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Osservatorio meridionale

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La prostituzione delle donne immigrate nelle dinamiche socio-economiche del meridione

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La prostituzione delle ragazze nigeriane, che costituiscono una rilevante presenza nell’area tirrenica del meridione, risponde a criteri organizzativi e produttivi profondamente diversi che coinvolgono apparati criminali gerarchici e complessi. Sin dagli esordi, il percorso della tratta si svolge sotto i crismi di un’apparente legalità: la ragazza stipula un contratto, spesso alla presenza di un notaio locale, con cui si impegna a restituire una somma di denaro prestata alla sua famiglia dalla stessa organizzazione che la avvierà al meretricio. Quest’ultima si occupa del viaggio e dell’ingresso della donna in Italia, dove viene affidata a personale nigeriano che ne garantisce l’addestramento, l’inserimento e il controllo. Obbligo della nigeriana è soltanto quello di pagare il debito in tempi stabiliti: dunque il rapporto di sfruttamento, a differenza di quanto accade per le albanesi, “ha una scadenza prefissata o collegabile al determinarsi di una particolare condizione” [1]. Non per questo è meno violento. Si può osservare, piuttosto, che il modello socio-economico di riferimento per questo particolare genere di abuso non è quello della schiavitù, come nel caso delle albanesi, ma quello dell’usura. Il debito da risarcire cresce, infatti, a seguito di ogni servizio fornito o imposto dall’organizzazione, aumenta se la ragazza contrae il debito senza garanzie (spesso viene richiesto l’atto di proprietà della sua casa in Nigeria), se deve abortire e persino se viene espulsa, poiché le viene segnato a carico il costo della cauzione [2] e del nuovo viaggio verso il nord. A rafforzare il legame della donna con l’organizzazione interviene la pratica del rito vodoo che accompagna il giuramento di fedeltà, la cui infrazione comporta spesso effetti devastanti per l’equilibrio psichico della ragazza.

L’anello fondamentale della catena dello sfruttamento, nel caso delle africane, è costituito dalla madame o maman-loi, la donna nigeriana che in Italia assiste e controlla le ragazze, spesso vivendo con loro. È stato osservato che la madame può assumere due ruoli diversi nel traffico delle donne: quello di sponsor che segue interamente il percorso della tratta, dal reclutamento al trasferimento fino alla gestione del soggiorno, oppure quello di compratrice che acquista i diritti sul debito di una ragazza già presente in Italia e ne gestisce l’attività. La gestione implica, come abbiamo visto, anche l’assistenza e la cura della ragazza, con cui si instaurano ancora una volta ambigui rapporti affettivi e commerciali: essi ricalcano stavolta la relazione familiare piuttosto che la relazione di coppia emergente nel caso delle albanesi. Le coordinate culturali tipiche del villaggio o della tribù centrafricana, infatti, accordano grande importanza al rapporto verticale tra genitore e figlio, discendente e antenato, la cui imitazione garantisce alla madame un maggiore potere sulle ragazze [3]. Quest’ulteriore variazione dimostra una volta di più che le dinamiche di un’efficace economia di sfruttamento, come quella che tentiamo di esaminare, si basano necessariamente sulla conoscenza dei bisogni non solo economici ma soprattutto relazionali, affettivi, spirituali delle vittime.

 

4. I marciapiedi del sud Italia: la prostituzione migrante sul territorio

Per un’analisi compiuta delle dinamiche di sfruttamento della prostituzione migrante bisogna considerare una ulteriore variabile, costituita dalle caratteristiche del territorio, del contesto sociale ed economico in cui essa si esercita. Le attività connesse ai fenomeni migratori, infatti, si svolgono per loro natura tra un qui e un altrove, tra un luogo d’origine e un luogo d’arrivo dei soggetti migranti, e di entrambi i poli tengono conto.

Le strategie di gestione della prostituzione migrante nel meridione d’Italia avallano ampiamente questo assunto, poiché evidenziano l’aderenza delle sue modalità organizzative alle caratteristiche del luogo e l’accordo delle organizzazioni criminali straniere con quelle locali che controllano il territorio. Nelle zone ad elevata penetrazione camorristica o mafiosa l’intesa si basa sul principio della divisione delle sfere d’influenza: alla criminalità straniera la proprietà delle persone, a quella locale il dominio sul territorio. Nella zona a nord di Napoli, ad esempio, l’affermazione di tale principio dopo lunghe lotte di potere si traduce in un ulteriore aggravio per le donne prostituite, costrette spesso a versare una cifra mensile (circa 300 euro) alla malavita locale per il “fitto” della loro porzione di marciapiede. D’altronde il controllo del territorio da parte della malavita locale non costituisce uno svantaggio per le bande straniere che gestiscono la tratta, ma la condizione necessaria affinché quest’ultima possa esercitarsi: essa garantisce, infatti, le franchigie e le tutele indispensabili allo svolgimento delle attività illecite, che allignano specialmente in alcune aree dove vige di fatto una palpabile “sospensione della legalità”. A proposito di tale caratteristica, che facilita l’arrivo e poi rende impossibile la vita dello straniero non regolare, un immigrato scrive che il Meridione è un territorio “facile e terribile al tempo stesso, facile, voglio dire, per la sua flessibilità ma anche terribile per l’estremo che questa flessibilità può rappresentare, un territorio dove tutto è possibile, da una parte capace di prescindere dalle cose più ‘banali’ come i documenti, ma che con la stessa ‘leggerezza’ prescinde da contratti di lavoro, di affitto, dalla minima assistenza sanitaria, da tutti quei fattori insomma che fanno la cittadinanza” [4].

La focalizzazione sul microcosmo costituito da un paese del litorale domitio, in Campania, potrà servire ad evidenziare le relazioni economiche e sociali che collegano alcune componenti del territorio e della società locale alla prostituzione migrante e all’immigrazione in genere. A Castelvolturno, secondo le rilevazioni ISTAT del 2000, l’8,53% della popolazione residente è costituita da extracomunitari. La massiccia presenza di clandestini rende, tuttavia, più credibili percentuali che si aggirano attorno al 20-25% degli abitanti [5]. La presenza delle donne sfiora il 56%, una percentuale insolitamente alta rispetto agli standard registrati nel caso dell’immigrazione africana, che privilegia tradizionalmente la mobilità maschile: di questa popolazione le nigeriane costituiscono addirittura il 54%. Tre donne immigrate su quattro presenti nell’ambito territoriale dell’Asl Ce2 risiedono a Castelvolturno. Basta percorrere la Domitiana per capire che una tale concentrazione non è casuale e va ricondotta, in buona parte, alle scelte del racket della prostituzione. D’altro canto il paese domitio presenta alcune caratteristiche favorevoli all’accoglienza delle vittime della tratta e al commercio del sesso, come l’enorme estensione lungo un’arteria molto trafficata eppur periferica, l’isolamento del territorio dai grandi centri e, soprattutto, la “facilità d’accesso degli alloggi, seconde e terze case, che venivano utilizzate per le vacanze, mentre nel recente passato hanno risentito della disaffezione per il litorale domizio come meta turistica, determinatasi negli anni del post-terremoto, quando le unità abitative furono utilizzate per gli sfollati ed i senza tetto dell’area metropolitana di Napoli” [i]. Considerando il lucroso mercato degli affitti agli stranieri irregolari - per il 59% privi di regolare contratto di fitto nel sud Italia [6] -, si delineano i contorni di un “indotto” della prostituzione che reca indubbi benefici ad una vasta schiera di proprietari di case nella zona di Castelvolturno.

Il caso, e quest’ultimo dato in particolare, valga ad affermare il principio che i rapporti tra la prostituzione migrante e il Meridione sono ambivalenti: da un lato la prostituzione incide negativamente sul territorio, determinando degrado e conflittualità sociale; dall’altro lascia intravedere possibilità di speculazione e innesca ulteriori forme di sfruttamento del debole.

 

5. Fobie e luoghi comuni: la prostituzione nell’immaginario della società meridionale

Nonostante l’intreccio di relazioni, basato sull’acquisto di prestazioni sessuali e talvolta su altri tipi di transazione come quelli appena esaminati, la distanza tra le vittime della tratta e la popolazione locale appare abissale. Il contatto quotidiano, la condivisione del territorio non attiva pratiche di avvicinamento, ma contribuisce a rafforzare le barriere immateriali con cui la società meridionale tenta di difendersi da un gruppo percepito come assolutamente altro, perché caratterizzato da troppe diversità: la condizione femminile, quella dello straniero e della prostituta. Per questo, si diceva in apertura, le reali dimensioni del dramma della prostituzione migrante, la profondità storica della vicenda di ragazze che hanno vissuto un “prima” della prostituzione, si dissolvono nel presente assoluto della loro attuale condizione, che implica come unica funzione la vendita di piacere e bellezza: “Le nigeriane sia quando si siedono sia quando stazionano in piedi sono quasi immobili. Per questo alcuni esteti della prostituzione dicono: sono delle bellezze statuarie. Questa affermazione contiene una rimozione, e cioè le nigeriane prima ancora di essere belle e poi statuarie, sono profondamente infelici” [7].

La rimozione del soggetto assolutamente debole importato come merce nel nostro territorio fa leva su alcune paure endemiche di qualsiasi società, come quella della malattia. In particolare nel tessuto sociale meridionale, che ancora ricorda con terrore la deflagrante epidemia di colera del ‘72, la prostituta per giunta proveniente da aree depresse del pianeta appare soprattutto come un pericoloso veicolo di infezioni. I dati dell’Istituto Superiore di Sanità rilevano l’aumento di malattie sessualmente trasmesse (MST) tra la popolazione immigrata, che in dieci anni, dal 1988 al 1998, sono passate dal 2,7% al 16% delle patologie diagnosticate in extracomunitari. Tra queste malattie ricompare peraltro la sifilide, che sembrava definitivamente debellata almeno in Occidente [8]. Dell’incremento percentuale è senz’altro responsabile anche la crescita della presenza di stranieri in Italia, oltre che l’esclusivo impiego di immigrati nel mercato della prostituzione. Nella percezione comune, tuttavia, le MST non vengono collegate tanto alle attività che le donne straniere sono costrette a svolgere, in un contesto per lo più indifferente, sulle strade del meridione, quanto alla specifica condizione dello straniero: come a dire che la malattia è sempre e comunque importata, mai contratta in Italia. E che si tratta del frutto di una colpa: morbus pravorum si diceva della sifilide [9]. Eppure la comparazione di categorie omogenee di immigrati e italiani - ad esempio prostitute verso prostitute - mostrano percentuali simili di incidenza dell’HIV, con il 6,5% di positività per le straniere e il 9,5% delle italiane: è evidente, dunque, che la presenza di patologie non va imputata alla provenienza delle donne ma all’attività che sono costrette ad esercitare nell’ambito dei regimi di sfruttamento attuati dalle organizzazioni criminali straniere con il concorso del territorio d’accoglienza.

6. Un insieme di solitudini. Conclusioni

L’economia di sfruttamento che governa il mercato della prostituzione migrante nel sud Italia si fonda, tanto nell’elaborazione dell’offerta quanto nell’espressione della domanda, sulla duplice negazione della donna come lavoratrice e come persona. Come è stato sottolineato, lo sfruttamento dei bisogni e del sostrato socio-culturale delle vittime, operato dalle organizzazioni criminali straniere, trova atteggiamenti complementari nella ghettizzazione e nella diminuzione della straniera perpetrata dalla società locale. Questa riduzione della donna prostituita a cosa, scrive Enrico Pugliese, “è una delle tante espressioni dei processi di globalizzazione e mercificazione. I trafficanti gestiscono il controllo di una merce [...] il cui arrivo è in generale illegale, così come in generale è illegale l’arrivo di coloro i quali vengono a svolgere attività o mestieri che la società considera onesti. Anche in questo caso si pagano organizzazioni più o meno criminali per procurarsi la possibilità di entrare nei paesi ricchi dell’Occidente. Solo che in questi casi la dipendenza finisce solitamente all’arrivo” [10]. Per le vittime della prostituzione, invece, il vincolo continua e si configura come esperienza totalizzante, che genera radicali forme di abuso.

Consideriamo la rigorosa formulazione marxista della logica dello sfruttamento: Marx distingue il corpo fisico dell’operaio dalla forza lavoro, risultato di diverse capacità umane. Il capitalista acquista appunto questa capacità di lavoro, dopodiché la gestisce a proprio piacimento. Ma il lavoro compiuto non corrisponde soltanto al denaro speso, bensì continua per un tempo ulteriore: così si origina il plusvalore. Ad esso si sacrifica lo spazio esistenziale e la capacità produttiva, ma non necessariamente il corpo del lavoratore: “A ben vedere, dunque, all’origine del plusvalore c’è questa scissione, nel corpo stesso, tra il sostrato materiale corporeo e la forza lavoro come capacità di lavoro, come pura potenza” [11]. Nella prostituzione, invece, il corpo è l’unico mezzo di produzione che le dinamiche della tratta espropriano, gestiscono, espongono (pro-statuere significa appunto “porre davanti”) e vendono. Ai corpi esibiti delle mercenarie forzate del sesso si adatta l’espressione di “nuda vita”, con cui Giorgio Agamben indica l’individuo sottratto al diritto e alla proprietà di se stesso, prestato a qualsiasi violenza o manipolazione e irrimediabilmente impoverito: nel caso specifico, le malattie contratte con l’esercizio della prostituzione sottraggono all’immigrata la salute individuale, ovvero “l’unico patrimonio personale disponibile” [12].

L’estrema dequalificazione insita nella funzione della prostituta - per cui basta avere un corpo, neanche giovane e attraente - si aggiunge alla condizione di straniero e bisognoso nel rendere ardua la costruzione di una coscienza collettiva e l’assunzione di comportamenti di difesa da parte delle ragazze. In breve, le prostitute straniere non esistono ancora come gruppo sociale, se non nelle pianificazioni economiche delle organizzazioni criminali o nelle faccende di ordine pubblico. Ma questo è solo l’esempio più evidente della difficoltà che i nuovi soggetti deboli, gli immigrati nei paesi occidentali, incontrano nel percepirsi come collettività dai problemi comuni: “forse perché - scrive lucidamente uno di loro - quello dell’immigrazione è di per sé un percorso disperatamente individuale in cui impari a contare solo su te stesso” [13].


[1] A. Morniroli, op. cit., p. 62.

[2] In Nigeria, dove vige il modello legislativo britannico, la prostituzione è un reato punibile con il carcere fino a tre mesi.

[3] Si consideri, al proposito, la “presenza” degli antenati in ogni momento della vita quotidiana delle tribù nigeriane. Cfr. I. Caputi, Nigeria: la religione tradizionale africana, in F. Belletti et al., L’ospitalità tollerata, Associazione J. E. Masslo, Napoli 2003, p. 94.

[4] D. A. Harouna, L’identità difficile, in F. Belletti et al., L’ospitalità tollerata, cit., p. 8.

[5] Cfr. R. Natale, Dalla memoria all’impegno, in F. Belletti et al., L’ospitalità tollerata, cit., p. 28.

[i] Nell’inferno della domiziana, cit., p. 40.

[6] Cfr. Condizioni abitative degli immigrati in Italia, ricerca Sunia Ancab-Legacoop, http://www.sunia.it/files/studi_ricerche/sunia_immigrati.htm.

[7] A. Pascale, La città distratta, Einaudi, Torino 2001, p. 141.

[8] http://www.iss.it/iss/sae/Notiziar.htm

[9] Un atteggiamento peraltro non nuovo. Si pensi alle rappresentazioni della sifilide che l’Europa moderna ha conosciuto dopo la scoperta dell’America: “Già in origine rappresentava il moderno prototipo della malattia di importazione, con tutto quello che ne consegue sul piano emotivo e sociale [...] Il rapido diffondersi del male favorì uno ‘scaricabarile’ ante litteram, con l’attribuzione di responsabilità allo straniero di turno (‘mal francese’ in Italia; ‘mal de Naples’ in Francia; ‘vaiuolo ispanico’ in Olanda; ‘mal dei portoghesi’ in Spagna e, naturalmente, ‘mal dei cristiani’ in Turchia)” (G. B. Gaeta, Tra paura e realtà, in F. Belletti et al., L’ospitalità tollerata, cit., p. 112).

[10] E. Pugliese, Prefazione ad A. Morniroli (a cura di), op. cit., p. 9.

[11] P. Covre, Prostituzione e libertà individuale, relazione al convegno “Conversazioni sulla laicità. Verso un forum dei laici in Italia”, a cura dell’Ufficio Nuovi Diritti della CGIL e della Fondazione Critica Liberale, 10 marzo 2004.

[12] G. B. Gaeta, op. cit., p. 115.

[13] D. A. Harouna, op. cit., p. 8.