7. Ed ora il 21 maggio
L’insiemedellequestioni sottoposte al corpo elettorale
evidenzia la gravità dell’attacco a fondamentali conquiste sociali e
democratiche (il diritto alla reintegrazione del lavoratore ingiustamente
licenziato, il diritto alla rappresentanza politica, l’indipendenza della
magistratura). E’ una battaglia su più fronti che non si può perdere.
L’ipotesi che - sulla base della precedente esperienza del
18 aprile 1999, quando il corpo elettorale fece mancare il quorum necessario per
la validità del referendum - appare più realistica, per evitare le pesanti
lacerazioni al tessuto sociale e democratico del nostro paese che la vittoria
delle ipotesi referendarie sicuramente determinerebbe, stà nel ripercorrere la
strada della diserzione delle urne, perché in tal caso l’astensionismo
cronico (ed in particolare il comportamento astensionista che in occasione delle
prove referendarie è solitamente più elevato che negli appuntamenti delle
elezioni politiche o del primo turno delle elezioni amministrative) si
sommerebbe alle forze contrarie alla vittoria dei promotori del
referendum (ed in particolare allo schieramento crescente dei fautori del
sistema elettorale alla tedesca, ovvero del sistema proporzionale con
sbarramento, ed a coloro che intendono contrastare la deriva iperliberista che
ha oggi il suo cavallo di battaglia nell’abrogazione dell’art.18).
Al momento in cui chiudiamo quest’intervento il formarsi
degli schieramenti tra coloro che si oppongono ai referendari è ancora confusa,
anche perché la presenza di quesiti che investono diverse questioni determina
la non coincidenza degli schieramenti contrari al SI (basti pensare ai liberisti
proporzionalisti, ampiamente presenti nel centro-destra, o a coloro che pur
essendo contrari all’abrogazione dell’art.18 militano negli stessi partiti
degli iper-maggioritaristi Veltroni e Fini).
Sino ad ora solo una forte componente del sindacalismo di
base ha preso decisamente posizione per la diserzione delle urne.
8. Effetti dell’abrogazione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori
Gli effetti che l’abrogazione dell’art.18 dello Statuto
dei lavoratori provocherebbe sulla disciplina dei licenziamenti non sono di
facile individuazione, in quanto tale norma trova applicazione in una pluralità
di ipotesi, alcune espressamente individuate dalla norma stessa, altre previste
da norme diverse, altre ancora ricondotte nel suo ambito a seguito dell’intervento
dei giudici.
Prima di tentare un’analisi delle possibili conseguenze
dell’abrogazione, è opportuno illustrare brevemente le due forme di tutela
attualmente previste in caso di licenziamento invalido.
Come è noto, l’art.18 ha predisposto una tutela
particolarmente intensa - cosiddetta tutela reale - in caso di licenziamento
invalido per i lavoratori dipendenti da organizzazioni produttive che superino
il limite dimensionale individuato dalla norma stessa. In forza di tale tutela,
il lavoratore ha diritto: a) alla reintegrazione nel posto di lavoro (1° comma)
b) al risarcimento del danno subito, attraverso “un’indennità
commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino
a quello dell’effettiva reintegrazione” e comunque non inferiore a
cinque mensilità (comma 4°) c) al versamento dei contributi assistenziali e
previdenziali dal momento del licenziamento a quello dell’effettiva
reintegrazione (comma 4°). La norma prevede la possibilità per il lavoratore
che non intenda riprendere servizio di chiedere un’indennità in sostituzione
della reintegrazione, la cui misura viene fissata in quindici mensilità di
retribuzione (comma 5).
L’attuale quadro normativo prevede poi una tutela meno
intensa - c.d. obbligatoria - che opera in caso di licenziamento invalido
intimato a lavoratori di organizzazioni produttive che non raggiungono i limiti
dimensionali individuati dall’art.18, nonché a lavoratori dipendenti dalle
c.d. organizzazioni di tendenza senza fini di lucro. La norma di riferimento è
l’art.8 della L. 604/66, che prevede l’obbligo per il datore di lavoro di
riassumere il lavoratore licenziato o, in alternativa, di corrispondergli un’indennità
(sostitutiva della riassunzione) di importo compreso tra un minimo di 2,5 e un
massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Per capire cosa comporterebbe l’abrogazione della c.d.
tutela reale è opportuno procedere considerando le varie ipotesi di
licenziamento rispetto alle quali opera attualmente tale tutela.
La prima ipotesi è quella del licenziamento
ingiustificato. La legge consente il licenziamento solo qualora ricorra una
giusta causa o un giustificato motivo, soggettivo od oggettivo (art.1 L.
604/66). Attualmente, nel caso in cui venga accertata l’assenza di questo
presupposto del licenziamento, il licenziamento stesso viene annullato, e, se
ricorre il requisito dimensionale (dell’unità produttiva o dell’impresa)
individuato dall’art.18, il lavoratore ha diritto alla tutela “forte”
(reintegrazione e risarcimento del danno). In caso contrario - imprese minori e
organizzazioni di tendenza - il lavoratore ha diritto alla sola tutela
obbligatoria.
L’abrogazione dell’art.18 dovrebbe comportare l’applicazione
della tutela minore in tutti i casi di licenziamento ingiustificato. In realtà
dal punto di vista tecnico la soluzione si scontra con il dato letterale della
legge, in quanto l’ambito di applicazione della tutela obbligatoria è
definito in positivo dall’art.2 della L. 108/90, e non “ in negativo”
rispetto all’ambito di applicazione dell’art.18. Ma è ovvio che una
soluzione che lasciasse privo di tutela proprio il lavoratore delle
organizzazioni produttive maggiori sarebbe inaccettabile.
La stessa Corte Costituzionale, nella sentenza che ha deciso
l’ammissibilità del referendum, ha affermato che “resterebbe comunque
operante (...) la tutela obbligatoria (...) la cui tendenziale
generalità deve essere sottolineata”.
Più complesso capire cosa succederebbe rispetto ad un’altra
ipotesi di invalidità del licenziamento, ossia quella determinata da
vizi formali o di procedimento. Occorre distinguere l’ipotesi del
licenziamento non disciplinare da quella del licenziamento disciplinare.
Quanto al licenziamento non disciplinare, la L. 604/66
(art.2) stabilisce che il licenziamento intimato senza osservare le modalità
prescritte dalla legge è inefficace. Attualmente, nelle imprese di
dimensioni maggiori, anche questa ipotesi dà luogo all’applicazione della
tutela reale, e ciò in base all’espresso disposto dell’art.18. In caso di
abrogazione, si può ipotizzare che troverebbe applicazione la soluzione valida
per le imprese cui si applica la tutela obbligatoria, che è la seguente.
Secondo la giurisprudenza dominante, l’inefficacia va intesa nel senso che il
licenziamento non produce la risoluzione del rapporto di lavoro, che dunque
prosegue. Tuttavia, il lavoratore non ha a disposizione che i rimedi di diritto
comune: non ha cioè diritto al minimo di cinque mensilità individuato dall’art.18,
né può chiedere l’indennità di quindici mensilità in luogo della
continuazione del rapporto.
Quanto al licenziamento disciplinare intimato senza il
rispetto della procedura disposta dall’art.7 dello Statuto dei Lavoratori,
attualmente la giurisprudenza lo qualifica nullo e, pur in assenza di una
disposizione di legge in questo senso, ritiene applicabile la tutela reale
(sempre ricorrendo il limite dimensionale).
Deve ritenersi che in caso di abrogazione troverebbe
applicazione la tutela obbligatoria, considerato che attualmente la stessa trova
applicazione, per la stessa ipotesi, con riferimento alle imprese minori (anche
qui si tratta di una soluzione elaborata dalla giurisprudenza).
Deve poi considerarsi l’ipotesi del licenziamento
discriminatorio. Attualmente, il licenziamento diretto a fini di
discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, o
determinato dall’intento di discriminare un lavoratore in ragione della
affiliazione o attività sindacale dello stesso, è nullo (art.15 Statuto dei
lavoratori).
La legge considera applicabile in ogni caso la tutela reale
disposta dall’art. 18, senza che rilevino le dimensioni dell’organizzazione,
né la sua natura, ed anche nel caso di rapporti in cui è ammessa la libera
recedibilità (art. 3 L. 108/90).
In caso di abrogazione dell’art.18 il licenziamento
discriminatorio continuerebbe ad essere nullo, e pertanto incapace di produrre
la risoluzione del rapporto, ma anche qui verrebbe meno la specificità della
tutela attuale, che consente al lavoratore di non proseguire il rapporto e di
conseguire un’indennità di importo significativo in luogo della riassunzione.
Possibilità di evidente importanza nell’ipotesi del licenziamento
discriminatorio, essendo facilmente immaginabile che il lavoratore possa non
voler continuare il rapporto con un datore che lo ha licenziato per ragioni di
discriminazione (si pensi in particolare a ciò che può avvenire nell’ambito
di una piccola impresa).
Due ultimi profili. Uno attiene alla possibilità,
attualmente prevista dall’art.18, che il giudice disponga la provvisoria
reintegrazione del lavoratore licenziato in corso di giudizio, allorché si
tratti di dirigente delle rappresentanze sindacali aziendali (comma 7), all’evidente
scopo di garantirne la presenza sul posto di lavoro. Anche questa garanzia
sarebbe eliminata in caso di abrogazione.
L’altro riguarda l’effetto riflesso che l’abrogazione
avrebbe sulla disciplina dei licenziamenti collettivi. L’art.18 è infatti
richiamato dalla L. 223/91 (art.5, comma 3), che stabilisce l’applicabilità
della tutela reale in caso di inefficacia (mancata osservanza della forma
scritta o violazione delle procedure) o annullabilità (violazione dei criteri
di scelta) del provvedimento di messa in mobilità.
Che succederebbe in caso di abrogazione? Troverebbe
applicazione la tutela di diritto comune per l’inefficacia e la tutela
obbligatoria per l’annullabilità?
In conclusione, due sono le considerazioni fondamentali che
devono farsi in ordine alla situazione che conseguirebbe all’abrogazione dell’art.18.
In primo luogo, essa comporterebbe la possibilità, anche per le organizzazioni
di maggiori dimensioni, di licenziare illegittimamente, con la sola conseguenza
di dover corrispondere al lavoratore un’indennità (quella attualmente
prevista dall’art.8 L.604/66) in caso di mancata riassunzione. Considerato l’importo
di tale indennità, è evidente che la corresponsione della stessa non
costituirebbe un grande problema per le imprese maggiori, che godrebbero così
di fatto della libertà di licenziare. Del resto, non c’è dubbio che anche
oggi la tutela obbligatoria non è altro che “un modo di essere della
libera recedibilità”.
In secondo luogo, nelle ipotesi più gravi di licenziamento,
come per esempio nel licenziamento discriminatorio, resterebbe l’impossibilità
per il licenziamento di produrre effetti, in quanto la legge continuerebbe a
sancirne la nullità, ma il lavoratore godrebbe di una tutela diversa da quella
attuale. In particolare, come detto, non potrebbe chiedere la corresponsione
delle quindici mensilità in luogo della prosecuzione del rapporto. Il che, in
molti casi, significherebbe la costrizione a dimettersi per non continuare a
lavorare in condizioni impossibili.
Una pagina tutta da indagare è invece quella relativa agli
effetti che l’abrogazione dell’art.18 della legge 300/1970 determinerebbe
nell’ambito del rapporto di lavoro con le Pubbliche Amministrazioni, in
considerazione dell’avvenuto processo di privatizzazione e delegificazione del
rapporto di pubblico impiego portato avanti a partire dal Decreto Legislativo
n.29 del 1993. Certo è che in ogni casi anche su questo versante si aprirebbero
spazi pericolosissimi.