Rubrica
Il punto, la pratica, il progetto

Copyright - Gli articoli si possono diffondere liberamente citandone la fonte e inserendo un link all'articolo

Autore/i

Mauro Fotia
Articoli pubblicati
per Proteo (4)

Professore di Sociologia Politica. Fac. Scienze statistiche nell’Università di Roma “La Sapienza”

Argomenti correlati

Democrazia

Profit State

Nella stessa rubrica

7 Dicembre 1999. Presentata in Parlamento la proposta di legge di iniziativa popolare per l’“Istituzione del Reddito Sociale Minimo (rsm)”

Reddito Sociale Minimo e disumanizzazione del lavoro
Sergio Garavini

Profit State e processi sociali
Filippo Viola

Profit State e Reddito di Cittadinanza
Elettra Deiana

Profit State e crisi delle democrazie contemporanee
Mauro Fotia

Contro il Welfare dei miserabili
Luciano Vasapollo

Dalla guerra economica USA - UE alla guerra guerreggiata
Rita Martufi

 

Tutti gli articoli della rubrica "Il punto, la pratica, progetto"(in tutti i numeri di Proteo)


Home
Autori
Rubriche
Parole chiave

 

 

 

Profit State e crisi delle democrazie contemporanee

Mauro Fotia

Formato per la stampa
Stampa

2. Neoliberismo globale e precarizzazione della vita sociale

 

Come che sia, non deve perdersi di vista che, da un punto di vista culturale, siffatta rivoluzione non è niente altro che un naturale sviluppo delle logiche capitalistiche, delle loro origini legate all’esaltazione dello spirito individuale d’intrapresa, alla centralità del profitto come motore dello sviluppo, al ritorno, insomma, agli “spiriti animali” dell’economia concorrenziale e del mercato autoregolato. Il capitalismo finanziario in effetti enfatizza l’iniziativa capitalistica, attacca ogni forma di solidarismo, insegue forme economico-sociali di darwinismo capaci di spazzare via dal mercato non solo le imprese più deboli, ma anche quelle che in qualsiasi maniera risultino idonee a contrastare il dominio assoluto dei grandi gruppi, combatte fortemente tutto ciò che esprime relazioni sociali a contenuto valoriale non monetizzabile.

Gli archetipi del capitalismo finanziario sono due: quello anglosassone e quello renano-nipponico. Il primo modello che ha per capostipite gli Stati Uniti e per proseliti, da due decenni, l’Inghilterra, il Canada e l’Australia, è contraddistinto in genere da un forte spirito competitivo, dalla preminenza della tradizione utilitaristica individuale, dalla massimizzazione dei profitti a breve termine, dalla supremazia delle corporation. Il secondo modello, tenuto a battesimo dalla Germania e condiviso pur in diversa misura, oltre che dal Giappone, da vari paesi del nord Europa, si fonda su una combinazione fra iniziativa privata e politiche economiche pubbliche, sulla ricerca di una qualche partecipazione, su un intreccio più o meno stretto fra banche e imprese, sulla programmazione degli investimenti a medio lungo periodo. Il referente finanziario per il modello anglosassone è il mercato borsisitico, per il modello renano-nipponico è il sistema banca-impresa.

Se il primo modello sembra più vantaggioso per efficienza economica e capacità di reazione alle innovazioni, non lo è altrettanto per quanto riguarda la distribuzione del reddito e la solidarietà verso le fasce più deboli della popolazione, e viceversa.

Gli interrogativi sul nostro futuro non riguardano unicamente l’esito di tale competizione: come essa si concluderà e quale dei due modelli, o quale altro ancora, riuscirà a imporsi. C’è da chiedersi infatti se, al di là del successo riportato dal capitalismo in virtù delle sue maggiori capacità di produrre sviluppo, le sue forme di organizzazione e i suoi meccanismi siano ora in grado non solo di garantire un’ulteriore crescita dei paesi più industrializzati ma anche di scongiurare un aggravamento degli squilibri con il resto del mondo, aiutando le aree più deboli a liberarsi del fardello dell’indigenza e da uno stato di avvilimento e di emarginazione.

Quel che è avvenuto negli ultimi anni ha modificato profondamente il quadro di riferimento delle economie più avanzate e, di conseguenza, anche la natura e i termini dei loro rapporti con i paesi in via di sviluppo. La sempre più accesa competizione su scala mondiale ha determinato il decentramento di una quota consistente di attività produttive e di investimenti diretti, dai paesi più avanzati, caratterizzati tanto da una maggior rigidità del mercato del lavoro quanto da una più accentuata dinamica salariale, verso alcune aree periferiche a più basso costo del lavoro dove è possibile inoltre utilizzare in modo assai più duttile e prolungato, per l’assenza di vincoli sindacali, sia le prestazioni della manodopera che le potenzialità degli impianti, e far conto talora su particolari esenzioni in materia fiscale.

In Italia, rilevano gli autori del volume che qui stiamo analizzando, l’archetipo destinato ad attecchire è quello più aggressivo, espresso dal capitalismo finanziario anglosassone. L’ipotesi infatti che sembra affacciarsi di più sul panorama economico-finanziario italiano è quella di un neoliberismo selvaggio, poco preoccupato delle compatibilità socio-politiche del modello di sviluppo economico.

Il quadro teorico entro il quale il capitalismo finanziario si muove a livello mondiale è fornito da una visione ispirata e sorretta dal famigerato pensiero unico di questi anni, vale a dire dal neoliberismo globale.

Per questo i danni provocati sul piano sociale e politico sono incommensurabili. Intanto, gli investimenti finanziari nella grande maggioranza dei casi distruggono ricchezza reale. Riducono gli investimenti produttivi, mettendo in forse l’efficienza delle imprese e determinando di conseguenza un alto tasso di disoccupazione ed un incremento dei costi sociali in genere. Disarticolando inoltre i meccanismi del tessuto produttivo, creano elementi reddituali e patrimoniali a bassa tassazione, se non addirittura facili alla totale evasione ed elusione fiscale. L’Italia in questo senso, osservano Martufi e Vasapollo, in quanto favorita da una Borsa giovane, asfittica, instabile, appare pronta più che altri Paesi a consentire a i nuovi mercenari del capitalismo finanziario di rincorrere l’illusione della ricchezza cartacea. Oltretutto neppure nei casi di forte capitalizzazione borsistica può darsi per assicurato uno sviluppo dell’economia reale. E così accade spesso che la “bisca finanziaria” elargisce premi a quelle imprese capaci di tagliare l’occupazione e diminuire i salari.

Gli alti contenuti di flessibilità lavorativa esigiti dagli investimenti finanziari sono un altro risultato deleterio di questa forma di espansione drogata. Per massimizzare i profitti la strada più facile è la compressione dei redditi da lavoro dipendente, la riduzione dei salari [i].

In questo senso, nel fondo del sistema economico globale s’annida una pesante contraddizione. Essa scaturisce dalla non compatibilità del conflitto esistente tra ricerca di nuovi mercati e diffusione del lavoro a basso costo.

La minimizzazione del costo del lavoro mina l’espansione del mercato dei consumi, poiché l’impoverimento di vasti settori della popolazione mondiale, sotto i colpi della riforme macroeconomiche, conduce ad una drammatica riduzione del potere d’acquisto.

Inoltre, sia nei paesi in via di sviluppo, che in quelli industrializzati, i bassi livelli dei salari si ripercuotono sulla popolazione, provocando un’ulteriore sequela di chiusure di stabilimenti e di fallimenti. Ad ogni stadio di questa crisi, si va incontro alla sovrapproduzione mondiale e al calo della domanda di consumo. Riducendo la capacità di consumo della società, le riforme macroeconomiche applicate su scala mondiale ostacolano in definitiva l’espansione del capitale.

In un sistema che genera sovrapproduzione, le aziende e le società commerciali possono soltanto ampliare i propri mercati, indebolendo o distruggendo simultaneamente le basi produttive interne dei paesi in via di sviluppo, ovvero sganciandosi dalla produzione nazionale orientata al mercato interno. In tale sistema, l’espansione delle esportazioni nei paesi in via di sviluppo si fonda sul calo del potere d’acquisto interno. La povertà fa da introduzione all’offerta. I mercati emergenti vengono aperti con la concomitante sostituzione del sistema produttivo preesistente, le piccole e medie imprese sono costrette a fallire oppure si trovano obbligate a produrre per un distributore mondiale, le imprese statali vengono privatizzate o chiuse, i produttori agricoli indipendenti si impoveriscono [i].

Sul piano sociale generale ne consegue una precarizzazione dell’intero tessuto collettivo ed un forte abbassamento della qualità della vita. Fatti che alimentano diffuse e sempre più drammatiche condizioni di disagio, in particolare fra gli strati più deboli.

 

 

3. Privatizzazioni e sostituzione del Welfare State col Profit State

 

 

Tra le misure economiche idonee a far raggiungere il pieno dominio dei mercati da parte del capitalismo finanziario si distinguono le privatizzazioni. Il fenomeno delle privatizzazioni, caratteristico dell’ultimo ventennio, esprime meglio che ogni altro intervento la necessità dei vari modelli di capitalismo finanziario di mettere in discussione sul piano mondiale
 a partire naturalmente dalle nazioni occidentali ad economia avanzata - le conquiste del movimento operaio. Dando per scontato che le politiche di mediazione economico-sociali di stampo keynesiano sono divenute oramai incompatibili.

Si va dall’offerta pubblica di vendita (OPV), assai seguita nei Paesi occidentali (senza tuttavia escludere Paesi di altri continenti come il Giappone, la Tailandia, la Malesia), all’asta pubblica, praticata nelle nazioni dell’Est europeo, unitamente alla procedura dei “buoni cartolari”, che, dopo esser stati convertiti in azioni, sono stati distribuiti al pubblico a prezzi vantaggiosi, realizzando una sorta di azionariato popolare. Nei Paesi, poi, caratterizzati da una situazione di estrema crisi finanziaria, bisognosa di metodi di dismissioni semplici e rapidi, viene usata la trattativa privata. Tanto è accaduto in nazioni dell’America Latina quali l’Argentina, il Brasile, il Cile, la Bolivia, il Messico. E ancora, in Paesi sia avanzati che in via di sviluppo è stata utilizzata anche la cessione delle azioni ai dipendenti e ai manager dell’azienda stessa (Employees buy out). Infine, seppure a livello locale, negli Stati Uniti, in Canada, in Inghilterra, in Giappone, si è ricorsi al metodo della concessione di attività in appalto ai privati.

Nonostante i processi di ristrutturazione, riconversione, innovazione tecnologica avviati in seno alle imprese privatizzate, spesso l’aumento di efficienza e di produttività è stato illusorio. In realtà, è molto difficile stabilire un nesso tra proprietà dell’azienda e sua efficienza. Senza dire che gli indicatori tipici di efficienza e produttività aziendale non sono quasi mai trasportabili dal privato al pubblico e viceversa sulla base di semplici criteri quantitativi.

In ogni caso fortemente negative sono state le ripercussioni delle privatizzazioni sul piano della vita sociale e di quella politica.

In campo sociale sono conseguiti dannosi processi di privatizzazione del pubblico impiego, di desocializzazione di servizi pubblici di singolare portata civile, come la sanità e l’istruzione, di aziendalizzazione delle funzioni più tipiche del Welfare State.

Finalità ultima cui tutto appare rivolto è quella di abbattere ogni situazione che si riveli non dico conflittuale, ma semplicemente non omologabile alle compatibilità del profitto. Sì da poter dar vita ad un patto sociale complessivo che annienti ogni antagonismo, da innescare un panconsociativismo idoneo ad inglobare per intero tutti i rapporti sociali.

Sul piano politico, infine, il disegno palese da portare a compimento è quello di togliere allo Stato il ruolo di garante e di regolatore dei conflitti. Poiché gli interessi si aggregano ormai per settori, ragionano i teorici del neoliberismo globale, non c’è più l’esigenza di pensare in termini di interessi generali. E dunque lo Stato può liberarsi della sua natura di entità pubblica. La ristrutturazione moderna delle sue istituzioni deve ispirarsi ad una visione privatistica delle realtà politiche [1].

Il che, detto in termini ancora più espliciti, afferma la necessità che lo Stato rivesta il duplice ruolo di trasmettitore in seno al tessuto sociale delle idee forza della competitività del mercato e di fautore del raggiungimento del massimo profitto da parte dei grandi gruppi finanziari. Compito dell’odierno potere politico, lasciano intendere i neoliberisti, non può essere altro che la sostituzione del Welfare State col Profit State. Poco importa se con una siffatta operazione esso viene a rendersi totalmente subalterno al potere economico.

Dopotutto gli assertori come gli operatori della finanziarizzazione dell’economia a livello mondiale sono i nuovi colonizzatori, i nuovi assertori della fabbrica sociale generalizzata, gli apostoli dell’accumulazione flessibile globalizzata. Nessuno può resistere loro. Essi a tutto il resto aggiungono un pressing che si concretizza in un vero e proprio terrorismo sociale. Chi non accetta le ricette del neoliberismo promuove il “disastro mondiale”, rifiuta l’unica strada che può oggi assicurare la “salvezza dell’umanità”.

 

 

4. Strategie di resistenza al capitalismo globale

 

Tutte queste sono conseguenze di un approccio che vede l’espansione del mercato in quanto tale saldata al progresso sociale e alla democrazia. E che guarda alle vaste sacche di povertà, disoccupazione e marginalizzazione sociale da esso prodotte come a fenomeni transitori destinati ad essere riassorbiti in breve tempo nella sua circolarità virtuosa. Questo stesso approccio giudica semplicisticamente l’approdo dell’economia odierna alla globalizzazione come ineluttabile. Senza preoccuparsi di porsi il problema se l’interdipendenza economica fra gli Stati non debba essere negoziata; se non si debbano definire e sostenere forme di sviluppo a livello nazionale; se non vadano corrette, anziché lasciate inasprire, le ineguaglianze di partenza.

Nonostante il perseguimento dell’utopia neoliberista abbia prodotto in poco tempo risultati catastrofici e la sua teorizzazione stia perdendo forza ogni giorno più, la posizione predominante degli scienziati sociali (economisti e politologi) rimane a favore della promozione di un sistema economico globale.


[i] M. Chossudovky, La globalizzazione della povertà. L’impatto delle riforme del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale , Torino, 1998, p.9.

[i] M. Chossudovky, o.c., pp. 217-271. V. pure H.P. Martin - H. Schumann, La trappola della globalizzazione. L’attacco alla democrazia e al benessere, Bolzano, 1997. Più specificatamente, per la ragioni che hanno portato il sistema finanziario a divenire sempre più folle e incontrollabile, cfr. S. Strange, Denaro impazzito. I mercati finanziari: presente e futuro, Milano, 1999.

[1] Per l’interconnessione tra economia, società e Stato affermata dai processi di globalizzazione, v. T. Spybey, Globalizzazione e società mondiale, Trieste, 1998. Ma v. anche E.B. Kapstein, Governare l’economia globale. La finanza internazionale e lo stato, Trieste, 1999.