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Flávio Bezerra de Farias
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Dottorando in Scienze Economiche (Università di Parigi XIII). Professore all’Università Federale di Maranhão. Borsista CAPES (Brasile). Dirigente della CUT - Regione di Maranhão (CUT-MA)

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Critica della filosofia politica dell’Europa
Flávio Bezerra de Farias


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Critica della filosofia politica dell’Europa

Flávio Bezerra de Farias

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Introduzione In questo articolo verranno analizzati i due concetti di unificazione statale europea, nel quadro contemporaneo della ristrutturazione e della mondializzazione del capitale. Sebbene distinti, poiché uno è postfrancofortese (Habermas) e l’altro poststrutturalista (Balibar), ambedue si collocano nella prospettiva riformista di costruzione di uno Stato europeo. Adottano, quindi, una visione positivista contraria all’utopia concreta che orienta il movimento reale che oltrepassa il capitalismo in Europa. Oltre a ciò, impongono l’idea che bisogna essere post-marxisti per comprendere e per riformare l’economia e la politica dell’era postmoderna. Al contrario di questa via conformista, è a partire dall’ontologia dell’essere sociale che si apprende la dialettica attuale del capitale e dello Stato in Europa, ed è da lì che questa dialettica può essere trasformata a favore degli interessi dei lavoratori e, quindi, contro lo sviluppo disuguale delle forme socio-economiche capitaliste.

1. Ontologia dello Stato federativo europeo A partire dal 1998, sembra che l’ideologia tedesca si sia unificata attorno alla tesi “euro-federalista”, contro le posizioni assunte dagli “euroscettici”, dai “filoeuropei” e dai “sostenitori di una regolamentazione politica su scala mondiale (global governance)” (Habermas 2000, 90). Dopo gli attentati dell’11 settembre del 2001, secondo Beck (in Weill 2001, 32), la sicurezza nazionale “non è, evidentemente, un attributo del dominio della nazione” (nella rivista Der Spigel, del 15 ottobre 2001). Questo sociologo tedesco che, peraltro, “reinventa la politica” intorno alla nozione di “rischio” (Beck 1992; 1997), difende la tesi generale secondo la quale questi attentati, come la guerra in Afghanistan, “lontani dall’aver causato una flessione della mondializzazione, la hanno invece accellerata” (in Weill 2001, 32)2. Il pensiero adottato dal sociologo di Monaco non deriva da un grossolano manicheismo, ma consiste nel raziocinio fondato sulle antinomie della filosofia politica kantiana che, in ultima istanza, lo conduce ad un manicheismo pensato. Attraverso questo metodo idealista, deduce una “legge insolita”, difficilmente percettibile in maniera immediata dall’opinione pubblica, “che fa della resistenza contro la mondializzazione - che lo voglia o meno - un suo accelleramento” (Beck 2001, 16). Da questo paradosso, ne deriva che “il termine mondializzazione dà luogo ad uno strano processo, la cui realizzazione procede su due linee opposte: o si è a favore, o è si è contrari” (Idem). Beck sostiene che, con il progresso ambivalente e irreversibile della mondializzazione, “la categoria dello Stato-nazione diventa anacronica” (in Weill 2001, 32). Nell’attuale crisi, anche il neoliberalismo dovrebbe essere superato (Beck 2001, 16), perché si possa imporre, nell’”era del rischio” (Beck 1995), una strategia globale di regolamentazione delle nuove, o delle antiche, incertezze, interne o esterne, spontanee o meno (Giddens 2000, 31 e seguenti). Per Beck, in questo processo di mutamento “le posizioni tradizionali di lotta delle classi, diventano irrisorie di fronte alle minaccie che riguardano la salute e la sicurezza” (in Le Monde-Économie, intervista, Parigi 20/11/2001, III). Il sociologo tedesco si pone esternamente al dibattito intorno alla necessità sia dell’ampliamento della mondializzazione e dell’auto-regolamentazione del mercato (filoeuropei), sia dell’aumento della statalizzazione e della regolamentazione a livello nazionale (euroscettici); questo è un dibattito attuale, che si riaccende ogni qualvolta accadono eventi come gli attacchi terroristici, o ogni qualvolta che si discute sulla costituzione dell’Europa ampliata. Ma Beck non sta né dalla parte degli eurofederalisti, néda quella dei sostenitori della regolamentazione politica su scala planetaria, nel senso della global governance. L’autore tedesco si contraddice quando condiziona l’esistenza di un’ “economia mondiale” a quella dei “foruns o delle modalità garantendo, su scala nazionale - ma anche, d’ora in avanti, globale - una risoluzione dei conflitti regolata a livello giuridico” (Beck 2001, 16), da un lato; e, dall’altro, la statalizzazione globale che implica nuove alleanze, aldilà dello Stato-nazione3. Oggi, nell’era del post Stato-nazione, “la differenza cruciale risiede nel fatto che le alleanze globalizzate non sono solo decisive per la sicurezza esterna, ma anche per quella interna” (Beck in Weill 2001, 32). Sostiene che, per raggiungere l’unificazione statale del mondo, le alleanze imperiali debbano essere fatte secondo i principi filosofici cosmopoliti del secolo XVII, la cui pratica assomiglia molto a quella della attuale politica imperialista di Bush&Blair in Afghanistan, in Iraq, etc.4 Il sociologo di Monaco è da tempo uno dei sostenitori della cosiddetta terza via (neoliberale e social-democratica allo stesso tempo), che si basa sul modello della “nuova sinistra” di Giddens (1998). Secondo il suo più recente punto di vista sugli attentati e sui pericoli derivanti dall’ “irruzione del terrore globale”, l’11 settembre rappresenta l’inizio della “fine del neoliberalismo” puro e duro: “in un mondo di rischi globali l’idea di un ordine neoliberista che ricorre alla sostituzione della politica e dello Stato con l’economia, risulta sempre meno convincente” (Beck 2001, 1). Così diventa un adepto dell’antica via kantiana adottata da Habermas (1996), nel senso di “un’associazione tra la mondializzazione economica e una politica cosmopolita” (Beck 2001, 16). Pertanto si deve riconoscere che la statalizzazione non è inutile, nel caso si pretenda di oltrepassare gli Stati-nazione attraverso una specie di terza via cosmopolita5. Habermas, però, ha già rifiutato questa posizione di doppia interpretazione: “specialmente perché questa nuova sinistra adotta pure le rappresentazioni etiche del neoliberalismo” (Habermas 2000, 140), alla maniera dei nuovi laburisti inglesi. Tuttavia, la via adottata dal critico tedesco non è di per sè priva di ambiguità. In un’altra occasione venne criticato, a partire dall’ontologia dell’essere sociale, l’imbroglio delle antinomie habermasiane (nell’esame dei suoi testi relativi al periodo 1981-1998), in quanto venne evidenziata la natura astratta della sua utopia cosmopolita di unificazione statale del mondo (Farias 2001, 89 e seguenti). Per questo motivo, qui si esamina solo la proposizione formulata a partire dal 1998, di una nuova “costellazione politica” per il “ post-Stato-nazione” (Habermas 2000). Si tratta di un’ideologia, di stampo tedesco, che è entrata in voga nel partito social-democratico, che consiste nel cercare una via europea per “la democrazia propria dello Stato sociale”, e un suo sviluppo “per andare aldilà delle frontiere nazionali” (Idem, 9). Nella lunga visualizzazione del rilancio sul XX secolo europeo (1914-1989), Habermas tenta di realizzare un esame più attento. Dal 1945 al 1980, le sue analisi si soffermano sull’importanza del progresso della democrazia durante la Guerra Fredda, della decolonizzazione e della costruzione dello Stato sociale. In seguito rileva, nei suoi “diagnostici”, il fatto che la costruzione europea durante gli anni ’90 non è stata sufficientemente avanzata in termini di democrazia, di giustizia sociale, di integrazione politica, etc. (Idem). Da qui, il suo rifiuto tanto del neoliberalismo effettivamente implementato a partire dagli anni ’80, quanto della “retorica di una terza via”; da un altro punto di vista, si dovrebbero combattere anche le “alleanze” immobili tra gli “eurofili, sostenitori del grande mercato interno” e gli “euroscettici, difensori dello Stato-nazione” (9-10), poiché “per l’ordine politico e sociale dell’Europa”, dopo la Seconda Guerra Mondiale, “la mondializzazione rappresenta la sfida principale” (27). Riassumendo, Habermas pensa di collocare le redini cosmopolite della mondializzazione sfrenata del capitale, per essere in grado di accogliere la seguente ambizione innovatrice: oltrepassare “la società fondata sul lavoro”, il falso dibattito che oppone “la giustizia sociale e l’efficacia del mercato” alle insufficienze in termini di “identità collettiva” per andare aldilà delle frontiere di una nazione e della “capacità di azione” di fronte alla disoccupazione, alle disuguaglianze di reddito, etc. (90 e seguenti). Ciò non può accadere senza la legittimazione di uno Stato europeo, sotto la forma costituzionale federativa, che si situa aldilà del ristretto quadro giuridico fissato dai trattati internazionali (106). Il filosofo post-marxista tedesco si mette tra le schiere degli autori weberiani difensori della tesi secondo la quale, con il progresso dell’era industriale “la sovranità non è solamente decaduta o stata aggirata: è anche stata superata dall’irruzione delle nuove sfide e dei problemi inediti” (Badie 1999, 165). Così, ci si deve adattare alle trasformazioni obiettive che vengono intuitivamente scoperte nel dominio della divisione del lavoro, dell’ecologia e della demografia. Questi mutamenti esigono nuove funzioni burocratiche e amministrative, più ampie e profonde, con il fine di promuovere il benessere generale dell’umanità. Da qui la necessità di andare aldilà della “esclusiva gestione della sovranità”, la cui forma rimane “partitiva concorrenziale e, pertanto, spesso contraddittoria” (Idem).

2. La dialettica dell’universale e del particolare Si tratta, quindi, di costruire una forma statale particolare, propria dell’era della mondializzazione, poiché questo fenomeno “limita” o “restringe il raggio d’azione” tanto degli attori dello Stato-nazione in generale, quanto del plotone degli Stati centrali, e ancor di più degli Stati del terzo mondo (Habermas 2000, 27 e 31). Il sociologo tedesco deduce da ciò che “la libertà che resta loro non è sufficiente a garantire la compensazione degli effetti secondari, indesiderabili dal punto di vista sociale e politico, causati da un mercato diventato transnazionale” (Idem, 31). Definisce i principi di un interventismo cosmopolita “che ha l’ambizione di imporre alla società mondiale, sfrenata sul piano economico, una nuova chiusura di ordine politico” (92). Ma la riforma radicale “in direzione di una politica interna su scala planetaria”, non esige un “governo mondiale” (112). Nel grande dibattito sulla mondializzazione (Held & McGrw, 2000), Habermas continua ad interpretare in maniera positivista il fenomeno, abbordato, soprattutto, dal punto di vista dell’omogeneità e del progresso definito dal capitalismo (Habermas 2000, 27). nella sua interpretazione della mondializzazione, non c’è spazio per le relazioni contraddittorie, di gerarchia e distinzione, che si esprimono al livello di tutti i dominii dell’organizzazione politica. Questi dominii, al contrario, sono considerati come fluidi e dinamici. Ciò che continua ad essere assente nella sua teoria critica è, principalmente, l’influenza dello sviluppo disuguale del capitalismo sulle forme statali, anche nell’esperienza europea. In generale, la metodologia habermasiana privilegia la globalizzazione antinomica, a detrimento della dialettica incentrata su una totalizzazione sotto forma di sillogismo. Per questo, in particolare, l’articolazione teorica tra le categorie della superstruttura e della base, è fallita a causa di una forma generale di descrizione “dello sviluppo demografico, del mutamento strutturale della natura del lavoro e del ritmo dei progressi scientifici e tecnici” (Habermas 2000, 14). Nel frattempo, l’autore tedesco si presta a diventare il maestro pensatore di tutti coloro che voglion implementare la “radicalizzazione” social-democratica in Europa, proteggendola dalle catastrofi simili a quelle avvenute durante il secolo XX, tanto breve, ma pieno di guerre e di rivoluzioni.Questa radicalizzazione politica senz’altro originale, esige come fine lo Stato-nazione in Europa e la creazione, che gli è conseguente, della forma dello Stato federativo europeo. Per Habermas, in Europa, si deve andare aldilà dello Stato-nazione, in modo da poter superare certi problemi attuali, tra i quali la frammentazione politica, i rischi ecologici, la crescente esclusione sociale e l’impotenza della regolamentazione nazionale di fronte ai numerosi capitali mondializzati. Si tratta di una soluzione politica specifica, perché “L’istituzionalizzazione dei procedimenti che permettono di conciliare e di generalizzare gli interessi su scala planetaria, e di costruire comunità di interessi, con la connessa immaginazione, non potrà operare sotto forma di uno Stato mondiale, prospettiva questa che, del resto, non è desiderabile, ma dovrà tenere conto dell’indipendenza, dell’ostinazione e del carattere particolare degli Stati” (Idem, 38) Ma il futuro della costruzione europea non può realizzarsi sotto il rischio e la violenza propri dell’assenza di universalizzazione della democrazia sociale, politica e culturale. Habermas visualizza solo, in termini normativi,un’ “unica soluzione alternativa soddisfacente”, ovvero: quella che “risiede nell’evoluzione della UE verso il federalismo, l’unico capace di implementare una politica sociale ed economica e di lavorare per l’istituzione di un ordine cosmopolita sensibile alle differenze e che riesca a correggere le disuguaglianze sociali” (10). Solamente la forma particolare dello Stato federativo europeo “che si impegni per la riduzione della violenza, incluse le sue forme sociali e culturali, non correrà il rischio di una ricaduta postcoloniale dell’eurocentrismo” (Idem). Alla fine dei conti, in questo recupero delle relazioni tra la base e la sovrastruttura, c’è molta meno ingegnosità di quella che si trova alla base della recente affermazione di una disgiunzione tra il mondo vitale e il sistema, a vantaggio della vecchia contraddizione tra le funzioni di legittimazione e le funzioni di accumulazione. Dalla fine degli anni 70, il pensiero di Habermas (1987) è diventato sempre più discorsivo e critico del funzionalismo. A partire dalla teoria dell’agire comunicazionale, questa contraddizione dello Stato sociale è stata accantonata, dopo il presupposto esaurimento delle energie utopiche del lavoro.

3. La dialettica del governo e dello Stato propriamente detto Per il sociologo di Francoforte, urge costruire la struttura statale europea del futuro, per controllare, attraverso le sue funzioni di accumulazione e di legittimazione, ciò che la mondializzazione del capitale scatena, poiché “oggi, la UE si presenta come uno spazio continentale che forma una rete densa di mercati, ma la cui regolamentazione politica, esercitata verticalmente attraverso le vie delle legittime autorità, risulta relativamente fiacca” (Habermas 2000, 142). Pertanto, esiste una necessità storica di adattare questa esperienza d’unione tanto all’avanzamento della mondializzazione del capitale, quanto alla democrazia rappresentativa borghese. Si tratta di una sfida di natura progressista e funzionale per la UE, poiché, nel dominio dei regimi di sicurezza sociale, si trova di fronte al seguente dilemma: la prima alternativa è quella di distaccarsi da questi attraverso le vie del mercato (lasciando agire pienamente la concorrenza tra i regimi sociali e gli spazi di produzione)”; la seconda alternativa consiste nel “trattarli attraverso metodi politici, sforzandosi di arrivare ad un’armonizzazione e ad un adattamento progressivo alle questioni decisive in materia di politica sociale, di impiego e di tasse” (Idem, 143) La struttura della forma dello Stato federativo europeo è dedotta dalla necessità che la UE ha di essere di nuovo capace di adempiere armonicamente, come nel caso di tutti gli Stati sociali, alle sue funzioni di accumulazione e di legittimazione su scala europea. É unicamente sotto questa forma statale che “può trovare la forza politica per prendere delle decisioni atte a correggere gli effetti del mercato e di imporre delle regolamentazioni che producano degli effetti in materia di redistribuzione” (144). É fantasioso immaginare che questa armonia potrebbe prodursi in un tale scambio di esperienze storicamente determinate, e in un più ampio spazio d’integrazione con la social-democrazia europea, relativamente al contesto dello Stato previdenziale e nazionale. Lo stesso Habermas ha fatto una “diagnosi”, nel 1985, secondo la quale la crisi e l’esaurimento delle energie utopiche di questa forma statale sono, giustamente, provocate dall’antagonismo tra le funzioni di accumulazione e di legittimazione. Come può, oggi, questo antagonismo sparire quando “nessuno è desideroso di lanciarsi alla ricerca di un’utopia”, dal momento che “tutte le energie utopiche sembrano ridotte a nulla?” (Habermas 2000, 35). Senza dubbio, è dal punto di vista dell’utopia astratta che il pensatore tedesco non vede “alcuno ostacolo di ordine strutturale che possa opporsi ad un ampliamento della solidarietà nazionale dei cittadini e della politica dello Stato-previdenza su scala di Stato federale postnazionale” (Idem, 118). Si tratta, ovviamente, di un’anticipazione relativa all’ambito dell’utopia della realpolitik, nota caratteristica della social-democrazia, che propone soluzioni realistiche alle difficoltà create dalla mondializzazione e che pone “tre grandi difficoltà, ovvero: “le minacce ecologiche”, “le deregolamentazioni economiche e finanziarie” e “la crisi del senso e del pensiero”, la cui “risposta civica ed etica” prende due vie: “La prima via è quella dell’emergenza di una cittadinanza e, al limite, di una democrazia mondiale, le uniche capaci di offrire una base di legittimità democratica per le risoluzioni ecologiche, sanitarie, sociali ed economiche, diventate indispensabili. La seconda via, è quella di fornire una qualità etica, che manca in questo progetto democratico. La democrazia non si riduce né al principio elettivo, e nemmeno al potere dei popoli di autogovernarsi: le elezioni possono essere utilizzate dai dittatori; i popoli, abbandonati alle loro paure o alle loro passioni identitarie, rischiano di lanciarsi nelle guerre o di opprimere altri esseri umani” (Kucan, Habermas, Et Al 2002, 8). Queste sono le stesse vie di cui parla il cosmopolita Ulrich Beck (ideologo della nuova sinistra lavoratrice) che afferma che “la globalizzazione dei ricchi” rende evidente “l’immensa difficoltà dello Stato-nazione a predire, organizzare e controllare il rischio in un mondo di reti mondiali interattive e di fenomeni ibridi, soprattutto quando nessuno si assume la responsabilità dei risultati” (Le Monde-Économie, Parigi, 20/11/2001, III).

4. La genesi della particolarizzazione e della autonomizzazione relativa Per Habermas, soprattutto in Europa, nasceranno e si svilupperanno le diverse forme statali, la cui esistenza è particolare e autonoma in relazione alle classi sociali e all’economia. Ciò dovrebbe permettere loro di regolamentare le contraddizioni del capitalismo. All’interno delle forme variabili nel tempo e nello spazio, lo Stato sociale dovrebbe implementare il tipo di regolamentazione più efficace, con rispetto verso lo sviluppo della democrazia sociale e politica. L’autore tedesco deduce la tendenza alla costituzione di una forma di esistenza propria e autonoma dello Stato federativo europeo, basata sui nuovi problemi di regolamentazione, causati dalla mondializzazione, come fenomeno specifico di fine secolo XX, perché, dal 1980, questo fenomeno “influenza” certe determinazioni chiave della forma dello Stato sociale in Europa, come “la sicurezza giuridica e l’efficacia dello Stato amministrativo, la sovranità dello Stato territoriale, l’identità collettiva e la legittimità democratica dello Stato-nazione” (Habermas 2000, 57). Si pone, infine, la sfida della gestione della nuova politica propria della costellazione post-nazionale, per evitare, giustamente, i rischi e i danni provocati da questo mutamento, soprattutto nei domini dell’autonomia, della capacità di azione e di legittimazione statale.

5. Il feticismo come impersonificazione e come reificazione La nuova costellazione post-nazionale non permette il superamento del feticismo dello Stato, ossia, “prima di poter esercitare un’azione politica sopra se stessa, una società deve sviluppare un sistema parziale specializzato, capace di prendere delle decisioni assunte dalla collettività” (Habermas 2000, 50-51). Queste decisioni prese sotto forma di “governanza” decorrono naturalmente dalla divisione capitalista del lavoro su scala mondiale. La “governanza” si manifesta in maniera immediata attraverso degli apparati statali sempre più ampliati in numero, in grandezza e in raggio d’azione spaziale, “compensando, per lo meno parzialmente, la perdita della capacità di azione nazionale in certi domini funzionali” (Idem, 61). Coloro che impersonificano questi apparati statali non agiscono più oggigiorno “nella rete mondiale degli scambi”, come “coloro che, precedentemente, hanno imposto una struttura di relazioni interstatali o internazionali. Attualmente sono gli Stati che si trovano inseriti nei mercati e non le economie nazionali nelle frontiere statali” (130). Questo autore non osa riconoscere che burocrati altamente collocati (inclusi socialdemocratici e socialisti) si sentono meno funzionari del proprio governo che dei numerosi capitali globalizzati. In compenso Habermas è stato uno dei firmatari di un “appello” critico di fronte alle “forme di interdipendenza che lo stesso Occidente ha implementato o autorizzato”. “1° La ricollocazione in funzione di tutte le forme di regolazione e di controllo nel quadro della mondializzazione degli scambi economici. 2° Una concezione profondamente non-egualitaria dello sviluppo mondiale generatrice della miseria e dell’umiliazione. 3° La priorità data, permanentemente, alle logiche economiche e finanziarie, a discapito degli imperativi ecologici, sociali e (in fin dei conti) umani. Il carattere mondiale di questi problemi esige l’implementazione di una responsabilità in se stessa mondializzata” (Kucan, Habermas et alii, 2002: 8)

6. Il sostentamento fiscal-finanziario in potenza e in atto I grandi capitali globalizzati esercitano sulle risorse dello Stato una pressione fiscale sempre più pesante, colpendo i mezzi alla base dell’esistenza dello Stato nazionale in modo che questo si trovi ad essere parsimonioso all’estremo, senza neanche il vincolo di “una critica giustificata di un’amministrazione rigida, stimolata ad accrescere le proprie competenze in materia di gestione” (Habermas, 2000:59). In questo quadro, la dimensione fiscal-finanziaria dello Stato nazionale passa per la seguente situazione paradossale: “ dal punto di vista dei bilanci pubblici, è tanto più necessario prendere misure per stimolare la crescita quanto più tali misure sono impossibili da prendere all’interno delle frontiere nazionali” (Idem, 134). Per Beck, “la Tobin tax sui flussi di capitale sfrenati” sarebbe “un primo passo programmatico” per “regolare il potenziale di crisi e di conflitti di interessi dell’economia mondiale” (Beck, 2001, 16). Per Habermas, al contrario, nessuna “governanza” globale è capace di armonizzare “le legislazioni nazionali in materia di sistema fiscale”, tanto più che, attualmente, “non si consegue e non si riesce neanche ad arrivare ad un accordo su un’imposta, da essere riscossa su scala mondiale, sui benefici della speculazione” (Habermas, 2000: 113-114). L’uscita da questa impasse fiscal-finanziaria tra le dimensioni statali si incontra sulla via di una soluzione per un debito futuro dello Stato federativo europeo, la cui crisi fiscale dovrà portare a una ripetizione della storia dello Stato Sociale su scala europea.

7. La dialettica della perpetuazione e del superamento Nella prospettiva del sociologo di Francoforte, siccome i cittadini europei sono sulla via di acquisire un livello di solidarietà universale sempre più elevato nel quadro della mondializzazione, “manca loro di avanzare nel senso di una struttura federale per la UE, in una prospettiva cosmopolita, cercando di creare le condizioni necessarie per una politica interna su scala planetaria” (Habermas, 2000: 129). Si tratta di perseguire in maniera giusta, ordinata e programmatica un doppio obiettivo, vale a dire: “creare un’Europa sociale e fare in modo che questa eserciti tutto il suo peso sulla bilancia del cosmopolitismo” (Idem, 124) Senza nessuna prudenza, Beck, a sua volta, auspica che i fini della politica nazionale si estinguano repentinamente e assolutamente nel cosmopolitismo perché l’obiettivo supremo delle “alleanze globalizzate” è quello di “rispondere alle sfide delle delle guerre civili mondializzate”, senza nessun rispetto per le frontiere, posto che, nell’era del rischio e della mondializzazione, il futuro degli Stati-nazione consisterà nel “denazionalizzarsi”, in una forma statale “cosmopolita” (in Weill, 2001:32). In compenso, questo statalismo autoritario è assente dal progetto habermasiano, che considera come disagevole il fine immediato dello Stato-nazione, nella prospettiva di un progetto di unificazione politica del mondo. Per questo, “è necessaria una riforma preventivamente degli orientamenti assiologici della popolazione. Per questo, i primi destinatari di tale “progetto” non sono i governi, ma i movimenti sociali e le organizzazioni non governative, vale a dire, i membri di una società civile che ignora le frontiere nazionali” (Habermas, 2000: 39). Per salvare la democrazia in Europa, sarebbe necessario stabilire un nuovo compromesso tra gli interessi di questi membri attivi, che personificano le categorie del sistema e del mondo vitale, nel contesto della dominazione delle istituzioni internazionali e dei grandi capitali mondializzati, poiché, indipendentemente da ciò che si fa, “la mondializzazione dell’economia distrugge una costellazione storica grazie alla quale il compromesso che incarna lo Stato sociale ha potuto temporaneamente stabilizzarsi” (Idem: 32). La forma dello Stato federativo europeo, come in tutta l’installazione delle unità politiche più ampie, “rappresenta, nello stesso modo, alleanze difensive di fronte al resto del mondo, ma non cambia nulla rispetto alle proprie modalità della concorrenza mercantile. Perché questa non provoca, per se stessa, un mutamento di rotta sostituendo l’adattamento al sistema trasnazionale dell’economia mondiale con un tentativo di influenzare le condizioni generali che la definiscono” (33).

8. Funzioni generali e specifiche

Le funzioni generali della forma dello Stato federatico europeo consistono nell’ampliare e nell’approfondire la democrazia sociale e politica all’interno del proprio territorio, nell’era dell’avanzamento del capitalismo sulla scia della mondializzazione. Ma l’idea che certi compiti propri alla “regolamentazione politica devono essere all’altezza dei mercati mondializzati, presuppone relazioni complesse tra la capacità di cooperazione dei regimi politici e un nuovo tipo di integrazione sociale, fondata su di una solidarietà cosmopolita” (39). Perché, nel momento in cui si preserva la scelta di una via politica social-democratica, considerata inevitabile quanto la mondializzazione del capitale, “evidentemente, si adempirebbe alle funzioni dello Stato sociale solo se fossero trasferite dallo Stato-nazione alle nuove unità politiche, una volta diventate all’altezza di un’economia diventata transnazionale” (32). Tuttavia, “quando si osserva la dimensione economica, è difficile trovare nell’OMC, nel FMI e nella Banca Mondiale qualche indizio su organizzazioni disposte a trascendere dalla volontà degli Stati più potenti. Quando si osserva la dimensione militare, ciò che si può constatare, è il rafforzamento di una coalizione militare dominata dagli Stati Uniti (...)” (Serfati 2001, 10), come è accaduto in occasione dell’invasione dell’Iraq 2003. Si sa che ciò funziona bene, nel contesto di un’economia mondializzata, nel socialismo “reale” (a partire dal 1989), nella social-democrazia “in un solo paese” (a partire dal 1980), ma non bisogna rinunciare ai benefici di una “politica di adattamento delle condizioni nazionali alla competizione mondiale”(Habermas 2000, 31). Si tratta di una politica che ha lo stesso spirito di programmazione, di intelligenza e di gestione proprio dei vecchi piani di sviluppo industriale, nonché adattatato all’era della mondializzazione, secondo i seguenti punti: “sostegno alla ricerca e allo sviluppo, vale a dire, alle future innovazioni; accrescimento della qualificazione degli operai per mezzo di una formazione e di un loro migliore riutilizzo; intensificazione giudiziosa della “flessibilità” del mercato del lavoro” (Idem) Nonostante le disuguaglianze causate, su scala mondiale, dall’accumulazione del capiatle e dai processi speculativi dei grandi capitali, l’era della mondializzazione viene considerata come insuperabile e chiusa. Così, alcuni autori credeno “che l’autonomia economica, la sovranità e la solidarietà sociale degli Stati contemporanei, stanno per essere ridotti in maniera radicale dai processi contemporanei della mondializzazione economica” (Held & McGrew 2000, 27). Le funzioni alle quali deve adempiere lo Stato federativo europeo si definiranno relativamente a un efficace adattamento politico a questa congiuntura.

9. Ontologia dello Stato transnazionale europeo Dietro il discorso contro la sovranità dello Stato-nazione, con il pretesto della riconciliazione, dell’alleanza e della solidarietà tra il mondiale e il locale (Badie 1999, 167), si nasconde la concorrenza tra i territori. Questo tipo di concorrenza è così importante perché avviene tra i capitali nella dinamica della mondializzazione del capitale (Giraud 1996; 2001), “che definisce e ricostituisce i modelli mondiali della gerarchia e delle disuguaglianze, nel momento in cui determina la localizzazione e le distribuzione della ricchezza e della capacità produttiva nell’economia mondiale” (Held & McGrew 2000, 27). A causa delle vicissitudini di questi due tipi di concorrenza, la sovranità degli Stati-nazione e dei cittadini del mondo è sempre più ristretta e le sue condizioni di esistenza sono sempre più precarie. Così, “la maggioranza dell’umanità continua ad essere esclusa dal cosiddetto mercato globale, nella misura in cui esiste una distnza sempre maggiore tra il nord e il sud” (Idem, 51). In questo quadro dello sviluppo economico e della gestione sovrana disuguale, è deprecabile il fatto che non avvenga l’unificazione statale, e che non ci sia una regolamentazione social-democratica su scala planetaria. Balibar fa parte di quegli autori che considerano la natura utopica astratta di un New Deal mondiale, constatando, allo stesso tempo, che “le resistenze alla omogeneizzazione dei territori e dei regimi sociali proseguono, e che sono in atto anche nuovi processi di polarizzaione e di separazione” (Balibar 2001, 165). La lotta del “Bene contro il Male” è la caricatura, mentre la guerra “preventiva” e gli attacchi dello “shock and fear” sono la tragedia derivante da questi processi conflittuali, che coinvolgono anche la caricatura dell’Afghanistan di Bin Laden e la tragedia in Argentina dei peronisti e dei radicali. Si sa che le risoluzioni di tutte queste crisi non sono state affrontate dal punto di vista degli interessi conformi alle potenze imperialiste dell’America, dell’Europa e dell’Asia. Le mediazioni già intraprese, amplificano e approfondiscono la barbarie attuata contro la periferia. In seguito all’avvento della mondializzazione neoliberale e al fallimento dei modelli di industrializzazione del “socialismo reale” e del “fordismo periferico”, la situazione tende a peggiorare per le masse dei cittadini del mondo. Come conseguenza, queste sono condannate a vivere in economie sempre più arretrate e marcate da disuguaglianze,con bassi salari, disoccupazione, guerre, ecc. L’Europa, a sua volta, proseguirà sulla via del progresso materiale e sociale, attraverso i propri mezzi obiettivi e intellettuali, nel quadro della supposta omogeneità della mondializzazione. Ma, come di abitudine, va approfittandosi, nello stesso tempo, della sua posizione gerarchica e della sua differenziazione strutturale in seno al sistema planetario. Esiste una sola maniera di regolare una così grande massa di miserabili rinchiusa nella frontiera statale europea, sotto forma federativa, ossia attraverso “un’accumulazione di politiche per la sicurezza, di segregazione delle popolazioni e di respingimento di coloro che chiedono asilo”, vale a dire, per mezzo di una “fortezza-Europa” (Balibar, 2001: 203), costruita sulla presenza della violenza e sull’assenza della solidarietà cosmopolita, così come sulla ricaduta nell’imperialismo e nell’eurocentrismo. Questo già è sufficiente per indicare che la regolamentazione social-democratica, propria di uno stao federativo europeo, rimane un’utopia astratta. Oltre a ciò, un’analisi attenta dei fatti mostra che: “... la mondializzazione del capitale non si separa da un’alienazione assoluta dell’esistenza e della libertà umane, che include i fenomeni di espropriazione e di esclusione sociale di massa che, al limite, si accompagna agli stermini quasi normalizzati e agli etnocidi risultanti da fame, guerra, così come dai fenomeni di perdita di possesso (o “disappropriazione”) culturale, la dominazione della comunicazione da parte di reti depersonalizzate, che permettono il condizionamento quotidiano dei pensieri e dei sentimenti” (Idem, 172). La constatazione di questa situazione “insostenibile” non deve condurre al conformismo della fine dello Stato-nazione o “della fine della poltica”, poiché questa categoria potrà rinascere da questa circostanza, come una fenice, dalle proprie ceneri, “dato che questo potrà succedere sotto forme singolari e imprevedibili” (173). Pertanto, sarebbe necessario fare una giravolta per prendere la via dello Stato trasnazionale Europeo. Questo suppone che la mondializzazione sia considerata “non solo come un insieme di restrizioni esterne o come un “orrore economico” al quale la politica cerca di adattarsi o di resistere in modo più o meno efficace, ma come un processo aperto, suscettibile di evoluzione in direzioni molto diverse, nel quale i cittadini europei sono protagonisti” (11). Questo autore post-marxista pretende di trarre tutte le conseguenze politiche dal fatto “che un’estensione del modello di cittadinanza nazionale sociale, su scala europea, è impossibile; è necessario, di conseguenza, cercare altre vie politiche e altre forme giuridiche per intensificare le relazioni civiche per questa e altre nazioni” (Balibar,, 2001: 240-241). Il post-marxista francese si colloca, pertanto, nella prospettiva generale di una corrispondenza eterna della cittadinanza “con la costituzione di una società differenziata e con il funzionamento di uno Stato” (252). In un certo senso, egli adotta la prospettiva del mantenimento delle forme statali di fronte alla costruzione di una cittadinanza “trasnazionale” e di uno “Stato Europeo” nell’era della mondializazzazione, con l’argomentazione seguente “Uno Stato non è necessariamente democratico, ma un non-Stato non può essere democratizzato” (Idem, 237-240), affermando, implicitamente, che ogni utopia concreta di estinzione dello Stato in Europa “in seguito al comunismo” conduce a una non-democrazia. Felicemente, per il post-marxista francese, i cittadini europei non sono condannati alla democrazia borghese perché, in principio, Europa “ è il nome di un problema non risolto”(Balibar, 2001: 16), al contrario delle idee correnti della filosofia politica riformista, che fa delle scelte semplicistiche tra i multipli aspetti della categoria di sovranità, quando è noto che: esistono diverse alternative alla sovranità (crattere sussidiario, federalismo e impero); questa sovranità (territoriale o extraterritoriale) concerne tanto lo Stato quanto il popolo; queste categorie sono forme storicamente determinate (Idem: 257 e seguenti). Questo significa che la costruzione europea è un dovere la cui esistenza si rinchiude “nella possibilità o nell’impossibilità” (Idem, 17). Per Balibar, questa posizione non è utile per fare una critica “dei discorsi apologetici, fatti dai governi, senza che per questo si debba giungere al pessimismo che ispira certi commentaristi che appartengono alle posizioni politiche più diverse (l’utopia liberale; il nazionalismo, repubblicano o meno)”(9). Questa posizione serve, invece, per fare una critica della filosofia politica anglosassone (Giddens, Habermas e Beck) e italo-americana (Hardt e Negri), che sono sempre in cerca di modelli astratti (dell’era del rischio, della terza via, del mondo imperiale, ecc.) o aprioristici. Questa serve anche ad oltrepassare i dibattiti in cui si cerca di determinare se lo Stato europeo post-moderno sarà cosmopolita o imperiale, se sarà costituito come uno Stato nazionale o no, ecc. così come per stabilire se la cittadinanza sarà conquistata o imposta. Il post-marxista francese vuole “attribuire un contenuto diverso da quello burocratico alla cittadinanza europea” (Balibar, 2001: 286), il che esige una posizione simultaneamente critica nella comprensione (pessimista) e militante nella volontà di trasformazione (ottimista). Perché questa cittadinanza non è “un’acquisizione o un semplice ideale, ma un processo seminato di ostacoli, allo stesso tempo indefinito e straordinariamente incerto” (Idem:287). Siccome le “contraddizioni” della cittadinanza europea non hanno mediazioni a priori, così come “non cessano di costituire il motore del processo per intero” (Idem), è necessario, intanto, avere come riferimento globale un’ontologia dello Stato trasnazionale europeo. Altrimenti, sarà impossibile un contributo per il rinnovamento dell’allelanza (più che necessaria, nella misura in cui avanza la mondializzazione) tra l’esigenza di analisi e lo spirito di rivolta (Balibar, 1997).

10. La dialettica dell’universale e del particolare Contrariamente ad Habermas, il post-marxista francese pensa che “la forma della sovranità nazionale statale “assoluta” non sia universalizzabile e che, in un certo senso, un “mondo di nazioni”, o addirittura delle “nazioni unite”, sia un contraddizione in termini” (Balibar 2001, 23). Per esempio, soprattutto nell’esperienza europea, bisogna tenere in conto che il legame “(...) tra la costruzione delle nazioni europee, il suo “equilibrio” stabile o instabile, i suoi conflitti interni ed esterni, e la storia mondiale dell’imperialismo, sfociano non solo nelle perpetuazioni dei conflitti di frontiera, ma anche nella struttura demografica e culturale tipica dei popoli europei di oggi, che rappresentano (...) le proiezioni della diversità mondiale in seno allo spazio europeo (...)” (Idem). Balibar (2001, 169 e seguenti) ha dimostrato che i correnti discorsi sulla mondializzazione recepiscono solo i suoi effetti omogeneizzanti sulla politica, sotto il segno unilaterale dell’avvento di un’era post-nazionale o cosmopolita, o di fine della politica. Per esso, al contrario, la mondializzazione, come sviluppo disuguale, “potrebbe addirittura creare le condizioni per l’avvento di una nuova epoca politica” (Idem, 176). A partire da un metodo post-strutturalista e post-marxista, Balibar arriva perfino ad anticipare l’abbozzo della forma dello Stato europeo capace di esistere interamente e di influenzare la mondializzazione, e non semplicemente subire le conseguenze di quest’ultima; per questo autore, nel quadro della costruzione europea, “le strutture sovranazionali” non sono, in quanto tali, “impensabili o indesiderabili” (10). Pertanto, anticipa che la forma dello Stato europeo del futuro non è nazionale, ma una categoria statale nuova che non sarà né federale, nel senso di Habermas, né imperiale, nel senso di Hart & Negri (2000). Si tratta di un’esistenza statale specifica, ma che si colloca aldilà dello Stato-nazione, per quello che concerne la democrazia e le frontiere europee. Si tratta, infine, di un “problema senza una soluzione prestabilita”, che, soprattutto, non è eurocentrista, ma che va nella direzione di una “universalità reale”, nella prospettiva del “mondo intero”, per realizzare l’utopia concreta di un “impossibile necessario” (Balibar 201, 9). Questa non è una forma del tutto pronta, ma è una forma che incontra degli ostacoli che possono essere trasposti in termini politici e storici, in una prospettiva di comprensione e di trasformazione “attraverso le iniziative transnazionali” (Idem 296). In generale, la metodologia di Balibar ha il merito di privileggiare la dialettica, che si esprime incentrandosi su una totalizzazione sotto forma di un sillogismo, a detrimento dell’ideologia della globalizzazione antinomica, inerente al cosmopolitismo post-moderno. 11. La dialettica del governo e dello Stato proriamente detto Per Balibar, l’avvento della struttura statale europea sarà molto difficile, di fronte all’importanza dei suoi ostacoli. Questi potrebbero essere superati dall’implementazione di una “comunità di cittadini più avanzata delle comunità nazionali”; senza dimenticare, però, il fatto che non ci sarà progresso sociale senza lotta nel seno dei “cantieri” europei della democratizzazione, ossia: in ciò che concerne la giustizia, la convergenza delle lotte sindacali e del movimento associativo intorno alla riorganizzazione del tempo del lavoro, la democratizzazione delle frontiere, della cultura, della lingua, etc. (310 e seguenti). Per il post-marxista francese, la forma dello Stato europeo ha molteplici determinazioni, strutturate come centro del potere. Questa forma di potere porta a fare una “scelta” tra due aspetti: da un lato, “essa ha un significato statale, quello del concentramento della potenza, della localizzazione delle istanze dirigenti apparenti o reali”; ma, dall’altro lato, questo concetto ha “un altro significato, più essenziale e più difficile da capire, che designa i luoghi della costituzione del popolo, per mezzo della presa di coscenza civica e della risoluzione collettiva delle contaddizioni che lo attravarsano” (16). Esiste, quindi, una distinzione tra il potere costituente, come essenza dello Stato propriamente detto, e la costituzione formale, come aspetto immediato del governo. Per Balibar, la struttura dello Sato unitario europeo non passa attraverso un “concentrato delle contraddizioni” che si manifestano in una “costituzione cittadina” (9). Nell’era della mondializzazione, nella sequenza di Habermas (2000), il post-marxista francese difende fermamente la necessità dell’emergenza di una nozione di “costituzione” europea (Balibar 2001, 11). Questo autore fa bene a sottolineare la “crisi” della “costruzione europea” (Idem, 8), così come l’essenza contraddittoria del suo fenomeno costituzionale, i cui poli sono il “potere costituente” e il “potere costituito” (292). In funzione del rispetto di questa dialettica, egli critica il progetto habermasiano di un concetto “evolutivo”, nel senso gramsciano del termine, poiché si tratta di una costituzione “che sia, allo stesso tempo, un principio di apertura delle istituzioni alla sua trasformazione, al suo proprio superamento, ritirando dal proprio conflitto sociale, i criteri di interesse generale” (11). Balibar fa bene a sottolinerae questa dinamica, dato che non è indicato l’obiettivo intorno al quale ruotano il conflitto sociale e l’interesse generale - ossia, la divisione capitalista del lavoro e gli apparati burocratici e amministrativi statali -. Non si tratta di un modello prestabilito, perché “la rivoluzione o la riforma democratica in Europa, deve ancora avere luogo” (13). Ma le scelte a riguardo non esigono ne’ la stessa teoria, ne’la stessa pratica. Nel senso dell’ontologia dell’essere sociale (nella prospettiva critica e rivoluzionaria), si tratta, anzitutto, di un “processo di democratizzazione” (Lukacs, 1989), dove non esiste contraddizione tra le particolarità storiche in un polo, e le determinazioni universali nell’altro. Questo processo, non stabilisce nemmeno un’incompatibilità tra la teoria e la pratica ma, al contrario, forma un’unità dialettica indissocialbile tra i suoi molteplici aspetti. La democrazia fa parte di una formazione storicamente determinata, come categoria sovrastrutturale. Si trova, dunque, aldilà di una semplice manifestazione governamentale immediata, con tutte le sue false apparenze. Così, da un lato, la democrazia è una forma fenomenica dello Stato propriamente detto; dall’altro, è il riconoscimento formale della libertà e dell’uguaglianza tra i cittadini, nelle decisioni che concernono gli interessi collettivi. I suoi elementi costitutivi sono la garanzia delle libertà democratiche (diritti degli uomini), il pluralismo, il sistema delle relazioni contrattuali e il principio di rappresentatività. Pertanto, Balibar fa bene a sottolineare che la democrazia in Europa riguarda, concretamente, tanto le forme statali quanto le forme di cittadinanza realmente esistenti. È sotto quest’ultimo aspetto che egli, giustamente, nota una certa regressione, a causa della politica di mondializzazione neoliberale e di “installazione degli organismi sovranazionali corrispondenti, accellerata dai Trattati di Maastricht e di Amsterdam” (Balibar 2001, 10). Si tratta di ragioni politiche, che “rimetteno tutto a causa dell’incapacità, o perché si rifiutano di orientare la costruzione transnazionale nel senso di una progressione della cittadinanza” (Idem, 13). Questa progressione non può avvenire senza superare, soprattutto, “il blocco della cittadinanza sociale, la divisione disuguale del continente in zone di accesso all’autodeterminazione dei popoli, lo sviluppo di una situazione di apartheid in Europa, vincolata al modo di trattamento delle questioni dell’immigrazione e del diritto di asilo” (Idem). A livello dello Stato-nazione, questa questione viene trattato solo come una questione di polizia, quando si dovrebbe fare della “lotta contro le esclusioni strutturali il momento fondatore della cittadinanza”, per “conferire un significato emancipatore alla nozione di appartenenza comunitaria” (30).

12. La genesi della particolarizzazione e dell’autonomizzazione relativa “L’Europa non è qualcosa che esiste da sempre, ma è qualcosa che si è “costruito” più o meno rapidamente, più o meno facilmente; è un problema storico senza nessuna soluzione prestabilita” (Balibar 201, 224). Ma si deve determinare quando si deve porre la necessità dello Stato europeo in quanto forma di esistenza particolare, la cui autonomia è relativa. Rispetto al sistema dell’Europa - in quanto “insieme delle relazioni di forze e di commercio tra nazioni o Stati sovrani, il cui equilibrio è materializzato attraverso la formazione negoziata dalle frontiere”- Balibar identifica “due movimenti evolutivi, che influenzano in maniera sempre più profonda questo sistema, in relazione alla prossimità col tempo presente”, ovvero: da un lato, “l’equilibrio europeo e la sovranità nazionale popolare corrispondente, sono strettamente vincolate (...) alla spartizione imperialista del mondo dalle potenze europee colonizzatrici”; dall’altro lato, “la maniera con la quale l’inserimento storico delle popolazioni e dei popoli nel sistema degli Stati-nazione (incluse le rivalità permanenti) influenza dall’interno la rappresentazione di questi popoli, la coscenza che hanno ripetto alla loro “identità” (26). La genesi dello Stato transnazionale europeo esige il superamento di tutte “le rappresentazioni che furono storicamente associate ai progetti di emancipazione e alle lotte per la cittadinanza, poiché diventarono ostacoli per la sua riconquista, per la sua invenzione permanente” (26). Perché il fenomeno denominato Europa “(...) venne vincolato a progetti cosmopoliti, ossia: a tentativi di egemonia imperiale o alle resistenze che suscitavano; a programmi di spartizione del mondo e di espansione della “civilizzazione”, dei quale le potenze pretendevano avere il controllo; la rivalità dei “blocchi”, che si disputavano il legittimo possesso di questa detenzione; la creazione di una zona di “prosperità” al nord del Mediterraneo, ovvero, di una grande potenza del secolo XXI” (...)” (26). Per Balibar, la cittadinanza europea avanzerà solamente sulla via della “costruzione dei potenti contropoteri” (254), tramite l’implementazione di un controllo collettivo e democratico sulle istituzioni statali. La grande difficoltà risiede nella natura parziale e incompleta della particolarizzazione e della autonomizzazione, in termini relativi, di una forma statale europea unificata. “(...) il postulato della costituzione di un’identità collettiva ricopre una proliferazione amministrativa che, tuttavia, non si presenta come Stato, dato che il trasferimento delle decisioni a “livello europeo” è accompagnato da un considerevole squilibrio tra le possibilità delle differenti categorie sociali di utilizzare l’apparato politico e amministrativo a servizio dei rispettivi interessi. Il sentimento di neutralità, realo o fittizia che sia, dello Stato in generale sta, quindi, rapidamente decellerando” (256)

13. Il feticismo come impersonificazione e come reificazione Oggi, le false apparenze della struttura dello Stato europeo rimandano alle stesse fonti, ovvero: nel dominio del potere statale, a “certi miti relativi alla sovranità e alla nazionalità”; nel dominio degli apparati statali, agli “effetti perversi di un democratismo formale e di un burocratismo proliferante” (Balibar 2001, 11-12). La costituzione della forma dello Stato europeo è un fenomenon dell’essere e della coscenza che spiega la ragione per la quale “nell’odierna Europa, esiste molto burocratismo, ma poco Stato, nel senso di istituzione politica”, in modo tale da far sì che l’ideologia dominante scarti i poteri costituenti reali e “mantenga le prospettive sulla costruzione democratica al livello di un’alternativa astratta” (Idem, 12). Tutti questi fenomeni di reificazione hanno come origine “la paura delle masse” (Balibar 1997), legittimita dall’ideologia dominante con il pretesto “dell’ ignoranza della massa, o della possibile violenza che può essere provocata a causa del suo intervento” (Balibar 2001, 12). Nel frattempo, le violenze causate dalle crisi e dalle guerre sono sempre presenti in Europa: “La politica non può essere praticata collettivamente senza strutture pubbliche, e tanto di meno senza strutture pubbliche o Stato in Europa, senza uno sviluppo della politica di massa sotto tutte le sue forme, dalle più visibili e organizzate, a quelle più capillari e spontanee (in sintesi, non esiste “politica senza politica”, questo grande sogno di tutti i burocrati, che vogliono sostituirla con la fabbricazione dei “consensi” e con la gestione dei “problemi sociali”) (...)” (Idem). L’impersonificazione della forma statale europea si è già concentrata, relativamente alla potenza e alla localizzazione, nelle istanze dirigenti che “si trovano a Bruxelles o a Strasburgo o nella City di Londra e nella borsa di Francoforte o, a breve, a Berlino, capitale del più potente degli Stati che dominano la costruzione europea, in secondo luogo a Parigi e a Londra, etc.” (16). In questa formulazione, Balibar, non si trova molto distante dalla fusione tra le forme politiche ed economiche proprie della concezione della forma-Stato imperiale.

14. La sussistenza fiscale-finanziaria nella potenza e nell’atto Secondo il post-marxista francese, il FMI mette in causa l’autonomia fiscale-finanziaria dello Stato-nazione periferico, per mezzo della sua “tutela” sugli investimenti e sulle politiche di canmbio, a causa della mancanza di “sovranità” propria dei “paesi sottosviluppati”. (Balibar 2001, 292). In compenso, nei paesi centrali, l’autonomia all’interno del dominio fiscale-finanziario è sempre stata molto ampia, benché la “valuta pubblica” sia una “relazione politico-economica” che “non è mai stata interamente sottomessa alla supremazia della sovranità” (Idem, 291-292). Questa sottomossione è decisiva nel quadro della mondializzazione, perché una delle caratteristiche di questo fenomeno “è la creazione della concorrenza tra territori nel mercato mondiale, per mezzo della lotta dei tassi di interesse e delle politiche fiscali. Il “debito pubblico” degli stati si trasforma, intanto, in uno strumento di mercato per sviluppare la concorrenza tra blocchi nazionali che perseguono gli investimenti (292). Di fatto, gli effetti della guerra fiscale si fanno già sentire in Europa, che, tra l’altro, sperimenta la “concorrenza tra “territori nazionali” per gli investimenti stranieri, il cui strumento principale è la riduzione delle imposte sui capitali e, di conseguenza, lo smantellamento della sovranità fiscale” (284).

15. La dialettica della perpetuazione e del superamento Per il post-marxista francese, i fini sistemici dello Stato transnazionale europeo si definiscono nel quadro generale della mondializzazione, che esige una “reinvenzione della politica” (Balibar, 2001: 181). In accordo con i “tre concetti della politica” (Balibar, 1997: 19), questo compito non si limita solamente alla “costituzione della cittadinanza”, ma passa anche per i seguenti aspetti “critici” della politica democratica: “... Emancipazione o conquista collettiva dei diritti individuali fondamentali, trasformazione sociale delle strutture di dominazione e delle relazioni di potere, e, infine, educazione o produzione delle proprie condizioni di possibilità dell’azione politica (sia “spazio” sia “tempo” di esercizio), per la riduzione delle forme di violenza estrema del conflitto tra i suoi attori” (Idem: 183-184). Per Balibar, si tratta, pertanto, di un “compito può essere compreso simultaneamente “dall’alto” e “dal basso”, in funzione dei principi del diritto e in funzione degli interessi popolari. Si colloca come un problema “globale-locale”. Questo potrebbe essere, inoltre, uno dei luoghi privilegiati in cui la mondializzazione si fa soggettivizzazione, da cui di potrebbe costruire un’individualità universale” (181). L’estinzione dello Stato-nazione in Europa è già abbastanza avanzata, ma custodisce una “potenza segreta” residuale capace di perturbare la gestazione dei cittadini europei e di produrre, “sulle personalità e le vite individuali, effetti... devastanti” (34). L’aspetto anti-sistemico dello Stato transnazionale europeo risiede, giustamente, nel riempire il vuoto, l’alienazione, la violenza e la paura provocati da questo processo. Per rimediare agli effetti nocivi, sui cittadini, dell’estinzione dello Stato-nazione in Europa, è necessario costruire e far funzionare lo Stato transnazionale europeo. Pertanto, Balibar è convinto che, “attualmente, in molte regioni del mondo, incluso in Europa, la politica come tale deve affrontare queste differenti forme di violenza strutturale, che si sovradeterminano le une sulle altre” (56). Per questo, confermandosi scettico, “di fronte all’idea indifferenziata di un fine unico per le nazioni”, il post-marxista francese pensa, inoltre, che non si possa “eludere la questione del profondo radicamento nell’immaginario collettivo della forma-nazione e della sua funzione storico-sociale (Idem).

16. Funzioni generali e specifiche

Secondo Balibar, la mondializzazione del capitale amplia e approfondisce la costruzione e il funzionamento della forma-Stato transnazionale. Così, le funzioni di uno Stato transnazionale europeo devono stabilirsi in una dinamica di accumulazione su scala mondiale, che porti a un’ “alternativa ineluttabile”, ossia: “sarà necessario sia smantellare completamente lo Stato sociale e la cittadinanza sociale, sia svincolare progressivamente la cittadinanza dalla sua definizione puramente nazionale e garantire dei diritti sociali che abbiano un carattere transnazionale” (180). In questo senso, e in primo luogo, il fine è quello di democratizzare le frontiere, il che significa “superare la sacralizzazione” della gestione statale e amministrativa della frontiera tramite la creazione di un “controllo multilaterale”, affinché i “riti e le formalità” siano “più rispettosi dei diritti fondamentali”, al momento del passaggio degli individui (180). In secondo luogo, sarà necessaria una politica di “democratizzazione della giustizia”, attraverso l’applicazione di una vera “dottrina europea”, vale a dire “che non sia il semplice riflesso della correlazione di forze congiunturali su scala mondiale” (313). In terzo luogo, sarà necessario implementare la riorganizzazione democratica del “tempo di lavoro”, in accordo con “le lotte sindacali e del movimento associativo”, per garantire costituzionalmente il “lavoro per tutti” (313-315). Infine, sarà necessario collocare in “cantiere” anche una democratizzazione attinente “alla cultura, ma inizialmente e specialmente alla “lingua dell’Europa”” (316).

17. Conclusioni

Evidentemente, le tesi post-marxiste che si collocano oltre lo Stato-nazione non esauriscono la complessità o le sottigliezze delle multiple determinazioni formali e funzionali dello Stato, analizzate a partite dall’ontologia marxiana dell’essere sociale. Questo si applica tanto nella versione post-francofortiana di Habermas, quanto nella versione post-strutturalista di Balibar. Al contrario di questi autori, si prende la prospettiva critica e rivoluzionaria dell’internazionalismo marxista e, da questo punto di vista, si mostra che i cantieri di cittadinanza (in particolare) e dei processi di democratizzazione (in generale) devono costruirsi in Europa soltanto a partire da una dinamica di estinzione dello Stato. Si tratta di un movimento reale che abolisce la divisone capitalista del lavoro, come condizione obiettiva per fare in modo che la lotta di classe continui ad esistere, nella essenza propria di ogni Stato-nazione europeo. La costruzione di uno Stato-nazione europeo, sia “federativo” (Habermas, 2000), sia “transnazionale” (Balibar, 2001), non cambia nulla di questo movimento reale, nel caso occorra un semplice adattamento delle forme politiche comunitarie ai processi di ristrutturazione e di mondializzazione del capitale, come vogliono gli uomini politici liberali e riformisti. Conformemente a questa aspirazione, la “mondializzazione selvaggia” che si realizza attualmente “deve essere sostituita da una mondializzazione “dal volto umano” e da un progetto di civilizzazione su scala planetaria” (Kucan, Habermas et al., 2002: 8). Intanto, la mediazione statale ideale, frequentemente percepita come regolamentazione da liberali e riformisti, non coincide con una mediazione statale reale, come forma di movimento di risoluzione delle contraddizioni situate nel tempo e nello spazio. Così, l’unificazione statale europea è una tendenza naturale che ha le sue radici nei processi vincolati alla “terza rivoluzione industriale” e alla “mondializzazione del capitale”. Di conseguenza, questi fenomeni esigono “risposte creative di uomini politici e di legislatori su future possibilità e forme di regolamentazione politica efficaci e con trasparenza democratica “(Held & McGrew, 2000:38). Questa tendenza serve, molto spesso, solo da supporto alle ideologie conformiste, nella loro ricerca di soluzioni ad hoc o di regolamentazione statale e contrattuale più ampia e profonda, soprattutto per “paura delle masse” (Balibar, 1997). Nel quadro di una “mondializzazione del mondo” (Idem) “sfrenata” (Giddens, 2000), non è inutile una certa conquista della mediazione delle contraddizioni meno sfavorevoli a queste masse. Ma, questi mutamenti dello Stato (immaginabili o auspicabili) possono solo interessare congiunturalmente le masse oppresse e sfruttate d’Europa, nell’era della mondializzazione liberale; in caso contrario, resterebbe loro appena una forma lapidaria nel lungo termine: “la rivoluzione o la riforma democratica in Europa sta per arrivare” (Balibar, 2001: 13). Non sono le “cupole” di burocrati, di esperti e di politici, né gli accordi “discorsivi” habermasiani tra gli intellettuali regolamentazionisti che mirano a una Costituzione europea, che annunciano la fine di questo periodo di prosperità della speculazione in tutte le sue forme, bensì le masse citate.

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Note

1 Professore in Economia dell’Università federale del Maranhão-Brasile. Ricercatore-visitatore all’Università Parigi-Nord (2004-2005)

2 Di fatto la sua posizione è più sottile rispetto a quella di George W. Bush, che affermò: “I terroristi hanno attaccato il World Trade Center, ma noi li batteremo allargando ed incoraggiando il commercio mondiale” (Le Monde - Économie, Paris, 6/11/2001: I). In questo modo, con la Guerra in Iraq, gli Stati Uniti hanno incitato, e continuano a farlo, il commercio mondiale delle armi e del petrolio.

3 Di fatto, per il sociologo tedesco, “ per molto tempo, il neoliberalismo ha tentato di estirpare l’economia dal paradigma dello Stato-nazione, attribuendole regole internazionali di funzionamento. Allo stesso tempo, partiva dal principio che lo Stato avrebbe continuato a fare il suo gioco abituale e che avrebbe mantenuto i propri confini nazionali. Ma, dopo gli attentati, anche gli Stati, hanno scoperto la possibilità e il potere di intraprendere delle cooperazioni transnazionali, che non riguardano solo la sicurezza interna. Così, il principio antinomico del neoliberalismo e la necessità dello Stato, riappaiono quasi ovunque (...)” (Beck 2001, 16)

4 L’alleanza imperiale di Beck assomiglia molto alla coalizione imperialista di Colin Powell, che “dovrebbe essere fatta come quella della guerra nel Golfo” (Le Monde, 14/09/2001, 2), nel 1991. In pratica, è stata realizzata con la coalizione dell’ “attacco preventivo” o dello “choc e paura” della guerra in Iraq, nel 2003.

5 Così, secondo questa via, “i grandi gruppi industriali, le istituzioni sovranazionali di regolamentazione economica, le organizzazioni non governative e le Nazioni Unite si devono associare per creare le strutture statali e le istituzioni che preservino la possibilità di un apertura verso il mondo, tenendo in conto, allo stesso tempo, le diversità religiose e nazionali, i diritti fondamentali e la mondializzazione economica” (Beck 2001, 16)