Economia dei cicli chiusi: Germania e Italia a confronto. Sistemi regolativi e sperimentazioni d’impresa

Elena Battaglini

Relazione introduttiva al seminario internazionale del 23 aprile 1998

E’ possibile coniugare la competitività e l’occupazione con la necessità di far fronte alle sfide ambientali? Quale modello di sviluppo adottare da opporre a quello di crescita economica?

Quali sono le condizioni che permettono l’implementazione di questi modelli e di questi processi? Quali sono le implicazioni? Quali sistemi regolativi adottare a sfondo di questi processi?

Il seminario che l’IRES e la CGIL nazionale hanno organizzato oggi sull’economia dei cicli chiusi costituisce, in Italia, uno dei primi tentativi di rispondere a queste domande. L’obiettivo è ambizioso non solo per il tipo d’interrogativi che ci poniamo, ma soprattutto perché, per dar loro una risposta, porremo a confronto i contributi di persone che provengono da ambiti molto diversi tra loro, il mondo della ricerca, da un lato, e il mondo della produzione e delle policies dall’altro.

Porremo quindi a confronto linguaggi, valori, istanze, problemi profondamente diversi, tentando di costruire un’analisi condivisa degli scenari e delle interazioni tra economia e società e ambiente, al fine di individuare degli obiettivi comuni.

Riteniamo che un confronto di questo tipo sia indispensabile sia per gli studiosi, sia per gli operatori economici, sociali e istituzionali per favorire la diffusione degli strumenti concettuali ed operativi che consentano l’adozione di sperimentazioni di sistemi economici a ciclo chiuso.

La I sessione di questo seminario, dedicata all’analisi dei modelli e dello stato dell’arte della ricerca su questi temi, costituisce un primo tentativo di stimolo allo sviluppo di un dibattito teorico ancora frammentato e affidato, per ora, al coraggio e alla intelligenza di poche singole personalità del mondo della ricerca che si stanno interrogando sul complesso problema di un ripensamento del funzionamento dei processi economici in chiave eco-compatibile.

Se è vero che le pratiche politiche riferite a questi temi, che verranno illustrate domani, hanno bisogno di riferimenti teorici, altrettanto importante riteniamo sia, per gli studiosi, raccogliere lo stimolo e i problemi relativi alle esperienze messe in campo dagli attori sociali, economici, istituzionali, affinchè anche il mondo della ricerca teorica ne sia investito. La sfida dello sviluppo sostenibile chiede alle scienze tradizionali di procedere su una strada di svecchiamento metodologico e culturale. Anche questa volta è la realtà dei problemi, dei processi e degli attori reali che può, dal basso, intervenire e sollecitare questo processo di rinnovamento.

Ci vorremmo assumere, quindi, la responsabilità di contribuire a mettere in moto queste interazioni complesse che possano connettere gli ambiti operativi e teorici, e, tra loro, le diverse discipline che la questione della sostenibilità chiama in causa.

Con questa prima sessione del seminario, dedicata all’analisi della modellistica attuale sui cicli chiusi vogliamo promuovere riflessioni e stimoli che fungano da “pungolo” intellettuale tra gli esponenti delle nostre discipline. La stessa difficoltà con cui questa prima parte è stata costruita, e la sua probabile debolezza, è stata per noi un’esperienza illuminante. E’, infatti, diretta testimonianza della necessità che tale ruolo di link venga giocato, che tali interazioni vengano finalmente sviluppate.

Nel corso della preparazione abbiamo, infatti, verificato quanto fosse scarno, seppure estremamente interessante, il contributo degli studioso sul fronte più propriamente teorico della modellizzazione economica.

Mentre le discipline più propriamente ingegneristiche ed ecologiche stanno facendo passi da gigante nell’analisi di modelli d’ecosistemi che includano anche l’ambiente antropizzato, non si può dire altrettanto per quel che riguarda la ricerca economica.

Eppure è sul rinnovamento del modo di concepire e progettare il funzionamento dei processi di crescita e sviluppo economico che si gioca la partita più importante. Si tratta, in altre parole, di spingere la scienza economica tradizionale al superamento della visione ‘meccanicistica’ e autoreferenziale che l’ha fino ad ora contraddistinta, e accettare la sfida dell’interdisciplinarietà.

‘L’homo economicus, guidato dalla razionalità economica, ha perseguito la specializzazione per rendere più ‘appuntita’ la sua capacità d’intervento sul mondo ma ha con ciò aumentato la propria fragilità. L’economia che ha contribuito a costruire il mito della crescita indefinita, della infinita disponibilità di risorse, dell’onnipotenza della tecnologia umana ha ora l’obbligo di dare un contributo a trovare una via di uscita dall’impasse reale in cui ci troviamo.’ (Bresso, 95). Si tratta, quindi, di una vera sfida epistemologica che la scienza economica tradizionale ha di fronte. Si tratta di mettere in discussione il suo apparato neo-positivista, mutuato dal paradigma della meccanica razionale, in cui il tempo storico era espulso, e confrontarsi con il mondo dell’entropia.

Al modello tradizionale di crescita economica, basato su processi di produzione lineari, vorremmo opporre un modello di sviluppo basato sulla chiusura dei cicli dei materiali e delle risorse. La teorizzazione dell’economia dei cicli chiusi, consentirebbe, in tal senso, di passare da modelli produttivi basati sulla “produzione-consumo-eliminazione” rapida e lineare dei beni, a delle strategie tecno-economiche fondate su cicli di “riutilizzo-riparazione-ripristino” dei prodotti e delle risorse (Giarini, Stahel, 1993) La sfida è notevole in quanto tali politiche costringono a ridefinire le regole dell’organizzazione del lavoro, del sistema tecnologico e della produzione, dei rapporti a monte e a valle l’impresa, e tra aziende della filiera e distretto industriale.

Ed è questa la sfida che l’IRES,/CGIL vuole cogliere nell’assegnare priorità strategica al filone di ricerca relativo ai temi dello sviluppo sostenibile dei sistemi produttivi, da connettere con la tradizionale attività del nostro Istituto che riguardano le relazioni industriali e l’occupazione. E l’organizzazione di questo seminario, attraverso la sua articolazione tematica e la scelta degli interventi, vuole costituire un primo segnale in tal senso.

Quali sono i legami che collegano tra loro le tre diverse aree tematiche relative alla sostenibilità dei processi produttivi, alle relazioni industriali e all’occupazione? Per individuarli occorre prima di tutto analizzare le interazioni e gli intrecci esistenti tra le dinamiche della competitività d’impresa e la questione ecologica, facendo leva sul concetto di qualità.

Le pressioni competitive a cui è sottoposto il mondo della produzione hanno segnato il passaggio da politiche d’impresa production/volume-oriented a market/consumer-oriented, che si basano sull’obiettivo della ‘qualità totale’. Come molte ricerche europee stanno evidenziando (Buitelaar, 1997), questo concetto è stato attualmente costretto ad assumere nuove e più ampie connotazioni, tanto da essere riformulabile in termini di ‘qualità integrale’ che implica, oltre alla qualità del lavoro e della produzione, anche quella dell’ambiente interno ed esterno all’impresa.


Si è posta, dunque, la necessità di riformulare i modelli produttivi e organizzativi coniugandoli con l’attenzione all’ambiente e, quindi, alla sicurezza dei luoghi di lavoro (ambiente interno) e all’impatto del prodotto/processo sul territorio (ambiente esterno). Normalmente si usa distinguere i due ambiti, anche perché fanno riferimento a dei sistemi normativi e regolamentari diversi. In realtà, si pongono come ordini di fattori interrelati, in quanto i prodotti e processi inquinanti hanno un impatto immediato sulla salute e sicurezza dei lavoratori, oltreché sul territorio. Inoltre, come molti casi di conflitto ambientale dimostrano, il negoziato d’impresa, sull’implementazione di nuove tecnologie o sistemi di produzione, si estende anche ad attori non tradizionali, come gli enti locali, i cittadini, le associazioni ambientaliste. Le nuove sfide ambientali, la maggiore consapevolezza dei rischi, impongono al management la necessità di un confronto più ampio, così che la ricerca del consenso, necessaria ai fini della competitività, spesso travalica i confini tradizionali dell’impresa.

L’estensione di tali frontiere diventa, poi, ancora più ampia per le multinazionali o per quelle aziende che fanno riferimento al mercato globale. Relativamente a quest’argomento esiste un interessante filone di ricerca, che fa capo all’industrial ecology (cfr. Hayres, 1995 o Tibbs, 1992) che analizza i legami complessi tra mondializzazione delle imprese e ambiente. La globalizzazione della produzione industriale, dei mercati, delle telecomunicazioni ha favorito, infatti, la creazione di un sistema artificiale che s’inserisce nel preesistente sistema naturale terrestre ed interagisce con esso. Le sfide che questi processi pongono all’industria non sono solo di natura economica, ma anche ecologica. E’ necessario che le imprese si misurino ed affrontino la dimensione globale dei problemi ambientali attraverso la definizione di nuove regole e l’individuazione d’un approccio tecnico-produttivo appropriato. L’impresa globale che continui ad affrontare il problema ambientale a livello settoriale (emissioni cfc, rifiuti etc.), e in un ambito territoriale locale, è, infatti, destinata a perdere.

‘To be competitive you have to be environmetal friendly’ (Kay, 1993). L’emergere del paradigma della produzione sostenibile, che fa perno sul concetto di ‘eco-efficienza’ (OECD, 1995), è il risultato di pressioni sia interne (cfr. supra), che esterne alle imprese. Tra queste sono da annoverare:

• il contesto normativo (come la legge tedesca del 1996 su cicli chiusi e rifiuti, che illustrerà Fleig domani )

• la domanda dei consumatori

• il diffondersi di principi e valori ‘verdi’ tra il management

• l’esigenza di un risparmio dei costi di produzione attraverso il riciclo di energia e materiali

• le dinamiche relative alla competitività dell’impresa (cfr. la relazione di Fleig di oggi, e anche Stahel, 1989 e 1991)

Vorrei soffermarmi specificatamente su quest’ultimo fattore per evidenziare la relazione complessa esistente tra competività/occupazione/questione ecologica. Fino a qualche anno fa, l’economia e l’ecologia venivano intese come mutuamente esclusive: le ragioni del profitto, e quelle relative all’occupazione, escludevano a-priori l’attenzione verso l’ambiente. La sperimentazione di mercati e prodotti innovativi costituisce, oggi, la condizione imprescindibile per sostenere le sfide e le dinamiche della competizione globale tra imprese. Non si tratta soltanto di sostenere la ricerca e favorire la produzione di tecnologie ‘pulite’. L’eco-business rappresenta, infatti, una soluzione parziale del problema, così come il conflitto ambiente/occupazione non si risolve promuovendo la creazione di posti di lavoro ‘verdi’ (come affermano, in sostanza, alcune associazioni ambientaliste).

In questo senso, l’implementazione di sistemi produttivi che permettano la chiusura dei cicli delle risorse, con tutte le implicazioni che ne derivano in termini tecnologici e d’organizzazione del lavoro, può costituire un fattore di sviluppo dell’occupazione. Inoltre, combinando insieme i vantaggi ecologici ed economici, può rappresentare una strategia che soddisfi le esigenze e le sfide poste dalla globalizzazione e dall’ambiente, attraverso la collocazione di beni innovativi in segmenti nuovi di mercato e l’efficienza nell’uso delle risorse.

Il funzionamento dei modelli produttivi ciclo chiuso, che verranno illustrati dalle relazioni di Fleig e Falocco, dipende da una serie di fattori:

• la tipologia del prodotto e la sua progettazione

• l’adesione al modello da parte della rete dei fornitori, sub-fornitori, consulenti etc.

• le condizioni della domanda

• il contesto istituzionale

• le risorse interne all’impresa

Vorrei soffermarmi su quest’ultimo fattore. Con risorse interne all’impresa s’intendono non solo le dotazioni tecnologiche e finanziarie, ma anche i fattori relativi alla cultura manageriale, alla qualificazione e motivazioni degli addetti, all’organizzazione del lavoro e alle procedure di consultazione/informazione/partecipazione dei lavoratori coinvolti nel processo produttivo. In questo senso, una recente ricerca europea (Buitelaar, 1997) ha evidenziato come i processi di eco-innovation, che coniugano, come sostenuto prima, i vantaggi economici ed ecologici, sono il risultato di un mix di fattori quali:

• l’efficienza economica delle imprese

• il dialogo sociale

• l’esistenza o meno di infrastrutture innovative

• le caratteristiche e le strategie degli attori

I paesi che hanno attivato sperimentazioni innovative sotto questo profilo (Austria, Belgio, Danimarca, Germania ed Olanda) sono quelli in cui esiste un sistema di relazioni industriali e di dialogo sociale, la cui caratterizzazione permette la definizione di strategie connesse con l’ambiente (interno ed esterno) di tipo botton-up, in grado, cioè, di condizionare il governo e la regolamentazione normativa di tali tematiche a livello macro.

L’Italia rientrerebbe, invece, tra i paesi, come la Francia, Grecia, Spagna e U.K, in cui le relazioni industriali, per diversi motivi secondo il paese, stentano a trovare una connessione e un’incidenza sulle politiche nazionali relative all’ambiente. Se è vero che le relazioni industriali possano costituire un fattore strategico per l’eco-innovation, la diffusione della cultura ambientale a livello d’impresa e lo sviluppo del dialogo sociale su questi temi, appaiono degli strumenti indispensabili.

Da qui l’interesse dell’IRES a porsi, attraverso questo seminario e l’attività di ricerca su questi temi, come punto di raccordo tra la riflessione teorica sull’economia dei cicli chiusi e l’esperienza pratica che verrà illustrata oggi da Bonaretti e Valles, e domani dagli altri rappresentanti d’imprese, degli enti locali, delle istituzioni e del mondo sindacale che abbiamo invitato e che costituiscono gli attori principali a cui affidare le responsabilità operative dell’implementazione di esperienze a ciclo-chiuso.

Affidando a Giorgio Nebbia, uno degli antesignani degli studi d’economia ambientale in Italia, il compito di aprire i lavori di oggi e dello stesso seminario, noi operiamo una precisa scelta di campo sia in ambito teorico che politico. Condividendo appieno i valori e le tesi su cui si fonda l’apparato teorico e concettuale del Prof. Nebbia, riteniamo che qualsiasi seria operazione d’implementazione di sistemi produttivi a ciclo chiuso sarà fallace se non viene basata su una contabilità “fisica” dei flussi di materia ed energia associata alle merci.