Contratto di lavoro, regimi di proprietà e governo dell’accumulazione: verso una teoria generale del capitalismo (II)
Ernesto Screpanti
Questo saggio viene presentato in due parti; la prima qui di seguito, mentre la seconda parte sarà pubblicata sul prossimo numero di Proteo |
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Il contratto di mezzadria istituisce una forma di
associazione tra il concedente, B, e il mezzadro, L, in forza
della quale quest’ultimo fornisce l’attività lavorativa necessaria per lo
svolgimento di un processo produttivo i cui mezzi di produzione appartengono a B.
Sebbene i fini della produzione possano essere decisi da B, con o senza
la partecipazione decisionale di L, i servizi lavorativi, x,
vengono apportati da L e decisi da lui, in piena autonomia, nel periodo t1-to.
I profitti vengono ripartiti generalmente in parti uguali tra B e L.
Sembra possibile che con questo accordo si possa guadagnare un profitto netto,
ciò che accadrà se la quota di reddito di B è superiore agli interessi
sul capitale. Ma proprio per questa ragione l’accordo sarà percepito come
iniquo dai lavoratori. Essi hanno erogato un’attività produttiva e
decisionale producendo un valore, solo una parte del quale gli torna come
remunerazione. Perciò, se deve essere applicato il principio di equivalenza,
bisognerà che il valore dei servizi resi dal mezzadro sia precisamente uguale
al 50% del valore aggiunto. Nel qual caso neanche questo tipo di contratto
consentirà a B di incamerare un profitto. Ad ogni modo non è necessario
che la divisione dei profitti venga fatta al 50% e in generale lo schema di
mezzadria può essere preso a prototipo di una vasta serie di schemi di
pagamento nei quali la retribuzione di L viene fatta dipendere dal
risultato produttivo. Si pensi ai pagamenti in base alla performance, ai
cottimi a pezzo e a risultato, alle provvigioni, ai bonus di gruppo, ai
premi d’operosità, alla partecipazione agli utili ecc. In tutti questi casi
però vale lo stesso risultato che si è ottenuto con la mezzadria in senso
stretto: se la remunerazione di L coincide con la sua produttività, B
non è in grado di estrarre un profitto dall’uso del lavoro.
Il contratto di lavoro e l’impresa capitalistica
C’è infine una quinta possibilità: proporre ai lavoratori
un accordo in virtù del quale essi accettano di rinunciare alla propria
autonomia decisionale per un certo numero di ore al giorno, durante le quali
svolgeranno attività lavorativa sotto il comando del signor B. In base a
questo accordo i lavoratori non conoscono ex ante che tipo di attività
saranno chiamati a svolgere. Né gli interessa saperlo. La loro attività
durante l’orario lavorativo non sarà più una loro azione, ma sarà una
manifestazione della volontà del datore di lavoro e un mezzo per la
realizzazione dei suoi fini. Qualunque remunerazione essi riceveranno, non ci
sarà alcun modo di ricondurla ai servizi lavorativi da essi erogati, poiché
tali servizi si configurano in realtà come appartenenti al signor B. Che
cosa questi farà con le ore del loro tempo lavorativo è un suo problema e una
sua prerogativa. Così la loro remunerazione non si configura come il prezzo di
una merce e il valore del prodotto ottenuto con la loro attività non si
configura come valore prodotto da loro. Il salario non è il prezzo dei servizi
lavorativi, ma un compenso per l’impegno all’obbedienza. Non c’è quindi
motivo di fare appello al principio di equivalenza nel fissare il salario, il
quale infatti è determinato ex ante indipendentemente dalla
produttività del lavoro; anzi, non c’è proprio modo di farlo. Perciò è
possibile che il signor B riesca a ottenere con l’attività lavorativa
a sua disposizione un valore aggiunto che, al netto degli interessi, risulta
superiore a quello pagato ai lavoratori in cambio della loro obbedienza, cioè
un profitto.
Se w viene deciso alla stipulazione del contratto, x
viene invece deciso durante il processo produttivo, e viene deciso da B.
È importante capire che il contratto di lavoro si distingue da tutti gli altri
tipi di transazione finora esaminati per il fatto che in esso non si scambia una
merce. Quegli altri tipi in effetti consistono in accordi che regolano lo
scambio di una merce, i servizi del lavoro. Perfino il contratto di società,
nella misura in cui i soci conferiscono lavoro, può configurarsi come una forma
di scambio, per la precisione come uno scambio multilaterale. E in tutti i casi
il reddito percepito dai lavoratori rappresenta una remunerazione del contributo
produttivo arrecato dal bene che essi apportano. Non così col contratto di
lavoro, nel quale al momento della stipula il lavoratore non è tenuto a sapere
niente delle specifiche attività che verrà chiamato a svolgere. Qui non si
scambia un bene, si assume un obbligo all’obbedienza. Con quest’obbligo il
lavoratore rinuncia alla propria autonomia decisionale per un certo numero di
ore al giorno e il datore di lavoro acquisisce potere di comando sul lavoro. L’attività
lavorativa, dopo la stipula del contratto, non si presenta come un’azione del
lavoratore, bensì come un’azione del datore di lavoro. E il prodotto che si
ottiene tramite essa appartiene al datore di lavoro, cosicché non c’è
ragione per collegare la remunerazione del lavoratore a un suo contributo
produttivo. Ovviamente esiste pur sempre un contributo produttivo dell’attività
lavorativa, ma non è, legalmente, un contributo del lavoratore. Inoltre,
proprio poiché col contratto di lavoro non si scambia un bene, la remunerazione
del lavoratore non si configura come il prezzo di una merce.
È precisamente per questa ragione - perché il salario non
è il prezzo dei servizi del lavoro - che il datore di lavoro può riuscire ad
estrarre un profitto dall’uso del lavoro. Infatti, poiché il contributo
produttivo dell’attività lavorativa non è pertinenza del lavoratore, non c’è
modo di ricondurre il salario al valore del rendimento del lavoro; mentre,
poiché il salario non è il prezzo di una merce, non c’è modo di ricondurlo
a un costo di produzione. In altri termini, non si può invocare il principio di
equivalenza per la determinazione del salario. E coloro che volessero
giustificare quel principio con un’ipotesi di concorrenza perfetta dovrebbero
riflettere sul fatto che mai, neanche ai primordi del capitalismo, come già
Adam Smith mostra di aver capito perfettamente, il salario è stato determinato
propriamente sulla base della legge della domanda e dell’offerta.
L’obbligo all’obbedienza assunto dal lavoratore col
contratto di lavoro istituisce l’impresa capitalistica, la quale può
essere definita come un’organizzazione basata su una gerarchia di potere
finalizzata alla produzione di profitti. L’impresa capitalistica è un nesso
di contratti di lavoro, vale a dire proprio l’opposto di ciò a cui
pensano i teorici del “nesso di contratti”. Per conoscerne le ragioni d’esistenza
non c’è bisogno di sapere nulla del funzionamento del mercato, tanto meno
delle sue imperfezioni. Essa non nasce in effetti da nessuna imperfezione del
processo di scambio mercantile. Né i costi di transazione, né l’incertezza,
né le asimmetrie informative, né alcun altro tipo di fallimento del mercato
generano le condizioni d’esistenza dell’impresa capitalistica. Le teorie che
sostengono il contrario si basano in realtà su una qualche confusione riguardo
alle forme contrattuali che possono essere usate per la mobilitazione del
lavoro.
Per afferrare la ratio dell’impresa capitalistica,
ad esempio, bisogna evitare di confondere il contratto di lavoro con quello di
mandato. [1] In quest’ultimo infatti il mandatario
conserva la propria autonomia decisionale nel processo produttivo, il contratto
impegnandolo solo a impiegarla per i fini posti dal mandante. Nel contratto di
mandato vengono scambiati dei servizi lavorativi, insieme alla delega ad una
delle parti di definirne autonomamente la natura nel corso del processo
produttivo. Si tratta di un accordo perfettamente definito nella sfera del
mercato, il quale dunque non fa difetto come meccanismo di allocazione dei
servizi lavorativi. Ma se l’accordo funziona, in una situazione in cui il
mandatario è neutrale al rischio come il mandante, non c’è modo per quest’ultimo
di usarlo per estrarre profitti dal processo produttivo.
Bisogna evitare anche di confondere il contratto di lavoro
con quello d’opera. E la tendenza di molti economisti contemporanei a
considerare il primo come un contratto incompleto deriva proprio dall’incapacità
di distinguerlo dal secondo. [2] Il contratto di lavoro non presuppone la conoscenza ex ante
della natura del processo lavorativo, poiché i compiti dei lavoratori e i
servizi lavorativi potranno essere definiti dopo la stipula del contratto.
Invece nel contratto d’opera, dovendosi scambiare degli specifici servizi del
lavoro, è necessario che la natura del processo lavorativo sia nota ex ante.
Quando chiamiamo l’idraulico a ripararci il lavandino sappiamo qual è il tipo
di servizio che chiediamo e, se l’idraulico conosce il valore del proprio
capitale ed è in grado di farselo pagare, non c’è modo di estrarre un
profitto usando questo tipo di transazione.
Il contratto di lavoro è un’altra cosa, e non deve essere
considerato come una forma incompleta di quello di mandato o di quello d’opera.
E poiché non si configura come un contratto di scambio di una merce, in esso l’allocazione
del lavoro non è assicurata dal mercato. In effetti è definita nel processo
lavorativo e all’interno di una struttura gerarchizzata: l’impresa
capitalistica. L’origine di tale struttura non dipende da un fallimento del
mercato ma solo da una cosa: l’aspirazione al profitto del datore di lavoro.
Si osservi che questa teoria dell’organizzazione non è una
teoria dell’impresa generica; è una teoria dell’impresa capitalistica.
Il carattere capitalistico dell’impresa è essenziale per capirne la natura e
la ratio. Ed è proprio tale carattere che consente di cogliere l’essenzialità
della gerarchizzazione dei rapporti sociali al suo interno. Si tratta solo di
una gerarchia elementare, a questo livello d’astrazione. È una gerarchia che
non ha finalità di controllo, se non esistono asimmetrie informative. Né ha
finalità di coordinamento, se non esistono neanche rendimenti di scala
crescenti o produzione di squadra. Altrove (Screpanti, 2001) si è mostrato che
man mano che ci si avvicina alla realtà, nella definizione del comportamento
degli agenti economici e delle condizioni di produzione, la gerarchia di
fabbrica si arricchisce di funzioni e di complessità. Ma è solo al presente
livello di astrazione che si riesce a cogliere il fondamento istituzionale di
ogni tipo e di ogni funzione della gerarchia capitalistica. Resta sempre vero
infatti che la legittimità del comando capitalistico, qualunque sia la sua
funzione particolare, deriva dall’impegno dal lavoratore all’obbedienza. In
altri termini, quella istituita dal contratto di lavoro è una gerarchia di
potere e, in quanto tale, è fondamentale.
Ciò che si è voluto dimostrare è che il contratto di
lavoro è la forma di transazione con cui si costituisce l’organizzazione
economica che usa il capitale nel processo produttivo al fine di estrarre un
plusvalore. Questa forma contrattuale infatti, generando il comando sul lavoro,
pone le condizioni per il controllo del processo lavorativo da parte del
capitalista. I rapporti di forza tra le classi poi determineranno il salario,
mentre l’abilità manageriale del datore di lavoro determinerà la
produttività del lavoro. Dall’interazione di questi due fattori dipenderà la
grandezza dello sfruttamento. Con gli altri tipi di contratto invece lo
sfruttamento presuppone la trasgressione del principio di equivalenza e dipende
unicamente dalla forza espressa dalle parti nel processo di contrattazione delle
remunerazioni, e comunque non dal controllo capitalistico del processo
lavorativo. Quindi la prima differenza fondamentale tra il contratto di lavoro e
gli altri tipi di transazione considerati ha a che fare con l’assegnazione del
controllo produttivo ai capitalisti invece che ai lavoratori.
Ma c’è una seconda differenza fondamentale. Si deve
infatti osservare che, se il funzionamento dei mercati garantisse l’equivalenza
degli scambi, non si potrebbe ottenere sfruttamento dall’uso delle forme
contrattuali in cui vengono scambiati i servizi del lavoro. Tuttavia l’applicazione
del principio di equivalenza alla remunerazione dei servizi lavorativi, nel caso
del contratto di lavoro, è compatibile con lo sfruttamento in quanto questo
tipo di contratto fa sì che l’erogazione dei servizi del lavoro sia opera dei
capitalisti invece che dei lavoratori. Così, mentre lo sfruttamento
eventualmente generato dagli altri tipi di contratto può essere interpretato
come la conseguenza della trasgressione di un elementare principio etico degli
scambi, ciò non è più possibile con il contratto di lavoro.
[1] Una certa confusione è prodotta dall’uso eccessivamente generico
che oggi si fa del modello principale-agente, soprattutto tra gli economisti, un
uso che porta a sussumervi pressoché tutte le forme contrattuali adatte alla
mobilitazione del lavoro, dal contratto di lavoro al contratto d’opera, da
quello di mezzadria a quello di mandato in senso stretto. Per evitare questa
confusione il rapporto di mandato (agency) è stato qui definito nel
senso che esso ha nel diritto romano. In tale forma contrattuale un mandator
(mandante, principal) dà incarico a un procurator (mandatario, agent)
di intraprendere autonomamente azioni nell’interesse del mandator
stesso. Questo tipo di contratto non comporta l’acquisizione di facoltà di
comando da parte del mandator.
[2] Questa tendenza fa il paio con l’inclinazione a
ridurre il sistema capitalistico al sistema di mercato. In molte elaborazioni
recenti si sostiene che, a causa dell’incertezza, la complessità, il
cambiamento tecnico ecc., sia impossibile specificare ex ante le mansioni
e le operazioni a cui il lavoratore dovrà piegarsi nel processo lavorativo e
che perciò il contratto sarà necessariamente incompleto riguardo alle sue
implicazioni tecnologiche. Una tale argomentazione sarebbe valida se il
contratto di lavoro fosse riducibile a quello d’opera. Ma le cose non stanno
così. Il primo tipo di contratto non ha bisogno di definire la natura dei
servizi lavorativi perché non è un contratto di scambio di servizi. Dal punto
di vista tecnologico non può essere né completo né incompleto perché è
vuoto di implicazioni tecnologiche. Le sue vere implicazioni sono di natura “politica”,
in quanto esso istituisce un rapporto di potere, definendone eventualmente i
limiti. Può dunque essere incompleto come qualsiasi istituzione negoziale, ad
esempio per i suoi effetti su terzi o per la definizione delle norme
disciplinari. Ma si tratta di incompletezza relativa ai limiti dell’autorità,
non alla natura dei servizi lavorativi. La differenza tra contratto di lavoro e
contratto di compravendita è stata colta dagli economisti, e non ancora da
tutti, solo in epoca piuttosto recente, e soprattutto per merito di Simon
(1951).