolarmente ricco e penetrante che, oltre al trasformismo, prende in esame anche il familismo, il particolarismo, il municipalismo, la sfiducia nello Stato delle genti italiane è quello di C.Tullio Altan, “La nostra Italia. Arretratezza socio-culturale, clientelismo, trasformismo dall’Unità ad oggi”, Milano, Feltrinelli, 1986.

[13] Sul Cfr. E. Gribaudi, Mediatori, Torino, Rosemberg & Sellier, 1980.

[14] Sul Al riguardo le riflessioni avanzate da G. De Luca, “Lunga durata e fine del predominio democristiano in Calabria (1946-1994)”, “Quaderni dell’osservatorio elettorale”, 1994, n.32, appaiono estensibili alle altre regioni meridionali. Per il problema della persistenza delle differenze dei comportamenti e delle scelte elettorali nelle due aree territoriali del Paese, v. G. Bruso, “Geografia elettorale nell’Italia del dopoguerra”, Milano, Unicopli, 1983; R. Pavsic, “Esiste una tendenza all’omogeneizzazione territoriale nei partiti italiani?”, “Rivista italiana di scienza politica”, 1985, n.1; F. Anderlini, “Una modellizzazione per zone socio-politiche dell’Italia repubblicana”, “Polis”, 1987, n.3; P. Nuvoli, “Il dualismo elettorale Nord-Sud in Italia: persistenza o progressiva riduzione?”, “Quaderni dell’osservatorio elettorale”, 1989, n.23.

[15] Ricordo qui soltanto quanto emblematicamente è accaduto nel gennaio 1999 in Campania, dove il presidente della giunta regionale eletto con 2 milioni di voti venne sostituito con un consigliere che aveva raccolto 7mila voti.

[16] Cfr. D.Held - A.Mc Grew - D. Goldblatt
 S. Perroton, “Che cos’è la globalizzazione”, Trieste, Asterios, 1999.

[17] Cfr. J. Brecher - T. Costello, “Contro il capitale globale. Strategie di resistenza”, Milano, Feltrinelli, 1996, pp. 28-29. Ma v. pure B. Amoroso, “L’apartheid globale. Globalizzazione, marginalizzazione economica, destabilizzazione politica”, Roma, Edizioni del Lavoro, 1999.

[18] Un’efficace demistificazione si ha in D.Zolo, “Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale”, Milano, Feltrinelli, 1995.

[19] Una risposta realistica a questa posizione, che nella linea che va da Kant a Kelsen, annovera studiosi come Habermas e Bobbio, viene sempre da D.Zolo, “I signori della pace. Una critica del globalismo giuridico”, Roma, Carocci, 1998.

[20] È naturale che una tale massa d’urto finisca con l’essere una notevole forza politica. Analisi e sondaggi hanno dimostrato che buona parte del successo elettorale dell’Ulivo nelle elezioni politiche del 1996 deve essere attribuito all’impegno attivo del volontariato, laico e cattolico. L’esperienza dimostra poi che il variegato mondo del volontariato e dell’associazionismo costituisce forse il vero collante dello schieramento di centrosinistra, il punto di confluenza dei cattolici democratici e delle varie anime del socialismo.

[21] Cfr. C. Ranci - V. De Ambrogio - S. Pasquinelli, “Identità e servizio. Il volontariato nella crisi del Welfare State”, Bologna, Il Mulino, 1991; M.G. Morchio, “Anziani e volontariato: una proposta di lettura”, in G. Lazzarini, “Invecchiare in città”, Milano, Angeli, 1991.

[22] Sul narcisismo v. C. Lasch, “La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive”, Milano, Bompiani, 1989; C. Lasch - C. Castoriadis, “La cultura del narcisismo”, in AA.VV., “Il disagio della modernità”. Milano, Linea d’Ombra, 1990.

[23] Sull’argomento mi permetto di rinviare al mio “Debole come una quercia. Il neoliberismo di sinistra”, Bari, Dedalo, 1999.

[24] Cfr. E. Micheli, Volate alto (se potete), “Il Messaggero”, 21/1/1999.

[25] Y. Meny, “Istituzioni e politica. Le democrazie: Germania, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Italia”, Rimini, Maggioli, 2.a ed., 1995, pp. 165-170.

[26] Cfr. A. Mabileau, “La personnalisation di pouvoir et ses problèmes”, in AA.VV., “La personnalisation du pouvoir”, Parigi, PUF, 1964; L. Cavalli, “Potere oligarchico e potere personale nella democrazia”, Padova, Cedam, 1987.

[27] Cfr. M. Calise, “Il partito personale”, Roma-Bari, Laterza, 2000, Parte Seconda: Il ritorno del capo.

[28] Cfr. F.Bianchi, “Vecchie e nuove forme di comunicazione politica. Le competizioni elettorali del 1992 e del 1996 a Firenze”, “Quaderni dell’osservatorio elettorale”, 1998, n.39, pp. 61-66. Ma sull’argomento v. ancora G. Grossi (a cura di), “Comunicare politica”, Milano, Angeli, 1983; G. Pasquino (a cura di), “Mass media e sistema politico”, Milano, Angeli, 1987; Idem, “La nuova politica”, Roma-Bari, Laterza, 1992; M. Livolsi - U. Volli (a cura di), “La comunicazione politica tra prima e seconda repubblica”, Milano, Angeli, 1995.

[29] Cfr., M.L. Gessaga, “Il dibattito politico in televisione”, “Problemi dell’informazione”, 1991, n.2, p. 250.

[30] Cfr. M. Magatti, Introduzione a “Per la società civile”, Milano, Angeli, 1997, pp. 12-16. Per un profilo storico-politico del concetto di società civile, v. A. Seligman, “The idea of civil society”, New York, The Free Press, 1992 (tr. it., Milano, 1993).

[31] Cfr. A. Melucci (a cura di), “Movimenti sociali e sistema politico”, Milano, Angeli, 1986. Di Melucci v. anche: “Sistema politico, partiti e movimenti sociali”, Milano, Feltrinelli, 3.ed., 1982.

[32] Un’esperienza che, a me pare, può essere interpretata in tale direzione è quella dell’Ulivo.

[33] Cfr. L. Verzichelli, “La classe politica della transizione”, in R. D’Alimonte - S. Bartolini, “Maggioritario per caso”, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 344. Su Forza Italia v. L.Cavalli, “The personalization of leadership in Italy”, “Working Paper” CIUSPO, Firenze, 1994; N. Porro, “L’innovazione conservatrice”, Fininvest, “Milan Club e Forza Italia: nascita e sviluppo di un partito virtuale”, “Quaderni di sociologia, 1994-1995, n. 3; P. Mc Carthy, “Forza Italia: nascita e sviluppo di un partito virtuale”, in R.S. Katz - P. Ignazi (a cura di), “Politica in Italia”. Edizione 1995, Bologna, Il Mulino, 1995.

[34] Cfr. I. Diamanti, “Il male del Nord. Lega, localismo, secessione”. Roma, Donzelli, 1996; R. Biorcio, “La Lega Nord e la transizione italiana”, “Rivista italiana di scienza politica”, 1998, n.3.

[35] L. Verzichelli, “La classe politica della transizione”, o.c., p. 346.

[36] Cfr. A. Di Virgilio, “Le elezioni in Italia”, “Quaderni dell’osservatorio elettorale”, 1996, n.36, p. 186.

[37] Un’accurata ricerca al riguardo è stata condotta da D. Della Porta - A. Vannucci, “Corruzione politica e amministrazione pubblica. Risorse, meccanismi, attori”, Bologna, Il Mulino, 1994.

[38] S. Belligni, “Un sistema ad alta corruzione?”, “Sisifo”, ottobre 1992, n.23, p.5.